Il piccolo compromesso di Villa Grande: candidatura frenata di Berlusconi al Colle

Titolo del Foglio

Dalla Villa Grande, con tutte le maiuscole volute dal proprietario, è uscito un piccolo e paradossale compromesso sulla candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale. Finalmente ufficializzata dal centrodestra, come se Matteo Salvini e Giorgia Meloni fossero stanchi di essere sospettati di non volerla, o di non volerla con la necessaria convinzione, essa è stata frenata dallo stesso Berlusconi con una riserva che conferma da sola i perduranti sospetti del Cavaliere. Che deve continuare a fare i conti col suo stesso schieramento, e non solo con gli avversari politici che hanno replicato alla sua candidatura pur frenata definendola “irricevibile”. 

Questa edizione della corsa al Quirinale continua ad essere la più anomala di tutte, a parte quella del 1992, irripetibile -spero-per la drammaticità della strage di Capaci, che interruppe la ricerca di una soluzione ordinaria della successione a Francesco Cossiga e restrinse la partita ad una scelta di emergenza istituzionale, più emotiva che politica, fra i presidenti delle Camere. La spuntò il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, preferito peraltro più dai socialisti e dai comunisti, per non parlare di Marco Pannella, che dal proprio partito ancora scioccato dal naufragio della candidatura del suo segretario Arnaldo Forlani. I socialisti preferirono il presidente della Camera per la fiducia personale a torto riposta in lui da Bettino Craxi in persona, che se ne sarebbe poi pentito scrivendogli lettere senza risposta contro la demolizione giudiziaria della cosiddetta prima Repubblica e sua personale. I comunisti, o post-comunisti come già volevano essere chiamati dopo la caduta del muro di Berlino, lo preferirono per il posto che l’elezione di Scalfaro liberava a Montecitorio, a vantaggio del loro Giorgio Napolitano.

Le possibilità che Berlusconi ha di essere eletto anche dopo la ufficializzazione della sua pur frenata candidatura non dipendono dalla capacità negoziale del centrodestra ora a trazione salviniana per ridurre l’area pubblica ed estesa del no -dal Pd ai 5 Stelle- ma dalle capacità personali dello stesso Berlusconi di conquistare consensi nell’area indefinita degli amici delusi o perduti, degli indecisi e dei dissidenti dei partiti e gruppi dichiaratamente contrari, nel marasma che è diventato il Parlamento dei 250 e più, fra deputati e senatori, che hanno cambiato casacca, bandiera e quant’altro nei quasi quattro anni trascorsi dalle elezioni del 2018. Un Parlamento, peraltro, reso ancora più precario di quanto non lo sia per la prossimità della scadenza a causa di un radicale taglio di seggi che lo ha trasformato in una tonnara. Dove deputati e senatori destinati a non tornare vogliono votare solo per un presidente che lasci le Camere durare sino all’ultimo secondo del loro mandato quinquennale. 

Mario Draghi

Ne ha quindi di lavoro da svolgere sotto traccia Berlusconi nella settimana di tempo che i leader e leaderini del centrodestra si sono dati per ritrovarsi e cercare di fare i conti meglio o meno approssimativamente di ieri: una settimana nella quale quello che è diventato il maggiore concorrente del Cavaliere, cioè il presidente del Consiglio Mario Draghi, non se ne starà sicuramente con le mani in mano, convinto com’è -e giustamente- di avere ancora molte carte a suo favore, salvo ripensamenti di Sergio Mattarella. Che però proprio ieri ha voluto accomiatarsi dai quirinalisti che lo hanno seguito nei quasi sette anni trascorsi dal suo insediamento, quasi per ribadire la indisponibilità ad una conferma su cui invece sono ancora in tanti a sperare, se non a scommettere. “Sarebbe il massimo”, ha detto di recente alla televisione, non in privato a qualcuno, il segretario del Pd Enrico Letta. 

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Frattini presidente del Consiglio di Stato ma forse già riserva della Repubblica

Titolo del Dubbio

Curioso destino potrebbe essere quello di Franco Frattini riserva della Repubblica sul piano istituzionale e politico per pochi giorni e poche ore dopo l’elezione, peraltro all’unanimità, a presidente del Consiglio di Stato. E ciò mentre nella villa romana di Silvio Berlusconi, suo ex presidente del Consiglio, maturava la candidatura ormai ufficiale dello stesso Berlusconi alla Presidenza della Repubblica, dopo mesi di paradossale clandestinità o incertezza assai apparente.

          Se, nonostante le telefonate condotte da solo o in tandem col suo amico Vittorio Sgarbi, peraltro convertitotsi -sempre al telefono- in un minuto dallo scetticismo o dalla contrarietà al ruolo di sponsorizzatore, Berlusconi non dovesse farcela per un misto combinato di franchi tiratori e assenti da Covid, Frattini potrebbe diventare la cosiddetta soluzione B della corsa del centrodestra al Quirinale. 

         Defilatosi in tempo dalla politica negli anni scorsi per tornare alle funzioni di magistrato amministrativo, egli potrebbe ben essere considerato anche dai nemici irriducibili di Berlusconi come l’esponente meno divisivo dell’area politica del centrodestra. Meno divisivo anche dell’ex presidente del Senato Marcello Pera, appartatosi sì ma permettendosi il gusto, la licenza e quant’altro di sfotticchiare, diciamo così, il Cavaliere e di dare consigli, compiaciuto dell’eco da essi prodotta, a un Matteo Salvini in grande competizione, per quanto amichevole, con lo stesso Cavaliere per una leadership effettiva, non onoraria, del centrodestra. 

