La risposta che Draghi non potrà dare domani in conferenza stampa

Massimo Giannini sulla Stampa

A Mario Draghi, costretto dalle polemiche mediatiche e politiche a tenere domani una conferenza stampa sulla vaccinazione obbligatoria per gli ultracinquantenni e sulle altre misure adottate dal Consiglio dei Ministri, il  direttore Massimo Giannini ha anticipato nell’editoriale di oggi della Stampa questa domanda: “Perché nel momento in cui il virus riprende forza e Omicron si diffonde la politica emana segnali così contraddittori?”. 

Brunetta al Corriere della Sera

Evidentemente Giannini non condivide la rappresentazione dell’ultima riunione di governo fatta dal ministro forzista Renato Brunetta. Che al Corriere della Sera, pur raccontando del collega leghista Massimo Garavaglia arrivato ad avviarsi all’uscita per protesta contro ciò che stava per essere deciso, ha detto che “il governo è il luogo della calma, dei toni bassi, delle approvazioni unanimi. Da febbraio a oggi su 109 provvedimenti – ha spiegato- è successo solo due volte che la Lega si sia astenuta. Dove sono le liti e le spaccature?”. 

Titolo del Corriere della Sera

Il governo insomma avrebbe tutto il diritto di essere “sereno”, ha titolato il Corriere in prima pagina l’intervista di Brunetta riesumando un aggettivo infausto per l’uso che ne fece otto anni fa l’allora segretario del Pd Matteo Renzi parlando di Enrico Letta, che dopo pochi giorni egli stesso avrebbe detronizzato per sostituirlo a Palazzo Chigi. Da allora la serenità in politica ha finito di avere il significato assegnato dal dizionario della lingua italiana. 

Già immaginato e rappresentato dal vignettista Riccardo Mannelli sulla prima pagina del solito Fatto Quotidiano in mutande, con un gioco sin troppo facile di idee e parole fra Draghi e “Braghi”, ben difficilmente il  pur franco presidente del Consiglio potrebbe rispondere a Giannini, o a chi nella conferenza stampa dovesse raccoglierne e rilanciarne la domanda, in modo conforme alla realtà. Che sarebbe pressappoco questo: più che dal Covid o dalla sua ultima variante, Omicron. il governo è disturbato, minacciato e quant’altro da una situazione politica intossicata dalla scadenza del Quirinale. E’ insomma il fattore Q, non O come Omicron o C come Covid, a determinare tensioni e confusioni nei partiti che fanno parte della maggioranza, divisi ancor più del solito fra di loro e al loro interno su come affrontare la scadenza istituzionalmente ineludibile del mandato di Sergio Mattarella. E ciò anche per la perdurante indisponibilità del presidente uscente della Repubblica ad essere confermato, come sempre da più parti, fuori dal Parlamento ma ora anche dentro, viene chiesto o auspicato nella ragionevole speranza che l’anno prossimo, al più tardi, esaurito anche il loro mandato, vengano elette le nuove Camere, ridotte peraltro di un terzo dei seggi. Dove anche i numeri, oltre che i sicuramente diversi rapporti di forza fra i partiti, potrebbero fare affrontare meglio, più in linea con gli orientamenti dell’elettorato, il problema della successione a Mattarella, se questi dovesse avvertire la sensibilità di riaprire il problema di una sua successione. 

Massimo Galli

Sarebbe la soluzione più semplice -altro che l”imbalsamazione” dello stesso Mattarella al Quirinale e di Draghi a Palazzo Chigi derisa da Marco Travaglio nell’editoriale del Fatto Quotidiano affiancato alla vignetta sul presidente del Consiglio in mutande. Si preferisce invece una corsa a soluzioni sempre più improbabili o estemporanee, compresa l’ultima appena proposta, fuori dal Parlamento, dall’ex sindaca grillina di Roma Virginia Raggi di un presidente “non politico”. Purché naturalmente non sia Draghi, troppo tecnico e troppo compromesso a Palazzo Chigi per risultare idoneo. Candidiamo allora il buon Massimo Galli, l’ex primario dell’ospedale Sacco di Milano, per solidarietà dopo essere stato contagiato da Omicron pure lui, ormai pensionato ma per fortuna protetto dalle tre dosi di vaccino iniettategli quando era ancora in servizio.  

Beppe Grillo scarica Mario Draghi, ma nell’indifferenza generale

Finalmente! No, o non ancora. Non vi sto anticipando il ripensamento di Sergio Mattarella, anche se aumentano di giorno in giorno le sollecitazioni al presidente uscente della Repubblica perché si renda disponibile ad una conferma, o ad un congelamento, nella confusione crescente sulla strada della sua successione. Cui deve provvedere un Parlamento ormai delegittimato da una improvvida riforma di sforbiciamento promossa dal partito, o movimento, che più avrebbe dovuto  proteggerne la rappresentatività, essendosi vantato di avere vinto le ultime elezioni politiche, nel 2018. 

