Draghi assediato tra lusinghe internazionali e boicottaggi interni

Presi dalle notizie sul Covid e sulle nuove misure ulteriormente restrittive che potrebbero essere adottate, non si sta forse osservando con tutta l’attenzione che merita politicamente il percorso parlamentare imposto dai partiti alla legge di bilancio del governo Draghi, come se fosse un altro governo di Conte. Al quale si è sempre rimproverato, non a torto, di avere ridotto praticamente a zero ai suoi tempi il ruolo del Parlamento con un dibattito stringatissimo, praticamente nullo, sulla legge più importante di un esecutivo. E ciò per giunta solo in uno dei rami della Parlamento, obbligando l’altro a ratificare in poche ore, a ridosso della scadenza costituzionale di San Silvestro, il testo ricevuto all’ultimo momento dalla Camera dirimpettaia. E’ un sostanziale monocameralismo a Costituzione invariata. 

Persino a Draghi dunque, al competentissimo Draghi, all’autorevolissimo ex presidente della Banca Centrale Europea, all’uomo che il Financial Times e l’Ecominist a nome dei mitici mercati e poteri forti del mondo ritengono indispensabile a Palazzo Chigi per continuare a rendere affidabile l’Italia, è stato imposto quindi dai partiti uno spettacolo così poco commendevole in una Repubblica ancora parlamentare, e bicamerale.

A pensarci bene tuttavia, visti anche i numerosi inpegni internazionali che hanno obbligato il presidente del Consiglio a delegare più del solito, e più ancora dei suoi predecessori, la gestione della legge di bilancio al Ministro dell’Econonomia, è a quest’ultimo in particolare che si è voluto probabilmente rendere la vita difficilissima. Sto parlando naturalmente del ministro Daniele Franco, anzi superministro per le vaste competenze del suo dicastero: una persona di fiducia di Draghi destinata -si presumeva sino a ieri- a prenderne il posto, dopo qualche giorno di interregno del ministro più anziano Renato Brunetta, se il presidente del Consiglio dovesse  andare al Quirinale a sostituire Sergio Mattarella. Il quale resta naturalmente indisponibile ad una conferma temporanea nonostante la straordinarietà delle condizioni in cui sta maturando la sua successione, cioè in un Parlamento a poco più di un anno dalla scadenza e delegittimato politicamente da una riforma costituzionale che ne ha tagliato di un terzo i seggi: un Parlamento -aggiungo- in cui sono più di 250 i deputati e senatori che hanno cambiato gruppo o partito. Bisogna dire ancora altro per spiegare la delegittimazione delle Camere che a fine gennaio dovranno eleggere un nuovo Presidente della Repubblica destinato a durare in carica sette anni? Non credo proprio, con tutto il rispetto per gli esimi costituzionalisti di cattedra incollati alla sacralità della durata quinquennale del mandato parlamentare, a prescindere da tutto e da tutti. 

Draghi si trova così incredibilmente e gravemente assediato: da chi, anche formalmente amico come Silvio Berlusconi, lo sollecita a dire di non volere andare al Quirinale per lasciare che se lo contendano altri, a cominciare dallo stesso Berlusconi, e da chi lo avverte che, se anche dovesse arrivarvi lo stesso, può scordarsi il suo uomo di fiducia a Palazzo Chigi. Al quale sono state già tagliate o sgonfiate le gomme. 

Titolo di Repubblica
Titolo del Corriere della Sera

In questa situazione si sprecano le previsioni su ciò che il presidente del Consiglio vorrebbe fare davvero. “Draghi continua a puntare il Colle”, scrive oggi in prima pagina la Repubblica. “Il premier pensa a governare. Il Quirinale? Parola ai partiti”, scrive invece, sempre in prima pagina, il Corriere della Sera presumendo di potere anticiparne anche la conferenza stampa di fine anno, annunciata per il 22 dicembre. 

Minzolini sul Giornale

Il Giornale della famiglia Berlusconi si spinge invece a immaginare  già la mancata elezione di Draghi per ammonirlo, in un editoriale del direttore Augusto Minzolini, a non farsi prendere dalla tentazione ritorsiva di  mollare la guida del governo  per lasciare tutti, ma proprio tutti, in braghe di tela. 