        Politicamente, nonostante un tentativo fallito dal manifesto di attribuirgli simpatie adolescenziali per la sinistra extraparlamentare, Frattini nasce socialista, segretario -fra l’altro- della federazione giovanile del Psi. Claudio Martelli -che era di grandi pretese nella scelta dei suoi consiglieri e collaboratori nell’azione di governo, tanto da portarsi al Ministero della Giustizia Giovanni Falcone, pur completando una pratica avviata, in verità, dal predecessore e compagno di partito Giuliano Vassalli –  si fece affiancare proprio da Frattini come consigliere giuridico nel ruolo di vice presidente del Consiglio con Giulio Andreotti a Palazzo Chigi. 

       Quando la cosiddetta prima Repubblica cadde per mano giudiziaria, pur indebolita certamente da pratiche di potere che potevano essere più accorte, e meno basate sulla convinzione che così facevano tutti, per cui nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di liquidare un intero sistema politico come un’associazione a delinquere; quando, dicevo, la cosiddetta prima Repubblica cadde per mano giudiziaria e Berlusconi decise di allestire una specie di arca di Noè per i resti dei partiti di maggioranza, fu naturale che Frattini vi saltasse dentro. Altrettanto naturale fu che Berlusconi non se lo lasciasse scappare nella selezione che dovette fare della classe dirigente e di governo a tappe forzate, nella pianura dove il segretario del Pds-ex Pci Achille Occhetto si era vantato di avere allestito una “gioiosa macchina da guerra” con la quale sgominare gli avversari. 

Berlusconi e Frattini al governo

          Sottovalutalo all’inizio con la destinazione prima alla segreteria generale di Palazzo Chigi con lo stesso Berlusconi e poi come ministro della funzione pubblica  con Lamberto Dini -ma, non ditelo per favore, a Renato Brunetta, che con questo incarico ha fatto la sua fortuna politica più che come economista da potenziale premio Nobel- il Cavaliere corresse presto il tiro. E portò Frattini al vertice della diplomazia come ministro degli Esteri, dopo averlo mandato a rappresentare l’Italia nella Commissione Europea. 

             Per un certo tempo Frattini è stato in corsa, e con buone carte da giocare, anche per la segreteria generale dell’Alleanza Atlantica, forte del credito guadagnatosi sul piano internazionale negli anni della partecipazione italiana alla guerra in Irak. 

       Se solo lo avesse voluto, egli avrebbe potuto fare anche una grande carriera partitica in Forza Italia, dove sembra che Berlusconi fosse stato a suo tempo tentato di preferirlo ad Angelino Alfano come delfino, salvo poi scoprire che gli mancasse -ricordate?- un certo quid. Ma Frattini non ci cascò, per sua fortuna, e col sollievo di tanti che nell’entourage del Cavaliere capirono che l’uomo non si sarebbe lasciato facilmente mettere poi da parte. 

           Le circostanze forse diaboliche hanno voluto che toccasse ad un uomo di questo spessore culturale, giuridico e anche caratteriale raggiungere il vertice del Consiglio di Stato mentre si gioca l’edizione forse più difficile e imprevedibile della corsa al Quirinale: quella su cui Berlusconi ha deciso di puntare tutto  per ragioni non foss’altro anagrafiche, alla bella età di 85 anni compiuti. Frattini potrebbe diventare la sua carta di riserva per le distanze che le circostanze -sempre loro- hanno consentito di porre fra lui e la politica. Non è mai accaduto che un presidente del Consiglio salisse al Quirinale da presidente della Repubblica, si dice di Draghi in questi giorni anche dalle parti di Berlusconi. Non è mai accaduto che vi salisse neppure un presidente del Consiglio di Stato: organo da cui di solito si è pescato abbondantemente e sempre solo per cariche amministrative di capo di Gabinetto di Ministri e simili. Ma una prima volta, si sa, prima o dopo, può arrivare per tutto.

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Draghi con una telefonata si allunga la vita di candidato al Quirinale

Dalla prima pagina della Stampa

Convinto evidentemente pure lui da un noto e felice messaggio pubblicitario che una telefonata può allungarti la vita, anche di candidato al Quirinale, Mario Draghi ha affidato a un ministro questo messaggio per ora raccolto e rilanciato solo da Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa, in prima pagina: “Se toccasse a me essere scelto per il Quirinale, non potrei certo indicare un successore o mettere a punto un nuovo esecutivo. Lascerei mano libera alla politica. Sarebbero i leader a trovare un accordo tra loro”. 

Salvo improbabili smentite, il presidente del Consiglio ha cercato così  di rasserenare scettici, critici e persino avversari sterilizzando le prerogative del capo dello Stato più temute dai partiti, specie nei loro momenti peggiori, quando sono in crisi di prospettive e persino di identità.