Titolo di Domani

L’ultimo, in ordine cronologico, ad auspicare una conferma di Mattarella, o una sua spinta dietro le quinte per l’elezione di Mario Draghi, è stato il giornale debenedettiano Domani con un editoriale del suo direttore Stefano Feltri, preoccupato che l’incertezza stia danneggiando irreparabilmente anche il governo tanto voluto dallo stesso Mattarella meno di un anno fa per fronteggiare una serie di emergenze ancora attuali, a cominciare da quella sanitaria. 

Finalmente -dicevo- si può rilevare che Beppe Grillo non fa più nemmeno ridere. Le prime pagine della ventina di giornali quotidianamente riprodotte dalla solerte rassegna stampa del Senato hanno tutte -ma proprio tutte- ignorato l’ultima sparata del fondatore e tuttora garante del MoVimento 5 Stelle presieduto temporaneamente da Giuseppe Conte, o “in autogestione”, come ha detto la vice presidente Paola Taverna. Eppure è una sparata che in un altro momento avrebbe fatto rumore, trattandosi di una presa di distanza, quanto meno, dalla gestione della pandemia da parte di questo governo. Alla cui formazione e soprattutto guida Grillo diede un tale contributo da scandalizzare Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. 

Dal blog personale di Beppe Grillo

In particolare, nel suo blog ormai personale da un pezzo, rappresentandosi con tanto di bende e mascherina Grillo ha contestato a Draghi, ma evidentemente anche ai ministri pentastellati, una scommessa eccessiva, al pari di “gran parte dei paesi occidentali”, sulle vaccinazioni per fronteggiare la pandemia. Al cui contenimento non servirebbero misure di cui sarebbero state “sottovalutate le implicazioni” restrittive “sia sul piano dei diritti umani che sono caposaldi delle democrazie liberali, sia sul piano dei loro metodi di attuazione, che ben avrebbero potuto rispettare meglio la libertà di scelta degli individui e delle organizzazioni e comunità a cui fanno capo”. 

Dal Foglio, in prima pagina

Su una sola prima pagina -quella del Foglio, che forse non ha voluto smentire l’attenzione che con gusto elitario rivolge da tempo ai pentastellati, prendendoli spesso sul serio nella loro presunta ma intermittente evoluzione- la sparata antidraghiana di Grillo si è guadagnata un inciso -non di più- in un articolo dedicato alle difficoltà di Giuseppe Conte nella gestione di un movimento diventato ormai “l’aereo più pazzo del mondo, in grado di avere doppie e triple posizioni su tutto”. “Ieri -ha continuato e spiegato il quotidiano tra due belle parentesi- è stata la volta di Beppe Grillo e dell’elogio del modello cinese contro l’obbligo vaccinale”. Fuori parentesi è scritto che “il caos è fisiologico in un partito che conta ancora una decina di No vax”, come il deputato Gabriele Lorenzoni che ha recentemente definito la pandemia “uno stato mentale”. 

Il fiasco mediatico, questa volta, di Grillo promette bene non so se per Conte, che vive nell’incubo delle “battute” e simili del garante che lo ha recentemente liquidato come uno specialista di “penultimatum”, ma sicuramente per un Paese da troppo tempo in balia di un comico.

Ripreso da www,startmag.it

Sono alquanto prematuri i necrologi politici di Mario Draghi

Titolo del Dubbio
L’ultima di Travaglio, ieri, sul Fatto Quotidiano

Le difficoltà di Mario Draghi alla guida del governo – “il migliore”, come lo sfotte ogni giorno Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, ancora nostalgico di Giuseppe Conte- sono innegabili, per quanto anche l’ultimo decreto legge di contrasto al Covid sia stato approvato all’unanimità dal Consiglio dei Ministri. Sono difficoltà intervenute con la complicità, non a causa del virus e delle sue varianti.

              Più che della pandemia, Draghi soffre del clima politico intossicato dalla corsa al Quirinale. Che divide i partiti fra di loro e al loro interno più ancora di quanto non fossero lacerati già per i caotici sviluppi della legislatura cominciata nel 2018 con la “centralità”, addirittura, del movimento grillino. Centralità come quella -pensate un po’- della Dc di De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti, Forlani, De Mita della prima e ben lunga prima Repubblica.

               La corsa al Quirinale ha sempre disturbato, complicato, persino deviato il percorso dei governi di turno, in una soluzione di continuità fra prima e successive Repubbliche. Basterà ricordare, per non andare troppo lontano nel tempo, a ciò che costò nel 2015 al governo di Matteo Renzi l’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica: la rottura con Silvio Berlusconi sulla strada della riforma costituzionale, messa in cantiere come finalità della legislatura e bocciata clamorosamente in un referendum affrontato dallo stesso Renzi contro  un fronte esteso, a quel punto, dal Cavaliere a Massimo D’Alema, da Beppe Grillo ancora in versione vaffanculesca a un De Mita restituito, nell’occasione, alle prime pagine dei giornali e ai duelli televisivi.

               Per di più Draghi si è concesso il lusso della franchezza nel teatro abitualmente sulfureo della politica mostrandosi interessato, diciamo così, al Quirinale dalla postazione di Palazzo Chigi con l’immagine di “un nonno al servizio delle Istituzioni”. Eppure tutti, ma proprio tutti, avevano reclamato che lui non tacesse. 