Silvio Berlusconi gratissimo (una volta tanto) all’Economist

La famosa copertina di Economist nel 2001

A Silvio Berlusconi, rimastone vittima con quella bocciatura da copertina do 20 anni fa che contribuì, insieme ai soliti magistrati italiani impegnati contro di lui, a rendergli dura la vita in politica, sarà scappata una risata grande quanto la sua villa di Arcore a godersi l’aiuto stavolta del settimanale inglese  The Economist. Che lo ha ripagato, forse anche con gli interessi, del danno infertogli dandogli dell’inadatto, inaffidabile e quant’altro alla guida del governo italiano.  Ora, facendo gli elogi dell’Italia  come “Paese dell’anno” grazie anche a Mario Draghi a Palazzo Chigi, il settimanale inglese ha  soccorso Berlusconi come meglio non poteva nella battaglia difficilissima in corso per difendere  la sua voglia di Quirinale, chiamiamola così, dalla fortissima concorrenza -nei fatti- proprio di Draghi. Che pure è un carissimo amico, che il Cavaliere si vanta di avere portato a suo tempo alla presidenza della Banca Centrale Europea, con tutto ciò che ne è poi conseguito. 

Titolo di Repubblica

Proprio in difesa della necessaria prosecuzione del governo Draghi almeno sino alle elezioni ordinarie del 2023  Berlusconi è quindi tra i più impegnati contestatori dell’ipotesi del presidente del Consiglio trasferito al Quirinale alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella. Tanto è vero che il suo Giornale di famiglia ha recentemente liquidato come “un capriccio” non dico una candidatura ma un’eventuale disponibilità del presidente del Consiglio a farsi candidare  al Quirinale.  E  Matteo Salvini si è accodato ieri ponendo contro questo scenario “un veto”, come l’ha definito la Repubblica di carta.

Ecco, a quel  “capriccio” lamentato dal Giornale si è in qualche modo associato l’Economist concludendo l’articolo di promozione dell’Italia a “Paese dell’anno” con questo passaggio correttamente tradotto da quasi tutti, come vedremo  “Draghi vuole essere presidente della Repubblica e potrebbe essere succeduto da un primo ministro meno competente”. 

L’Economist tradotto dal Foglio

Mentre Berlusconi-ripeto- forse se la rideva pensando al soccorso dei suoi vecchi detrattori, al Foglio fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa -schierato in prima fila e dal primo momento, se non proprio lanciatore della campagna per l’elezione di Draghi al Quirinale, dove si sta per sette anni contro l’anno o poco più che potrebbe ancora durare questo governo-  debbono esserci rimasti malissimo. E hanno cercato di metterci una pezza trasformando nella traduzione il “vuole” in un più pudico, accettabile, comprensivo, addirittura popolare “vorrebbe”. Ah, la forza magica del condizionale nelle pieghe di una feroce lotta politica in corso o in embrione, come preferite. 

E Draghi?, mi chiederete. Ne posso immaginare, al momento, solo l’imbarazzo per una festa guastatagli un pò dall’Economist con la promozione dell’Italia grazie soprattutto a lui che però vuole, assolutamente vuole, andare al Quirinale pur sapendo che sarebbe sostituito al governo da uno meno competente. Al quale, a sua volta, come presidente della Repubblica egli non potrebbe sostituirsi, neppure di notte, per un inconveniente chiamato Costituzione. Che a maggior ragione con lui al Quirinale i partiti, già in sofferenza avendolo provato a Palazzo Chigi, difficilmente si convincerebbero a modificare in senso presidenzialista, o semi-presidenzialista alla francese. Bel guaio nel Paese -non dimentichiamolo- in cui la politica ha l’abitudine di scambiare per potenziali dittatori tutti gli uomini dotati di una certa personalità. Lo dimostra il trattamento riservato a De Gasperi (che Togliatti voleva cacciare “a calci in culo” dal governo), Pella, Scelba, Tambroni, Craxi, Berlusconi e Renzi, in ordine rigorosamente cronologico nella storia della Repubblica.   

Le elezioni presidenziali in un Parlamento praticamente delegittimato

Titolo del Dubbio

l caso, solo il caso, ha voluto che il mandato presidenziale di Sergio Mattarella finisse quasi con la fine dell’anno, per cui spesso si stenta a capire dove termini lo scambio degli auguri fra lui e i suoi ospiti e cominci davvero il cosiddetto congedo.

Per non scomodare Papa Francesco, e neppure il Cardinale Segretario di Stato Piero Parolin, che si sono accomiatati da Mattarella dando l’impressione, magari sbagliata, di non essersene voluti separare troppo a lungo – tali e tanti sono stati, in particolare, gli argomenti che hanno voluto trattare con l’ospite, facendone un elenco dettagliato- è apparso significativo quanto è accaduto al Quirinale con gli ambasciatori. Che il presidente della Repubblica ha ricevuto dopo la visita in Vaticano.