La prima prerogativa, in ordine rigorosamente numerico per come è stata scritta e approvata la Costituzione, è quella dell’articolo 88: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”. La seconda prerogativa è quella dell’articolo 92: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Nomina e basta, senza dover sentire sulla carta nessuno. Tanto è vero che le consultazioni per le soluzioni delle crisi di governo sono solo una prassi, per quanto consolidata, non prescritte dalla Costituzione. E infatti nell’ultima crisi, convintosi che non fosse il caso di sciogliere le Camere e mandare alle urne gli italiani in piena pandemia, a rischio quindi di contagi, Sergio Mattarella affidò la formazione del nuovo governo allo stesso Draghi di sua completa, autonoma iniziativa. 

Titolo del manifesto
Titolo del Foglio

Vedremo se questo messaggio così rispettoso, così aperto ai partiti passerà per il collo di bottiglia della corsa al Quirinale, volendo parafrasare il felice titolo odierno del solito manifesto, e prevarrà su altre telefonate di cui da giorni si occupano i giornali: quelle che da solo o col supporto dell’amico e deputato Vittorio Sgarbi va facendo Silvio Berlusconi per convincere i cosiddetti grandi elettori indecisi a votarlo. Telefonate che sembrano avere infastidito Matteo Salvini, pur impegnato formalmente a sostenere le ambizioni quirinalizio del suo alleato, e sono oggi sbertucciate anche da un giornale non certo antipatizzante di Berlusconi come Il Foglio. Il cui fondatore ed ex ministro di Berlusconi, Giuliano Ferrara, ha tenuto a ribadire il sostegno a Draghi per il Quirinale.

Giuliano Ferrara oggi sul Foglio
Ferrara sul Foglio del 12 gennaio

Leggete, in particolare, quello che ha scritto Ferrara: “Devo specificare che io, vecchio pirata berlusconiano da tempo in disuso, sempre innamorato del senso di quell’avventura ma conformisticamente rientrato da tempo nella normale routine della nomenclatura politica più pazza e insieme scipita del mondo, nell’area politica più derelitta dell’universo dopo quella di destra, cioè il centrosinistra e nella mia modesta funzione di osservatore e pensionato, sono per l’elezione al Quirinale di Mario Draghi, come ho scritto mille volte”. E con ciò mi pare che il fondatore del Foglio abbia voluto anche dissipare ogni equivoco sui riconoscimenti e apprezzamenti umani del Cavaliere ancora l’altro ieri , come questo agrodolce: “Il Cav,. si conferma, comunque vadano a finire le cose in uno di quei sogni a occhi aperti che per gli avversari è un incubo, un gigante dell’opportunismo politico, del tempismo, e un combattente bestiale, audace e tremendamente volitivo”. 

Claudio Cerasa sul Foglio del 12 gennaio

“Le incertezze sono molte, le certezze sono poche e tra le certezze -scriveva in quello stesso il direttore del Foglio Claudio Cerasa scommettendo su un ripensamento di Berlusconi- c’è la consapevolezza che dieci anni dopo aver rassegnato le sue dimissioni al Quirinale da presidente del Consiglio, a decidere il futuro del Quirinale, e quello del presidente del Consiglio, siano ancora i colpi di teatro dell’incredibile Cav.”

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D’Alema fa da sponda a Berlusconi contro Draghi al Quirinale

Il “Rieccolo” di questa seconda o terza Repubblica, come preferite, emulo del Fanfani della prima di conio montanelliano, è il Dalemoni scoperto e raccontato da Giampaolo Pansa verso la fine degli anni Novanta sull’Espresso: metà Massimo D’Alema e metà Silvio Berlusconi. Di cui fu pure realizzato un fotomontaggio per tradurre meglio le convergenze parallele dei due, alla maniera di quelle che prepararono ai tempi di Aldo Moro alla segreteria della Dc l’alleanza di governo con i socialisti di Pietro Nenni.

Titolo del Dubbio

All’indomani dell’annuncio o minaccia di Berlusconi di fare uscire la sua Forza Italia dal governo se Mario Draghi ne lasciasse la guida per salire al Quirinale, che cosa fa D’Alema? Si lascia intervistare dal manifesto, con la snobistica minuscola della storica testata comunista, per dire in sintonia appunto col Cavaliere: “Mi pare difficile mantenere una maggioranza larga senza Draghi. Non è un compito facile arrivare al 2023 se il premier viene eletto al Quirinale”. 

Ma lo stesso D’Alema non aveva detto, in un brindisi di Capodanno con i compagni di partito finito su internet, anche a costo di mettere in imbarazzo il povero ministro della Sanità Roberto Speranza, peste e corna politiche di Draghi, uomo della finanza internazionale poco o per niente conciliabile con la democrazia, cui la sinistra si sarebbe troppo facilmente rassegnata ad affidarsi? Sì, lo aveva detto. E in parte lo ha anche ripetuto al manifesto, fra i soliti origami tormentati secondo il racconto dell’intervistatore Andrea Carugati. “Nel draghismo -si legge nel titolo dell’intervista con tanto di virgolette- vedo un’esplosione di spirito antidemocratico”. 