               Scritto tutto questo e riconosciuto a Draghi -ripeto- l’errore paradossale della franchezza in quel mondo di ipocrisie, falsità, sgambetti e pugnalate che sa diventare la politica nei suoi passaggi peggiori, rifuggo dalla tentazione in cui sono caduti tanti giornali, con i titoli di ieri, di confezionare necrologi per quanto metaforici del presidente del Consiglio. E continuo a sperare che proprio per l’onda che cresce contro la risorsa più preziosa di cui dispone l’Italia, visto il prestigio personale che l’ex presidente della Banca Centrale Europea ha a livello mondiale, Sergio Mattarella si disponga finalmente ad una conferma che, congelando l’assetto istituzionale in attesa di un Parlamento più rappresentativo e legittimato di quello in scadenza, stabilizzi il governo da lui stesso voluto poco meno di un anno fa. Gli è stato del resto appena assegnato, sia pure dai cultori della pallavolo, il premio di “miglior giocatore”. 

Mario Draghi sempre più giù e Sergio Mattarella sempre più su

Sino a qualche settimana fa quella di Sergio Mattarella e di Mario Draghi sembrava una coppia politicamente fortissima. L’uno si godeva al Quirinale il merito acquisito mandando l’altro a Palazzo Chigi a chiusura di una crisi di governo a lungo sottratta addirittura alla sua gestione, avendo Giuseppe Conte ritardato di almeno un mese le dimissioni. Draghi, dal canto suo, si godeva il merito di avere coraggiosamente accettato un’eredità disastrosa e di avere portato l’Italia addirittura al titolo di “Paese dell’anno” conferito da un settimanale come l’inglese Economist, per non parlare degli elogi del Financial Times. O dei mercati e delle Cancellerie. 

Una volta lasciatasi scappare la voglia o disponibilità a trasferirsi al Quirinale come “un nonno al servizio delle istituzioni”, Draghi si è praticamente trovato a Palazzo Chigi come all’inferno. L’altra sera al Consiglio dei Ministri convocato per aggiornare le misure contro la pandemia egli ha dovuto metaforicamente guardarsi le spalle per l’assenza addirittura del ministro politico più amico e fedele assegnatogli da cronisti e retroscenisti. il leghista Giancarlo Giorgetti. E’ mancata persino la conferenza stampa finale alla quale Conte non si sottraeva mai, a qualsiasi ora dovesse toccargli di tenerla.

Il presidente del Consiglio ha mandato tre ministri nel cortile buio  di Palazzo Chigi, o dintorni, per soddisfare la curiosità dei giornalisti attorno a un decreto legge, peraltro, senza ancora un testo scritto. La cui urgenza è quanto meno relativa, essendo destinato all’applicazione da metà febbraio. Insomma, è stata una contonata qualsiasi, dal nome del predecessore di Draghi ora presidente, poveretto, del MoVimento 5 Stelle “in autogestione”, come ha appena detto con franchezza la vice presidente dello stesso Movimento e del Senato Paola Taverna. 

Titolo del Fatto
Titolo di Libero

La liquidazione del presidente del Consiglio sulle prime pagine dei giornali è stata oggi impietosa: dal “Draghi scocciato coi suoi” del Fatto Quotidiano al Draghi che “vuole andarsene” di Libero, dal Draghi che ci ha ridotti “come il Targikistan” del Tempo al “governo Draghi giunto alla fine del suo percorso” del debenedettiano Domani, o al “governo affaticato” del Foglio, che pure continua a sperare o a puntare come in un ossimoro sulla elezione di “Supermario” al Quirinale. Un ossimoro, perché uno sfiancato non può certo vincere una corsa come quella al Colle.  

Mattarella invece, per tornare alla coppia di apertura, è ulteriormente cresciuto di stima, gradimento e quant’altro. Non vi è ospite al Quirinale o uscita del presidente da quel palazzo che non gli riservi applausi e richieste esplicite o implicite di bis, scadendogli il mandato il 3 febbraio. 

Mattarella al Palazzetto romano dello Sport

Al Palazzetto romano dello Sport, dove si è recato ieri per assistere alla partita e premiare personalmente la Imeco Conegliano vincitrice della Coppa Italia di pallavolo, Mattarella si è guadagnato anche il premo di “miglior giocatore”. Da cui lui, con modestia, d’altronde titolare del ben diverso ruolo di arbitro assegnatogli dalla Costituzione, si è schivato dicendo di non meritarlo. 

Nella confusione, a dir poco, in cui ci troviamo, con un governo sfiancato pur sotto la guida di un uomo del prestigio internazionale di Draghi, e con un Parlamento -ripeto sino alla noia- delegittimato o comunque invecchiato in attesa delle Camere riformate per volontà dei grillini e degli alleati di turno succedutisi dal 2018, sarebbe ideale una conferma di Mattarella, libero poi di rimanere al Quirinale per altri sette anni o di andarsene prima, in condizioni politiche e istituzionali più chiare e stabili.  Ma lui continua a non volerne sapere. Mi chiedo cos’altro dovrà ancora succedere per fargli cambiare idea. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Le convergenze parallele del manifesto e del Giornale di famiglia di Berlusconi

Sono curiose ma non troppo le convergenze parallele di pur controverso conio moroteo fra i commenti di due quotidiani così diversi come il manifesto e il Giornale della famiglia Berlusconi al varo delle ultime, anzi sempre penultime misure adottate dal governo per fronteggiare la pandemia da Covid e varianti. 