Un testimone e cronista solitamente preciso e attento come il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, tanto di casa ormai nel palazzo presidenziale da poter essere scambiato per un custode, ha riferito che il “commiato” di Mattarella dai diplomatici è stato contenuto in “un inciso solo di mezza riga”. Infatti anche dal testo dell’intervento risulta che il capo dello Stato ha voluto soltanto “cogliere l’occasione” dell’incontro di fine anno per accomiatarsi appunto. 

Si vedrà se Mattarella ricorrerà ad un inciso anche nel messaggio televisivo di Capodanno: spero non registrato accanto al portone del Quirinale per sottolineare la fretta e la decisione, insieme,  dell’inquilino di allontanarsi da quel luogo di tortura che, a sentire certi suoi troppo solerti estimatori, sembra diventato per lui quel palazzo. Ciò almeno da quando gli sono giunti inviti espliciti e impliciti a rimanervi almeno per un pò di tempo ancora: giusto quello che occorre, per esempio, perché a provvedere alla sua successione sia il nuovo Parlamento. Che, ridotto di un terzo dei seggi e sicuramente diverso anche per gli equilibri fra i vari gruppi, senza più la “centralità” grillina della legislatura in corso dal 2018, dovrebbe poter esprimere un presidente della Repubblica più rappresentativo, visto che ad eleggerlo sono appunto le Camere e non gli italiani direttamente. 

Su questa condizione particolarissima in cui sta maturando o si sta solo avvicinando il prossimo turno di elezioni presidenziali, con le urne in vimini e stoffa che i commessi stanno già lucidando a Montecitorio, si dice e si scrive forse un pò troppo poco, o per niente. Eppure essa potrebbe apparire un vulnus a gente di comune buon senso, portata a pensare che un Parlamento in scadenza così complessa e vasta come quello in carica da quasi quattro anni sui cinque della durata ordinaria sia il meno indicato, attendibile e quant’altro al compito assegnatogli dalla Costituzione di eleggere il Capo dello Stato, con tutte le maiuscole usate dall’articolo 87 della Costituzione. 

Di questa incongruenza, che magari non sarà condivisa da sottili costituzionalisti in cattedra,  sarebbe ora che si cominciasse a parlare fuori dai denti. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 19-12-2021

Il congedo…continuo e un pò sotto tono di Sergio Mattarella

Mattarella in Vaticano

Annunciata con largo anticipo dalle solite “fonti” del Quirinale nel contesto di una visita di commiato, a dimostrazione dell’indisponibilità di Sergio Mattarella ad una rielezione pur auspicata ovunque gli capiti di andare da qualche mese a questa parte, o da chiunque egli riceva nel palazzo che fu dei Pontefici, l’udienza di Papa Francesco al presidente uscente della Repubblica ma anche il successivo incontro dell’ospite col Cardinale Segretario di Stato  Pietro Parolin sono stati di un congedo, diciamo così, relativo. Che molti giornali hanno nona caso ignorato in prima pagina.

Il comunicato del Quirinale
La nota del Vaticano

Del termine “congedo”, intanto, non si trova traccia né nel comunicato del Quirinale né in quello del Vaticano, dove pure hanno tenuto a non essere laconici -come sul Colle- ma a raccontare che nei “cordiali colloqui in Segreteria di Stato è stata espressa soddisfazione per le buone relazioni intercorrenti tra la Santa Sede e l’Italia”, e “ci si è soffermati su alcune questioni relative alla situazione sociale italiana, con particolare riferimento ai problemi della pandemia e alla campagna di vaccinazione in atto, alla famiglia, al fenomeno demografico e all’educazione dei giovani”. Si è tenuto infine e a far sapere che “sono state prese in esame tematiche di carattere internazionale, con speciale attenzione al continente africano, alle migrazioni e al futuro e ai valori della democrazia in Europa”. Non mi sembrano francamente cose, o questioni, tanto di congedo, proiettate come sono in un futuro, appunto, che va ben oltre la scadenza ormai vicina del mandato presidenziale di Mattarella.

Titolo di Avvenire

D’altronde, il Papa in persona, che è anche un ottimo gesuita, sottile più ancora dei tani laici sottili che navigano nelle acque politiche italiane, ha parlato non di “congedo” ma di “testimonianza” del graditissimo ospite. E Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, ha tradotto testimonianza  in “esempio”, che potrebbe pertanto continuare. 