Ma, nonostante questo, un pò correggendo il tiro del brindisi di Capodanno, e finendo -ripeto- col ritrovarsi con le valutazioni e gli auspici di Berlusconi, il sorprendente D’Alema ha parlato del governo in carica meglio di quanto abbia fatto lo stesso Draghi qualche giorno fa nella conferenza stampa sulle ultime misure adottate contro la pandemia. “Il premier -ha detto l’unico esponente del fu Pci che sia riuscito  sinora a guidare un governo nella storia della Repubblica- svolge efficacemente il suo ruolo internazionale spendendo la sua forte credibilità, a Bruxelles e con gli Stati Uniti. Sul lato interno fa il possibile con una maggioranza contraddittoria e inevitabilmente divisa, cerca i compromessi possibili. Fa politica quindi misurandosi con una realtà rispetto alla quale non esistono super poteri in grado di produrre soluzioni miracolistiche”. 

Se Draghi, letto il manifesto, non ha ancora fatto una telefonata a D’Alema per ringraziarlo ha compiuto un errore. Farebbe bene a correggersi. Ma forse non ha gradito il sottinteso -ma neppure tanto- del ragionamento di D’Alema, che è lo stesso di Berlusconi. Parlo del sottinteso esplicitato dal manifesto nel titolo di prima pagina con questo invito a Draghi: finisca il suo lavoro, naturalmente a Palazzo Chigi sino alle elezioni ordinarie del 2023.

Pubblicato sul Dubbio

Massimo D’Alema come Tarzan fra due versioni opposte di Mario Draghi

Titolo di Repubblica
Titolo del manifesto

Anche se la notizia prevalente nelle cronache della corsa al Quirinale è o sembra essere quella delle “prove di addio” a Silvio Berlusconi attribuite a Matteo Salvini dal titolone di prima pagina di Repubblica, ma pure da altri giornali, è Massimo D’Alema a meritare secondo me la maggiore attenzione per una sua lunga intervista al manifesto. Che Andrea Carugati ha raccolto fra gustose annotazioni di colore come quella dei soliti “origami” che l’ex presidente del Consiglio “tortura” quando parla e riflette, o l’accenno a una “missione” internazionale all’Artico cui l’ex ministro degli Esteri sta lavorando per “demilitarizzare il polo nord”. Almeno il polo nord, direi, dopo la militarizzazione della sinistra italiana che egli ha recentemente tentato lamentandone una sostanziale rassegnazione al “draghismo”. 

Titolo interno del manifesto
Occhiello del titolo di prima pagina del manifesto

In quest’ultimo anche al manifesto D’Alema ha indicato, come da titolo nell’intera pagina interna che gli è stata dedicata, “un’esplosione di spirito antidemocratico”, sottolineato col colore rosso dal quotidiano ancora orgogliosamente comunista. Ma in rosso allarme, diciamo così, è anche la parte pur meno vistosa del titolo di prima pagina in cui si fa dire allo stesso D’Alema che “il lavoro di Draghi al governo non è finito”, né andrebbe interrotto. 

D’Alema al manifesto

Come si concilino i due concetti è francamente difficile capire e  tanto meno spiegare. Nè si può sospettare qualche forzatura del titolo riassuntivo di prima pagina perché il testo delle dichiarazioni di D’Alema è conforme. “Il premier -ha detto, in particolare, l’intervistato- svolge efficacemente il suo ruolo internazionale spendendo la sua forte credibilità, a Bruxelles e con gli Stati Uniti. Sul lato interno fa il possibile con una maggioranza contraddittoria e inevitabilmente divisa, cerca i compromessi possibili. Fa politica quindi misurandosi con una realtà rispetto alla quale non esistono superpoteri in grado di produrre soluzioni miracolistiche”. Meglio forse neppure Draghi avrebbe potuto e potrebbe dire di se stesso, dopo avere sottolineato nella sua ultima conferenza stampa una certa “voglia di lavorare insieme” che avrebbero ancora i partiti pur così diversi della sua maggioranza di emergenza o unità nazionale. 

D’Alema ancora al manifesto

Ma D’Alema è andato anche oltre cercando di immaginare l’esito della corsa al Quirinale e i suoi effetti sul governo. “Non vedo -ha detto- la possibilità di una maggioranza ristretta. E mi pare difficile mantenere una maggioranza larga senza Draghi. Non è un compito facile arrivare al 2023”, cioè sino alla scadenza ordinaria della legislatura,”se il premier viene eletto al Quirinale”. Per cui sarebbe preferibile lasciare Draghi a Palazzo Chigi per  fargli completare il lavoro “non finito”, come dall’occhiello rosso del titolo di prima pagina già accennato. Che poi con questo ragionamento D’Alema si trovi d’accordo, volente o nolente, con Silvio Berlusconi non può neppure stupire più di tanto se si pena agli anni di sostanziale avvio della cosiddetta seconda Repubblica, quando il compianto Giampaolo Pansa raccontava settimanalmente sull’Espresso le avventure del mitico “Dalemoni”, mezzo D’Alema e mezzo Berlusconi appunto: accomunati anche nell’esperienza della commissione bicamerale per le riforme costituzionali in coincidenza col primo e sfortunato governo ulivista di Romano Prodi.

Due parole infine sulla proposta di D’Alema, sempre nell’intervista al manifesto, a favore di una soluzione di genere della corsa al Quirinale, con l’elezione cioè di una donna. Potrebbe essere -scusate la franchezza o la malizia- l’ultimo colpo a questa chance, dopo quello già infertole da Giuseppe Conte. 