“A scoppio ritardato”, ha titolato il quotidiano ancora e orgogliosamente comunista prendendosela col presidente del Consiglio evidentemente costretto dalla sua troppo larga ed eterogenea maggioranza di quasi unità nazionale, o addirittura indeciso di suo, ad affrontare con la necessaria tempestività gli sviluppi contagiosi del virus che da due anni ormai ci mette in croce e miete vittime. E chissà se si rivelerà efficace l’obbligo della vaccinazione per gli ultracinquantenni appena deliberato dal governo ad una unanimità a sorpresa dopo ore di contrasti. 

Augusto Minzolini sul Giornale

“Se Draghi -ha scritto nell’editoriale il direttore del Giornale berlusconiano Augusto Minzolini- non solo ieri (in parte) ma mesi fa avesse imposto l’obbligo vaccinale, mettendo i partiti di fronte alle loro responsabilità, non saremmo in queste condizioni. E non avremmo perso il vantaggio che avevamo rispetto agli altri Paesi europei. Ora si può dire ciò che si vuole, ma sorge spontaneo il dubbio che il premier non abbia usato tutto il potere che aveva a disposizione per non inimicarsi pezzi di maggioranza che potrebbero tornargli utili per il Colle”. L’allusione naturalmente è ai leghisti, formalmente impegnati come i fratelli politici di Giorgia Meloni a sostenere la candidatura al Quirinale di Silvio Berlusconi , ma sotto sotto tentati dall’aiutare Draghi a scalare il Quirinale. 

Ancora Minzolini sul Giornale

“Stesso discorso si potrebbe fare sull’economia, sull’energia e su quant’altro”, ha aggiunto con severità Minzolini spiegando: “Se il premier si fosse concentrato e avesse giocato tutto sul suo ruolo attuale (come si era comportato nella prima fase del suo governo) e avesse dichiarato pubblicamente di non essere interessato al Quirinale”, anzichè definirsi un nonno a disposizione delle istituzioni, “il suo governo avrebbe potuto tutto o comunque molto di più. E invece…”. “Più che una critica, è la speranza che torni ad essere un gigante”, ha concluso Minzolini risparmiandoci una spiegazione vera su quel “tutto” o “molto di più” che bisognava aspettarsi da Draghi su “economia, energia e quant’altro”. Lo farà evidentemente un’altra volta se il presidente del Consiglio, da qui al 24 gennaio, quando si comincerà a votare nell’aula di Montecitorio per la successione a Mattarella, non si sarà tirato fuori dalla corsa al Quirinale gridando la sua indisponibilità come il presidente uscente fa e fa dire dai suoi collaboratori a quanti insistono nel chiedergli un bis. 

Ciò che separa le convergenze parallele fra il manifesto e il Giornale e ripristina le divergenze è il futuro di Draghi. Che per il quotidiano comunista, in sintonia con la sortita ancora fresca di stampa di Massimo D’Alema contro il presidente del Consiglio, dovrebbe essere il ritorno a casa per liberare i partiti dal commissariamento in corso dall’omicidio -secondo Marco Travaglio- o dal suicidio, più probabile, di Giuseppe Conte. Per il Giornale della famiglia Berlusconi il futuro di Draghi dovrebbe invece essere ancora a Palazzo Chigi, senza interruzioni di sorta, perché il professore sarebbe. o continuerebbe ad essere, per un Berlusconi fortunosamente al Quirinale il migliore presidente del Consiglio possibile e immaginabile. Ma il problema, grosso come un grattacielo, è come fare arrivare davvero Berlusconi sul Colle da inquilino, e non da invitato a qualche cerimonia, o da presidente a vita della sua Forza Italia nelle consultazioni più o meno di rito per la crisi governativa di turno. 

Ripreso da http://www.startmag.it

I grandi e risentiti elettori del presidente della Repubblica

Titolo del Dubbio

Non so quanto carbone la Befana abbia messo nella calza destinata a Massimo D’Alema. Ne immagino molto per la posizione che egli si à guadagnato di segretario, o giù di lì, del partito dei risentimenti che il buon Antonio Polito ha evocato sul Corriere della Sera scrivendo del ritorno di “Baffino” sulle prime pagine dei giornali.