Marzio Breda sul Corriere della Sera

Poi, è vero, tornato al Quirinale per l’incontro abituale di fine anno con gli ambasciatori, Mattarella ha parlato loro di “commiato”, ma -ha scritto e avvertito il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda- in “un inciso di mezza riga”, non di più: senza iattanza, sfida e quant’altro a chi ne sollecita la ancora, o ancor più la conferma.

Chi l’ha detto poi che sarebbe un male l’ipotesi, pur scomoda per l’interessato, di una conferma del presidente uscente della Repubblica in una situazione come quella particolarissima in cui ad eleggere il successore è chiamato un Parlamento delegittimato dalla forza che vi è maggiormente rappresentata ancora, facendolo invecchiare precocemente col taglio dei seggi disposto per la prossima edizione? 

Draghi al Consiglio Europeo
Lo sciopero festoso di Cgil e Uil

Malizia per malizia, o curiosità per curiosità, come preferite, si è scritto e detto alla vigilia del Consiglio Europeo in corso che avrebbe potuto essere già l’ultimo per Mario Draghi, presidente del Consiglio in carica solo da febbraio, chiamato a fronteggiare emergenze di vario tipo che non sono per niente finite, a cominciare da quella pandemica non a caso appena prorogata sino a fine marzo. E’ un’emergenza fronteggiata con misure di sapore persino sovranista che l’europeista doc Draghi ha dichiarato di voler difendere e fare osservare “con le unghie e con i denti” dopo le preoccupazioni e riserve espresse a Bruxelles e dintorni ma subito rientrate. Beh, non mi sembra dalle immagini giunte dal vertice che Draghi abbia mostrato la tristezza usuale del congedo, come neppure Mattarella in Vaticano. E non sarebbe un male neppure la prosecuzione del governo Draghi, cioè la conferma di un binomio, quello appunto di Mattarella al Quirinale e dello stesso Draghi a Palazzo Chigi, che ha indotto il solitamente severissimo e diffidente Economist inglese a indicare l’Italia come “il Paese dell’anno”. Che Cgil e Uil hanno festeggiato scioperando, alla loro maniera.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quel vaffa… a sorpresa di Mario Draghi all’Unione Europea

Miracolo a Roma, questa volta non a Milano come nel famoso film drammatico di Vittorio De Sica nel 1951. Il presidente del Consiglio Mario Draghi, l’ex presidente della Banca Centrale Europea, quello che salvò l’euro da morte prematura, il super europeista che i grillini immaginavano al servizio dei poteri forti, anzi fortissimi, prima di ricevere il contrordine dal comico fondatore e garante del Movimento 5 Stelle, a costo di spaccarsi e di impazzire, ha preso in prestito proprio da Grillo un vaffa..e l’ha scagliato contro i mammasantissima di Bruxelles e dintorni. Che avevano appena protestato contro le ultime misure adottate a Roma contro il traffico da Covid, chiamiamolo così, lungo le frontiere nazionali.  

Titolo del Riformista

Ora ci sarebbe solo da capire, leggendo i giornali di varia tendenza, se questo miracolo di un Draghi improvvisamente “sovranista”, o “patriota”, per dirla con la sempre più rampante Giorgia Meloni, cresciuta come un fungo dopo la pioggia caduta sull’ultimo raduno dei fratelli d’Italia, lo dobbiamo più al Covid e alle sue varianti o alla corsa al Quirinale. Cui il presidente del Consiglio è stato iscritto d’ufficio in concorrenza, fra gli altri, con un Silvio Berlusconi tanto sinceramente e fortemente europeista da  poter compensare da solo gli errori, pasticci e quant’altro dei suoi alleati nel centro-destra, con tanto di trattino.

Titolo di Libero

Il punto interrogativo, e in rosso, che ha messo Libero alla “mossa per il Colle” attribuita, o attribuibile, a Draghi nel suo scontro da “patriota” con i maggiorenti dell’Unione Europea sembra più pleonastico che altro. E si sposa un pò, sotto sotto, con l’acredine di un giornale apparentemente opposto come Il Fatto Quotidiano. Il cui direttore Marco Travaglio, incoraggiato sinistramente dall’andamento della pandemia, che potrebbe ridurre o eliminare il vantaggio acquisito contro di essa  da Draghi sul predecessore Giuseppe Conte -“l’amor loro” dei “fattisti”, chiamiamoli così- ha commentato o sfottuto: “Il migliore dei Migliori, con 129 morti e 23 mila infetti in 24 ore, che fa? Con un occhio al Colle, pensa di fermare Omicron alla frontiera con la quarantena per stranieri non vaccinati, come se non avessimo decine di migliaia di pendolari che fanno la spola con Svizzera, Francia e Austria. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere”. 