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Mattarella spinto sempre di più, suo malgrado, verso la conferma

Se, pur preso da imballaggi ed altro per il tanto desiderato ritorno a casa, Sergio Mattarella avesse fissato un appuntamento col medico per gli ormai insopportabili fischi nelle orecchie, gli converrebbe disdirlo perché sarebbe una visita sprecata. Non è malato. E’ solo assediato da una situazione politica, con particolare riferimento alla corsa per la sua successione alla Presidenza della Repubblica, che spinge sempre più persone, partiti, correnti e giornali a pensare e puntare su una conferma, suo malgrado. 

Non importa ormai per quale ragione -dalla convinzione che una rielezione sia ormai il modo più facile per fermare la candidatura di Silvio Berlusconi alla paura che Mario Draghi al Quirinale apra la strada ad una crisi di governo insolubile- ma aumenta anche nei palazzi di memoria pasoliniana la voglia, la tentazione e quant’altro del cosiddetto Mattarella bis. 

Marzio Breda a Domani
Marzio Breda a Domani

Già qualche giorno fa, in una intervista al quotidiano Domani, il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda raccontava di avere “raccolto un eloquente silenzio” alle domande che faceva “in alto” sulla eventualità che “il quadro politico si andasse spappolando e i partiti dimostrassero di  non avere uno straccio di accordo, e quindi si ripetesse la scena del 2013, quando tutti i leader fecero una processione” al Colle convincendo Giorgio Napolitano a farsi confermare. L’”eloquente silenzio” significava non so se più paura o rassegnazione. Certo è che lo stesso Breda riconosceva che “congelare il tandem Mattarella-Draghi sarebbe la soluzione più comoda e anche quella probabilmente più utile al paese”. 

Titolo odierno di Domani
Titolo della Stampa

Il giornale di Carlo De Benedetti che raccoglieva queste parole di Breda ha oggi titolato su tutta la prima pagina riassumendo le informazioni politiche: “I piani del Pd e Cinque stelle per costruire il Mattarella bis”. E La Stampa, che lo stesso De Benedetti di recente ha indicato come il quotidiano di cui si fida di più dopo il suo: “Un piano Mattarella bis col via libera di Salvini”. Che quindi marcia a suo modo, diciamo così, con le altre componenti del centrodestra per la candidatura sbandierata di Berlusconi, tornato a Roma -dicono le cronache-per controllare più da vicino gli alleati e, più in generale, la situazione. 

Titolo del Messaggero
Titolo del Foglio

Gli altri quotidiani non sono da meno. Il Mattarella bis è riproposto, in particolare, dal Messaggero che sottolinea l’impegno di Enrico Letta; dal Foglio, che coinvolge Giuseppe Conte addirittura in funzione anti-Letta, ancora fermo evidentemente alla tentazione di aiutare l’elezione di Draghi, e da Libero con lo  “Spiraglio Mattarella”  aperto soprattutto dall’emergenza pandemica.

Titolo del Giornale
Michele Ainis su Repubblica del 10 gennaio

Anche il Giornale della famiglia Berlusconi ha dovuto titolare sul Mattarella bis prendendosela col segretario del Pd, che avrebbe gettato “la maschera”, e scommettendo sulla capacità o volontà di Dario Franceschini di “tramare” per qualche complicazione. Non parliamo poi della delusione o preoccupazione del Fatto Quotidiano, fra i primi a schierarsi contro il bis e ad incitare Mattarella a prendere a parolacce chi gli glielo proponeva. Ora Marco Travaglio col suo vignettista Riccardo Mannelli ha imparruccato da donna il presidente uscente della Repubblica per scherzare beffardamente  sulla possibilità che egli finisca per farsi convincere a restare ancora un pò al Quirinale, almeno in attesa delle nuove Camere. Rispetto alle quali quelle in  via di scadenza, nel 2023, sono un mezzo rottame praticamente riconosciuto qualche giorno su fa su Repubblica anche dal costituzionalista Michele Ainis.

Berlusconi “processato” dalla sua ex assistente senatrice Rossi

Titolo del Dubbio

Pur nel dissenso sempre più convinto dalla ostinazione con la quale è di fatto entrato nella corsa al Quirinale, o si lascia così rappresentare dalle cronache politiche, sino a minacciare l’uscita del suo partito dal governo se fosse eletto Mario Draghi, ritengo che Silvio Berlusconi meriti di essere difeso da certi processi politici. Che si aggiungono a quelli giudiziari ancora in corso contro di lui come stravaganti appendici ad un’assoluzione definitiva per la lontana vicenda Ruby.

Dalla prima pagina della Stampa del 9 gennaio

La senatrice Mariarosaria Rossi -a lungo assistente dell’ex presidente del Consiglio, sempre generoso con i suoi collaboratori promuovendoli parlamentari grazie a leggi elettorali compiacenti comodamente usate anche dai suoi avversari- ha appena accusato Berlusconi, in un “intervento” sulla Stampa, di avere perduto l’anno scorso, di questi tempi, la irripetibile occasione avuta per giocarsi bene la carta del Quirinale. Gli sarebbe bastato imboccare con la  stessa Rossi la strada del cosiddetto Conte ter. 