Massimo D’Alema

Polito non a torto ha rinfacciato a D’Alema il fiasco elettorale del partito improvvisato con Pier Luigi Bersani ed altri compagni uscendo nel 2017 dal Pd che Matteo Renzi si ostinava a voler guidare pur avendo perduto, o proprio per avere perduto il referendum sulla riforma costituzionale con un il 40 per cento dei sì contro il 60 dei no. Che fu un risultato ancora traducibile discretamente, e da solo, in seggi parlamentari se Sergio Mattarella, peraltro giunto nel 2015 al Quirinale proprio su spinta di Renzi,  gli avesse concesso le elezioni anticipate. D’altronde, la bocciatura della riforma esauriva una legislatura pericolante sin dall’inizio ma protetta in funzione di quella riforma. Tuttavia non ci fu verso. Mattarella non ne volle sapere, e tanto meno Paolo Gentiloni spinto anche lui a Palazzo Chigi proprio da Renzi. Che pertanto qualche ragione di risentimenti ce li avrebbe, e non solo contro D’Alema che a sua volta, da rottamato, potrebbe giustificarne nei riguardi sempre di Renzi. 

Come vedete, è una somma o un incrocio di risentimenti, ripeto, che può ben essere evocato, e non solo da e nei termini in fondo contenuti di Polito, più di quanto abbia  appena fatto io raccogliendo la palla. Dove l’editorialista del Corriere sbaglia, secondo me, è nella raccomandazione di “secolarizzare” i risentimenti nelle elezioni presidenziali, come seppero fare Nenni ritirandosi nel 1964 dalla corsa al Quirinale per far passare Saragat, che pure nel 1947 gli aveva spaccato il partito socialista, o Craxi e Natta nel 1985 votando per Cossiga. 

A quest’ultimo il leader socialista poteva ancora rimproverare, secondo Polito, la gestione dura e luttuosa come ministro dell’Interno del sequestro Moro, e il leader comunista invece la vicenda del figlio terrorista di Carlo Donat-Cattin, per la quale Enrico Berlinguer aveva cercato di mandarlo sotto processo, per quanto cugino, davanti alla Corte Costituzionale come presidente del Consiglio.

Tutto vero, o parzialmente vero, per carità. Parzialmente almeno per il rapporto fra Craxi e Cossiga perché i rapporti fra i due erano migliorati già prima delle elezioni presidenziali del 1985, avendo potuto Cossiga formare fra il 1979 e il 1980 ben due governi grazie anche ai socialisti. 

Le elezioni presidenziali programmate dal 24 gennaio hanno la sfortuna non tanto di svolgersi come in una fiera di risentimenti, cui D’Alema ha aggiunto i suoi per un Draghi che vorrebbe addirittura “autoeleggersi” al Quirinale e farsi rappresentare a Palazzo Chigi dal “funzionario” che sarebbe l’attuale ministro dell’economia, quanto di essere diventate appannaggio di un Parlamento di fatto scaduto o delegittimato. 

Pubblicato sul Dubbio

Dalla giostra alla maratona del Quirinale in questi tempi di Covid

Col calendario fissato dal presidente della Camera convocando per il 24 gennaio parlamentari e delegati regionali per l’elezione del presidente della Repubblica, e programmando non più di una votazione al giorno a causa di modalità e tempi imposti dalle misure di prevenzione dai contagi in periodo di pandemia, quella del Quirinale non è più la giostra di tutte le precedenti edizioni. E’ diventata una maratona.

Giuseppe Saragat

Nel 1964, quando si votò per eleggere il successore del  democristiano Antonio Segni, impedito da un ictus all’esercizio del mandato settennale conferitogli nel 1962 dal Parlamento, il socialdemocratico Giuseppe Saragat per vincere la partita impiegò 21 scrutini in 12 giorni. Durante i quali tramontò per rinuncia “spontanea”, ma maturata con una certa sofferenza all’interno del partito, del candidato democristiano Giovanni Leone a vantaggio appunto di Saragat. Che fu sostenuto soprattutto dall’allora presidente del Consiglio Aldo Moro allo scopo di stabilizzare la maggioranza di centro-sinistra che lo aveva portato nell’autunno del 1963 dalla segreteria della Dc a Palazzo Chigi. 

Giovanni Leone

Nel 1971, quando si votò per la successione a Saragat, furono necessarie 23 votazioni in 16 giorni per archiviare la candidatura iniziale del democristiano e allora presidente del Senato Amintore Fanfani, sbarrare nella Dc la strada alla candidatura dell’altro “cavallo di razza” del partito, Moro, e mettere, anzi rimettere in pista Giovanni Leone, considerando le elezioni presidenziali precedenti.

Il cadavere di Moro

Nel 1978 occorsero 16 votazioni in 9 giorni per trovare nel socialista Sandro Pertini il successore a Leone, praticamente costretto dal suo partito, su pressione soprattutto del Pci, alle dimissioni anticipate, sia pure di soli sei mesi rispetto alla scadenza ordinaria, per i veleni politici prodotti dalla drammatica vicenda del sequestro di Aldo Moro. Che, rapito dalle brigate rosse il 16 marzo, era stato ucciso il 9 maggio, sacrificato dalla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale sull’altare di una linea della fermezza non condivisa a livello politico dai socialisti e a livello istituzionale proprio da Leone. Che per evitare l’esecuzione della “sentenza” di morte emessa contro Moro dalle brigate rosse stava per concedere la grazia ad una delle tredici persone detenute nelle carceri italiane per reati di terrorismo con le quali i sequestratori del presidente della Dc avevano reclamato di scambiare l’ostaggio. Piuttosto che fermarsi, gli assassini accelerarono la morte di Moro precedendo l’iniziativa del capo dello Stato.