La senatrice uscita da Forza Italia fu tra i parlamentari ricevuti personalmente da Giuseppe Conte nella ricerca dei “volenterosi”, “responsabili”, “costruttori” e simili disposti a farlo sopravvivere ad una crisi che peraltro egli aveva cercato di ritardare al massimo, sino a provocare una certa insofferenza al Quirinale. Dove pure il paziente Sergio Mattarella gli aveva lasciato un pò di tempo a disposizione per cercare di allargare la maggioranza dopo la defezione dei renziani, decisivi al Senato.

La senatrice Rossi alla Stampa

Leggete qui il ragionamento o il racconto, come preferite, della senatrice Rossi, che -si legge sulle biografie internettiane- si era guadagnata da giovanissima l’attenzione e gli apprezzamenti del Cavaliere per le  sue capacità organizzative, non limitate all’ambiente delle discoteche romane malignamente attribuitele dagli antipatizzanti. “Tutti – ha scritto la signora- si scagliarono contro il povero Giuseppi, nessuno gli tese la mano, a parte qualche parlamentare (come la sottoscritta) ribattezzato poi dalla vulgata come “responsabile”. E Silvio Berlusconi? Anche lui non gli offrì sostegno. Non importava se infuriava la tempesta del Covid, non importava se si metteva a rischio il piano nazionale di ripresa. Niente. Conte doveva cadere. Fu proprio in quei giorni che Berlusconi non pensò a quanto sarebbero potute cambiare le cose se lui avesse sostenuto il Conte ter. Non immaginò come quella mossa lo avrebbe smarcato da quel marasma di centrodestra offrendogli una nuova vita politica”. Vita politica tra virgolette naturalmente.

La senatrice Rossi alla Stampa

Presa, anzi travolta da una certa nostalgia di Conte, la senatrice Rossi ha rimproverato a Berlusconi di non avere capito che con l’appoggio al sopracitato “Giuseppi” di conio trumpiano “sarebbe stato ancora una volta il Salvatore della Patria, esattamente come in quel magico 1994” in cui scese in politica sconfiggendo la sinistra  allegramente raccolta contro di lui da Achille Occhetto. “Ma c’è di più, avrebbe compiuto -ha continuato la senatrice sempre scrivendo di Berlusconi- un altro miracolo politico, forse il più grande mai riuscito. Avrebbe trasformato il tramonto di una stagione politica durata quasi 30 anni in una nuova aurora ed oggi non parleremmo di Draghi Presidente della Repubblica ma solo di Berlusconi perché sarebbe stato il Presidente di tutti gli italiani”. Magari eletto in Parlamento -debbo presumere- anche dai grillini, almeno da quelli di tendenza Conte, grati del sostegno avuto per non perdere Palazzo Chigi e convertiti ad una concezione, diciamo così, un pò mercantile anche di una istituzione come la Presidenza della Repubblica. 

Giuseppe Conte

Senza volerle mancare di rispetto, e neppure dubitare della sua esperienza imprenditoriale di recupero dei crediti maturata con l’ex marito nella società Euro Service Group, secondo le biografie internettiane consultabili facilmente con un clic, mi consenta la senatrice Rossi di dubitare della capacità sua e del stesso Berlusconi, se vi si fosse prestato, di recuperare nella corsa di queste settimane al Quirinale il credito presuntivamente procuratosi partecipando all’operazione di un terzo governo Conte.

La politica è un pò più complessa, difficile, persino perfida di quanto non possa pensare la senatrice Rossi, pur con i suoi quattordici anni di esperienza parlamentare sulle spalle, comprensivi di quelli trascorsi come assistente o comunque nella schiera più ristretta di Berlusconi. Del quale teneva l’agenda, come si dice in gergo politico non in senso spregiativo ma elogiativo. 

Per quanti crediti si possano vantare, a ragione e non solo a torto, acquisiti con o senza disinvoltura, con repentini e opportunistici cambiamenti di linea, di alleati e di quant’altro, questi non bastano mai in politica ad assicurare, specie a distanza, il risultato propostosi in partenza o maturato successivamente. Ne sanno qualcosa, per non parlare dei morti eccellenti ormai della cosiddetta prima Repubblica, da Fanfani a Moro e ad Andreotti, gli sconfitti ancora superstiti delle corse al Quirinale preparate con cura e largo, anzi eccessivo anticipo, coltivando rapporti e promuovendo iniziative alla stregua di investimenti politici. 

Pubblicato sul Dubbio

In doveroso e commosso ricordo di David Sassoli

Titolo del Dubbio

Caro David, ora che -ahimè- non ci sei più, e quindi con un ritardo imperdonabile, voglio chiederti scusa dell’amaro rifiuto che più di 30 anni fa da direttore del Giorno opposi alla tua aspirazione ad essere promosso da redattore ordinario a inviato, forte peraltro di un’offerta da te ricevuta di assunzione alla Rai. 

Per quanto tu con lealtà fossi un pò all’opposizione interna, chiamiamola così, con altri colleghi che non condividevano la mia linea politica di sostegno al pentapartito del famoso Caf, acronimo dell’alleanza fra Craxi, Andreotti e Forlani, il mio rifiuto fu motivato da ragioni di anzianità, essendo tu appena diventato giornalista professionista ed essendovi altri colleghi, ugualmente validi, che aspiravano da più tempo a quella nomina. 

Pur consolato dal fatto di vederti affermare nella carriera – e che carriera- alla Rai, dove tu fosti poi realmente assunto, ti assicuro che ad ogni tuo passo in avanti, sino al tuo salto nella politica, dove replicasti l’abitudine al meritato successo, non mi sono mai pentito abbastanza di quel rifiuto. E non ho mai avuto il coraggio di dirtelo negli incontri occasionali e sempre cordiali avuti nei corridoi di Montecitorio. Ti dirò che ad ogni tuo successo, figurati alla tua elezione a presidente del Parlamento Europeo, si riapriva dentro di me la ferita di quel pomeriggio in cui dissi quel maledetto no alla tua promozione fattami chiedere dal comitato di redazione. 

Ho pensato solo di disobbligarmi un pò di quel torto votandoti al Parlamento Europeo quando vi fosti candidato, pur non essendo io  un elettore abituale o convinto del Pd per la sciagurata decisione presa dal nostro comune amico Walter Veltroni di confermare l’alleanza elettorale, a suo tempo, con Antonio Di Pietro e rifiutare contemporaneamente quella con i radicali. Fu una cosa della quale ancora oggi, a tanti anni di distanza, non riesco a capire bene le ragioni. 

David Sassoli con Ursula von der Leyen

Ora che – ripeto- te ne sai andato, così presto, così improvvisamente e così dolorosamente quando ancora la politica avrebbe potuto riservarti altre soddisfazioni, pur nella rinuncia da te annunciata di recente a tentare la conferma alla presidenza del Parlamento Europeo, nella realistica valutazione delle condizioni politiche in cui andava maturando ormai la successione, non mi resta che l’orgoglio di averti avuto sia pure per poco fra i miei colleghi di redazione e il rimpianto di non averti saputo trattenere: un rimpianto per niente mitigato, come invece ho per un pò pensato, dalle capacità professionali, umane e civili che hai sempre più potuto dimostrare. 

Un addio a te, anzi un arrivederci nella nostra comune fede cristiana, e un abbraccio, carissimo David, ai tuoi familiari che non ho avuto la possibilità di conoscere. 

Pubblicato sul Dubbio

                                                                                         

Mario Draghi si scusa, ma non della sua disponibilità al Quirinale

Titolo del manifesto
Titolo del Foglio

Mario Draghi si è scusato del ritardo della sua conferenza stampa sulle ultime misure -anzi penultime, come al solito in queste circostanze- per contenere la pandemia. Ma, rifiutando ogni domanda sull’argomento, non ha voluto scusarsi per niente della disponibilità ad un’elezione al Quirinale come “un nonno al servizio delle istituzioni”, secondo la formula della conferenza stampa del 22 dicembre che tanto innervosì e continua a innervosire Silvio Berlusconi. Il quale ha minacciato praticamente la crisi, mentre il Giornale di famiglia ha liquidato come “paradossale” la posizione del presidente del Consiglio. Non a torto Il Foglio, sostenitore di Draghi e tuttora amico dell’ex presidente del Consiglio, ha dovuto titolare sui “due candidati per “un Quirinale col botto”. 

Titolo del Fatto Quotidiano
Augusto Minzolini sul Giornale

L’aspirazione di Draghi al Quirinale non è lo sbirciamento dietro la porta di Mattarella fra i corazzieri immaginato con la solita malizia del vignettista da Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera. E’ una candidatura a questo punto silenziosamente confermata nella convinzione -pur smentita da Berlusconi con la minaccia di un ritiro del suo partito dal governo- che esista ancora “una voglia” di collaborazione e unità  -ha detto lo stesso Draghi- fra i partiti pur tanti e tanto diversi della maggioranza di emergenza in corso. Una candidatura. ripeto, interpretata invece e gridata come desiderio o progetto di “scappare” da Palazzo Chigi che ha accomunato nella titolazione e nei commenti due giornali politicamente opposti come Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio e La Verità di Maurizio Belpietro, ma in fondo anche il Giornale già citato della famiglia Berlusconi. Il cui direttore Augusto Minzolini è tornato a contrapporre “l’ambizione” quirinalizia di Draghi a “un Paese sospeso in piena emergenza”. Della quale tuttavia neppure Berlusconi si mostra del tutto consapevole, diciamo così, quando minaccia la crisi di governo, anzichè condividere la fiducia di Draghi sulla “voglia” della maggioranza di proseguire. 

Enrico Letta

Il segretario del Pd Enrico Letta si è naturalmente affrettato a sottolineare questa obiettiva contraddizione per ribadire il carattere “divisivo” e “inaccettabile” della candidatura di Berlusconi già lamentato nei giorni scorsi e predisporsi con le altre componenti della maggioranza a studiare, cercare, trattare un’uscita da questa situazione ormai di stallo. Che è aggravata dalle difficoltà tecniche, da rischio di contagio per la pandemia, delle votazioni dal 24 gennaio a Montecitorio per l’elezione del presidente della Repubblica. Alle quali rischiano di non partecipare molti parlamentari senza che per questo possano ridursi i voti necessari al raggiungimento delle maggioranze qualificate prescritte inderogabilmente dalla Costituzione. Pertanto si parla anche di possibili rinvii e di un certo disorientamento persino al Quirinale. Dove Sergio Mattarella potrebbe essere indotto a rinunciare alla sua indisponibilità ad una conferma se questa dovesse rivelarsi l’unica o la meno accidentata via di uscita. 