Oscar Luigi Scalfafo

Nel 1992, in un clima politico intossicato dalle indagini giudiziarie su Tangentopoli, utilizzate dai comunisti anche per liberarsi di un Bettino Craxi diventato per loro ancora più ingombrante dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, occorsero 16 votazioni in 12 giorni  per sbarrare la strada del Quirinale al segretario della Dc Arnaldo Forlani,  anche con quei catafalchi montati nell’aula di Montecitorio a tutela del voto segreto, contrastare pure il concorrente occulto, ma non troppo, Andreotti e trasferire dalla presidenza della Camera alla presidenza della Repubblica il loro collega di partito Oscar Luigi Scalfaro. E ciò non tanto per convinzione quanto per reazione emotiva allo shock della strage mafiosa di Capaci, in cui avevano perso la vita Giovanni Falcone, la moglie e quasi tutta la scorta. 

Mario Draghi

Ora, al passo rallentato imposto dal Covid, così rapido invece nella sua diffusione, chissà di quanto tempo avranno bisogno i partiti- già in tali difficoltà da avere dovuto subire un governo di emergenza affidato da un Mario Draghi avvertito o vissuto, sotto sotto, sempre più come un commissario- per trovare un’intesa sulla successione a Sergio Mattarella. 

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L’enigmatico cantiere del Quirinale allestito dai partiti

Neppure oltre Tevere, dove una volta si aveva una conoscenza tanto dettagliata della politica italiana da poterne anticipare e condizionare gli sviluppi in concorrenza con oltre Oceano, non riescono a farsi un’idea univoca del problema della successione a Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. 

Dall’Osservatore Romano

Alla cautela emersa in occasione della visita preannunciata di “congedo” dello stesso Mattarella in Vaticano prima di Natale, quando di “congedo” appunto si evitò di scrivere nei comunicati ufficiali anche del Quirinale, e non solo della Segreteria di Stato, è subentrata una lettura restrittiva del messaggio di Capodanno del presidente della Repubblica da parte del mitico Osservatore Romano di altri tempi. Il cui anonimo estensore di una breve nota ha appena scritto con nettezza che con quel messaggio “Sergio Mattarella ha chiuso definitivamente ogni possibilità a una sua rielezione”. Alla quale magari -potrà pensare qualcuno- si preferirebbe l’elezione di Mario Draghi, tanto apprezzato da Papa Francesco in persona da essere stato da lui nominato alla Pontifica Accademia della Scienze Sociali ben prima che Mattarella lo chiamasse per destinarlo a Palazzo Chigi. 

Ad una conferma del presidente uscente della Repubblica continuano  tuttavia a pensare alcuni più direttamente interessati alla successione in quanto esponenti di quel grande collegio elettorale che fra qualche settimana diventerà a Montecitorio l’assembla congiunta dei deputati, senatori e delegati regionali. Fra i quali vi sono certamente i decisamente ed esplicitamente contrari “fratelli d’Italia” di Giorgia Meloni, i leghisti meno perentori di Matteo Salvini e i forzisti ostili a qualsiasi ipotesi diversa dalla candidatura di Silvio Berlusconi, almeno fino a quando il Cavaliere -dicono gli ottimisti- non si rassegnerà a fare il regista, o solo a partecipare alla regìa della soluzione finale. Ma ci sono anche quella cinquantina di parlamentari  sparsi recentemente accreditati dal giornale dei vescovi italiani –Avvenire- come decisi a votare per Mattarella già dal primo scrutinio, per tenere accesa la fiamma o fiammella della conferma, e ora anche la maggioranza dei senatori pentastellati riunitisi per esaminare la situazione. E decisi a non rimanere estranei alla partita delle trattative, o simili: contrari quindi ad una delega in bianco al presidente del MoVimento Giuseppe Conte. Del quale evidentemente non piace la disponibilità, reale o attribuita che sia, ad una candidatura di Draghi o di una donna, preferibilmente, del centrodestra come Letizia Moratti. Che, poveretta, alla prima comparsa del suo nome nelle cronache della corsa al Colle si è preoccupata non dico di tirarsi fuori, ma almeno di ribadire la convinzione che non possa esservi un candidato di centrodestra diverso e tanto meno migliore di Berlusconi. 

Titolo di Repubblica

Certo, le aperture grilline a un bis di Mattarella -nella convinzione che allo stato assai confuso e pericoloso delle cose la soluzione più prudente sia quella di lasciare tutto com’è sino all’arrivo delle nuove Camere, massino fra poco più di un anno- sono problematiche nel contesto, non a torto rilevato da alcuni giornali, di un sostanziale commissariamento di Conte come presidente e leader del MoVimento 5 Stelle, da controllare a  vista o all’ascolto. Ma che sia venuto allo scoperto sulla strada di una pur improbabile conferma o proroga del presidente uscente un gruppo parlamentare, e non un anonimo o generico raggruppamento dei tanti che affollano le cronache di questa curiosa e transumante legislatura, in cui non passa giorno, o quasi, senza che qualcuno non cambi casa o casacca, è un fatto da rilevare, pur senza l’enfasi odierna di certi giornali come la Repubblica.  