Titolo di Repubblica
Vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

La sfida di Berlusconi a Draghi – come l’ha definita Repubblica nel suo titolo di apertura- potrebbe creare anche nel centrodestra serie difficoltà. Che Stefano Rolli in una vignetta per Il Secolo XIX ha efficacemente tradotto nell’immagine dello stesso Berlusconi che dalle sue dimensioni fisiche chiede “quanto” debba essere “alto il profilo” del candidato al Quirinale alla cui scelta ogni giorno dice di essere impegnato l’alleato Matteo Salvini. Che telefona, incontra e fa contattare grandi e piccoli elettori del capo dello Stato come leader del centrodestra uscito dalle elezioni del 2018 sorpassando con la sua Lega gli altri due partiti della coalizione: Forza Italia e la destra di Giorgia Meloni. 

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Ben arrivati in questo lunedì di marasma pandemico e politico

Titolo del Fatto Quotidiano

In questo lunedì del “marasma”,  come Il Fatto Quotidiano lo ha  definito una volta tanto senza esagerare -pensando in particolare alla riapertura delle scuole,  fra assenze di insegnanti e studenti già contagiati o a rischio di esserlo con una pandemia che ha costretto il generale Francesco Figliuolo a tenere aperte anche di notte le operazioni vaccinarie- ciascuno ha immaginato a suo uso e consumo la preannunciata conferenza stampa di Mario Draghi. 

Titolo della Stampa

Così La Stampa, rispondendosi da sola alla domanda principale che il direttore Massimo Giannini aveva proposto ieri mattina, ha titolato su un Draghi deciso ad andare avanti sulla sua strada senza lasciarsi “condizionare” dalla corsa al Quirinale. Alla quale tuttavia, anche se non dovesse essere più interessato o disponibile lui con la formula del “nonno a disposizione delle istituzioni”, rimangono interessatissimi partiti, leader e leeaderini da cui dipende l’azione di un governo pur anomalo e di emergenza come il suo. I cui provvedimenti debbono essere poi approvati dal Parlamento, pur nelle ristrettezze ormai abituali delle procedure e in un regime di sostanziale monocameralismo, introdotto surrettiziamente prima ancora che Draghi, in verità, arrivasse a Palazzo Chigi. 

Titolo del Giornale

Il Giornale della famiglia Berlusconi si è spinto più avanti immaginando, pur con la cautela di un condizionale nel testo  dell’editoriale del direttore, una “rinuncia” di Draghi, esplicita e pubblica, alla corsa per la successione a Sergio Mattarella. Una rinuncia che potrebbe facilitare la corsa di Berlusconi, pur nelle incognite derivanti anche dalle assenze da contagio che però non ridurrebbero le maggioranze qualificate richieste dalla Costituzione per l’elezione del presidente della Repubblica da parte degli oltre mille fra senatori, deputati e delegati regionali. Per cui all’ex presidente del Consiglio continueranno a dover servire almeno 505 voti, contro i 430 e rotti di cui il centrodestra dispone sulla carta, al lordo degli assenti e naturalmente dei “franchi  tiratori”, o “liberi pensatori”, come li chiama con una certa esperienza anche personale l’ormai ex Paolo Cirino Pomicino. 

C’è poi il problema, peraltro non ignorato onestamente dal Giornale, di altre candidature in grado di disturbare le ambizioni di Berlusconi, come quella dell’ora “camaleontico” Giuliano Amato. Che lo stesso Berlusconi sette anni fa cercò di fare eleggere succedendo a Giorgio Napolitano, d’intesa a sinistra con Massino D’Alema, scontrandosi però con l’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi. Che gli preferì Sergio Mattarella scusandosi direttamente al telefono con l’interessato, signorilmente affrettatosi a toglierlo dall’imbarazzo esprimendogli  comprensione. L’ex presidente socialista del Consiglio aveva ancora l’età per sperare in un’altra occasione. Ora, a 83 anni, è come Berlusconi, a 85 anni compiuti, ragionevolmente all’ultima spiaggia di questa benedetta corsa al Quirinale. 

Draghi e Brunetta
Renato Brunetta sul Foglio

Ritengo meritevole di segnalazione quanto meno letteraria, in questo lunedì- ripeto- di marasma pandemico e politico, l’ottimismo di Renato Brunetta. Che, forte probabilmente della posizione di ministro più anziano, legittimato a sostituire chissà per quanto un Draghi eventualmente eletto al Quirinale, nonostante o forse addirittura con la spinta finale di un Berlusconi rinunciatario, Brunetta ha testualmente scritto sul Foglio: “Il presente ci assorbe con tutta la sua complessità: Covid, pandemia, crisi, inflazione, prossime scadenze istituzionali. Un peso che rischia di inchiodarci all’oggi impedendoci di immaginare il domani. Lasciarsi paralizzare sarebbe un grave errore. Dobbiamo invece sforzarci di ragionare con due teste, quasi come Giano Bifronte, la divinità capace di guardare sia il passato, sia il futuro”, avendo “gli strumenti per riprogettare seriamente l’avvenire”, come il piano di ripresa finanziato dall’Unione Europea, e persino o soprattutto  ”il coraggio”.  Beato lui. 

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