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Il pretesto del Mattarella succubo silenzioso dei magistrati

Augusto Minzolini sul Giornale del 2 gennaio
Dal Giornale del 2 gennaio

Come se si fossero consultati da consumati colleghi, peraltro  avvicendatisi alla direzione del Giornale di famiglia del candidato almeno più anziano al Quirinale, che è Silvio Berlusconi con i suoi 85 anni compiuti a fine settembre scorso, Alessandro Sallusti, ora alla guida di Libero, e Augusto Minzolini, in ordine rigorosamente d’età, hanno contestato al presidente uscente della Repubblica Sergio Mattarella di avere ignorato nel suo messaggio di Capodanno i problemi non certamente superficiali della giustizia in Italia. E di averli ignorati nella doppia veste costituzionale di capo dello Stato e di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura a “pochi giorni” -come ha tenuto a sottolineare lo stesso Mattarella in apertura del discorso- dalla fine del suo “ruolo”. 

Titolo di Libero
Su Libero del 2 gennaio

Dei due, il più anziano o il meno giovane, come preferite,  Alessandro Sallusti, con un pizzico forse di franchezza o di astuzia in più, sempre come preferite, ha premesso alla sua critica una convinzione minore dell’altro che sia davvero tramontata o archiviata l’ipotesi di una rielezione del presidente uscente. “Salvo colpi di scena”, ha scritto il direttore di Libero riferendo della “chiusura del settennato al Colle” di Mattarella. Come per dire, se mai dovesse riemergere l’ipotesi di una conferma -attribuita senza tanti misteri da altri giornali soprattutto alle tentazioni del segretario del Pd Erico Letta, per quanto altri invece lo immaginino ogni tanto impegnato a lavorare dietro le quinte per l’elezione al Quirinale di Mario Draghi- che la possibilità o disponibilità ad una sostanziale proroga del presidente in carica debba essere valutata tenendo conto anche del presunto o reale difetto del suo messaggio di Capodanno in materia di giustizia o (in)giustizia in Italia. 

Oltre a richiamarsi alla notissima vicenda di Luca Palamara, di cui Sallusti si considera ormai quasi un testimone al dettaglio e al tempo stesso uno storico per averla raccontata a quattro mani con l’ormai ex magistrato e leader di associazione dai cui contatti e quant’altro sono dipese per anni le carriere lottizzate di tante toghe, i due giornali di area di centrodestra hanno rimproverato a Mattarella di non avere voluto o saputo cogliere neppure la drammatica attualità del suicidio natalizio dell’ex consigliere forzista della regione Piemonte, Angelo Burzi. Che si è sparato in casa rivendicando la sua innocenza dopo essere stato assolto in primo grado e condannato in appello per un presunto peculato di poche migliaia di euro  a 3 anni di carcere. Magari -si è fatto capire- sarebbe bastato un accenno a conclusione di un altro anno giudiziariamente infelice, con assoluzioni tardive -a carriere politiche irrimediabilmente distrutte-  e severità sospette, a dir poco. 

Certo, lo ammetto, sarebbe stato meglio se Mattarella se ne fosse in qualche modo occupato. Ma non mi sembra neppure giusto ignorare le numerose volte in cui anche quest’anno, pur non arrivando all’estrema e inedita misura nella storia della democrazia italiana di uno scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura dopo il suq di carriere e nomine emerso come in una fogna a cielo aperto, Mattarella ha denunciato pure lui le gravi condizioni di una magistratura -ha detto- che ha ormai bisogno di una “rigenerazione”. 

Rigenerazione -ripeto- non è una parola da poco, che solo la disinvoltura dei destinatari degli interventi del presidente della Repubblica ha potuto fingere di non sentire e non capire: la stessa disinvoltura, per esempio, con la quale i superstiti e gli aedi della presunta epopea di Mani pulite, a Milano, hanno opposto il silenzio più sconcertante, e direi anche sfrontato, alla grave denuncia testimoniale del giudice Guido Salvini sull’assegnazione di così tante e diverse vicende di Tangentopoli ad un unico giudice delle indagini preliminari. Il quale si sentiva evidentemente -aggiungo io all’articolo clamoroso e coraggioso di Guido Salvini sul Dubbio– così vicino agli inquirenti, anche loro sempre gli stessi, da suggerire agli interessati per iscritto di cambiare il tipo di imputazione per ottenere l’arresto di turno appena richiesto. Mi chiedo cos’altro debba ancora venire fuori da quella storia ben poco esaltante per contestare le proteste da “revisionismo” che si levano ontro le troppe anomalie di quegli anni quando ne emergono di nuove o solo vengono rievocate le vecchie.

Tutto ciò premesso, comunque, non trovo condivisibile la strumentalizzazione che, volenti o nolenti, si fa della posizione del presidente della Repubblica uscente sui malanni della giustizia quando l’obiettivo finale sembra quello di contrastarne l’ipotesi di una conferma. Che evidentemente è sopravvissuta, sotto sotto, anche al commiato  di fine anno di Mattarella presentato come un “addio” dal Corriere della Sera o “ultimo atto” dal Giornale: l’uno e l’altro dimenticando, fra l’altro, che una conferma del presidente uscente, e conseguente stabilizzazione del governo Draghi, sarebbe un’assicurazione per la legislatura in corso. La cui interruzione comprometterebbe, con le elezioni anticipate, il rinvio dei referendum della primavera prossima sulla giustizia. Che, tra separazione delle carriere, responsabilità civile davvero dei magistrati e altro ancora, considerando la scarsa agibilità mostrata dalla legislatura in corso su questo terreno, sarebbero l’unica garanzia di un cambiamento di passo e di contenuto nei rapporti fra giustizia e politica, o società.  

Pubblicato sul Dubbio

Il ritorno improvviso di “Dalemoni” in funzione anti-Draghi al Quirinale

Per favore, non facciamoci distrarre dai dettagli, per quanto rumorosi, come lo scontro fra Massimo D’Alema ed Enrico Letta esploso mentre il primo preparava il ritorno nel Pd con i suoi compagni “scissionisti” del 2017 e il secondo assecondava dietro le quinte l’operazione. Vediamo la sostanza vera del pesce d’aprile fuori stagione di D’Alema.

L’obiettivo di “Baffino” nella conversazione telematica con gli amici della piccola formazione politica  nata uscendo cinque anni fa dal Pd ancora nelle mani di un Renzi pur costretto ad abbandonare Palazzo Chigi, non è stato lo stesso Renzi, indicato come “il male” da cui sarebbe “guarito” il partito, che ora potrebbe ricomporsi sotto la guida di un imbarazzato Enrico Letta. Il quale non si sente guarito di niente, per quanto abbia avuto ragioni di risentimento anche personale con chi  -Renzi, appunto- gli soffiò la guida del governo nel 2084. 

L’obiettivo di D’Alema, in questo passaggio della politica italiana dominato dalla cosiddetta corsa al Quirinale, è stato ed è Mario Draghi. Di cui non piace a “Baffino” né l’idea che succeda a Sergio Mattarella né o soprattutto che egli si scelga per la successione a Palazzo Chigi il “funzionario” che, facendo il governo quasi un anno fa, con astuta preveggenza nominò superministro dell’ Economia. Si tratta naturalmente  di Daniele Franco. Questa -ha detto D’Alema- “non è democrazia”. Punto e basta.  

Silvio Berlusconi

Nell’offensiva contro Draghi -altra notizia nella notizia, come in una matrioska- D’Alema si ritrova con Silvio Berlusconi come nel 1997, quando fu aiutato dal fondatore e leader del centrodestra ad assumere la presidenza  della commissione bicamerale per le riforme istituzionali in funzione di contenimento dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. Che pure nel 1996 aveva sconfitto Berlusconi nelle elezioni politiche sfatandone la invincibilità attribuitagli nel 1994 per l’umiliazione  inferta alla sinistra raccolta attorno ad Achille Occhetto come in una “gioiosa macchina da guerra”.

Quella delle convergenze parallele di memoria morotea fra Berlusconi e D’Alema nel 1997 non fu un’operazione velleitaria perché, in effetti, un anno e mezzo dopo Prodi già non era più presidente del Consiglio, sostituito appunto da D’Alema. Che due anni ancora dopo, nel 1999, per quanto anch’egli già costretto a lasciare Palazzo Chigi, avrebbe potuto diventare presidente della Repubblica con i voti parlamentari del centrodestra, o almeno di Forza Italia, solo se Berlusconi avesse avuto il coraggio di seguire sino in fondo i consigli del suo ex ministro dei rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara, proveniente familiarmente dal Pci.

Ma Berlusconi non se la sentì. Si tirò indietro all’ultimo momento con una telefonata che D’Alema gli chiese inutilmente di rendere pubblica per smentire  lo spettacolo di “Dalemoni” che raccontava sull’Espresso, binocolo a tracolla, il buon Giampaolo Pansa. Siamo troppo avversari elettoralmente perché io possa votarti al Quirinale, disse praticamente Berlusconi a “Baffino”. E infatti al Colle salì Carlo Azeglio Ciampi.

Ora “Baffino” ha detto contro Draghi al Quirinale ciò che forse vorrebbe dire anche Berlusconi ma non può per non smentire stima e amicizia ostentate anche in una celebre fotografia dell’anno scorso, nei giorni in cui il presidente del Consiglio incaricato incontrava le delegazioni dei partiti per formare il suo governo. Di Draghi, proprio in virtù di quel rapporto, ora Berlusconi può solo dire, come dice, correndo ostinatamente per il Quirinale anche in concorrenza con lui, che è troppo bravo e necessario a Palazzo Chigi per trasferirsi sul Colle. 

Draghi e Berlusconi quasi un anno fa

Ecco: questa è la sostanza dell’uscita di D’Alema ancora una volta convergente con Berlusconi, in una riedizione del Dalemoni del compianto Giampaolo Pansa. I due celebrano in qualche modo le nozze d’argento, a 25 anni dal 1997.  

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