Titolo di Domani
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Per fortuna di Draghi un transfuga del Fatto che ora dirige il nuovo giornale di Carlo De Benedetti, Domani, cioè Stefano Feltri, omonimo e nulla di più di papà Vittorio e figlio Mattia, ha provveduto a inzuccherare, diciamo così, lo scontro del presidente del Consiglio italiano con l’Unione Europea. Non con quest’ultima ce l’avrebbe il Draghi a sorpresa sovranista ma con la sua “burocrazia”, incapace di valutare i dati della pandemia e le conseguenti misure imposte al governo italiano. 

Titolo del Giornale

Neppure il Giornale della famiglia Berlusconi, anch’esso forse “con un occhio al Colle”, come dicono al Fatto Quotidiano, è arrivato a tanta comprensione e difesa del Draghi a sorpresa sovranista. Al quotidiano che fu di Indro Montanelli hanno preferito la versione dura del “tampone a chi entra in Italia” trasformatosi nel “primo scontro Draghi-Europa”, in coincidenza o in sintonia -come preferite- con “l’ira del centrodestra sui migranti”. 

Ah. ripeto, che strani  effetti non so se più del Covid -questo perfido nemico che ce ne combina di tutti i colori, alla faccia anche del generale Francesco Paolo Figliuolo e del suo medagliere sul petto- o di una corsa al Quirinale che deforma anche i sampietrini sui quali si svolge. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Come la Meloni preoccupa Berlusconi a voce e per iscritto

Titolo del Dubbio

Verba volant, scripta manent. Nella trascrizione stampata dell’intervista elettronica di Giorgia Meloni al Corriere della Sera dopo il successo mediatico del convegno annuale dei suoi fratelli d’Italia c’è la conferma di tutta la problematicità, diciamo così, dell’adesione del centrodestra alla candidatura, sinora potenziale peraltro, di Silvio Berlusconi al Quirinale. 

Meloni al Corriere della Sera

Non solo la giovane ex ministra dello stesso Berlusconi ha ribadito che di questa candidatura vanno verificati “i numeri” -non so se preventivamente, nei contatti con gli altri partiti o gruppi parlamentari, o anche nei fatti, cioè nelle prime votazioni solitamente riservate ai cosiddetti candidati di bandiera- ma ha parlato di “proposte”, al plurale, accennando alla posizione del centrodestra nel  confronto con le altre forze politiche sul problema della successione a Sergio Mattarella. 

E’ già da tempo che il Giornale della famiglia Berlusconi diffida negli articoli e nei titoli dei “ma” che accompagnano spesso gli apprezzamenti degli alleati per l’ex presidente del Consiglio fondatore del centro-destra, col trattino ripristinato dall’interessato negli ultimi mesi, e la loro disponibilità a sostenerne la corsa al Colle: una corsa da “patriota”, come proprio la Meloni ha tenuto a definire il Cavaliere per farlo entrare nella sagoma politica del presidente della Repubblica da lei disegnata arringando il suo pubblico. 

Il direttore in persona del Giornale, strapazzato per questo come ricattatore dal solito Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, ha ammonito gli alleati di Berlusconi che rischiano davvero grosso con l’eventuale naufragio della sua candidatura, evidentemente non più tanto o solo potenziale. In particolare, con la rottura del centrodestra, con o senza trattino, sia la Meloni sia Matteo Salvini perderebbero la possibilità che pure si contendono di arrivare a Palazzo Chigi a cavallo di una coalizione elettoralmente vincente. 

Silvio Berlusconi

Non arrivo, per carità, alla malizia di sospettare anch’io, come altri, un certo malumore -e non solo prudenza-  per gli ostacoli ai suoi progetti o desideri dietro la improvvisa rinuncia di Berlusconi alla partecipazione all’ultima presentazione -in ordine cronologico- dell’abituale libro di fine anno di Bruno Vespa. Ma di certo l’ex presidente del Consiglio non deve avere gradito i segnali d’intermittenza, quanto meno, provenienti dal suo campo anche dopo  il verosimile allontanamento di una candidatura di Draghi al Quirinale per la proroga dello stato di emergenza in cui opera il governo. Che senza tanta guida potrebbe essere o apparire precario, sapendo bene quanto l’apparire e l’essere si assomiglino in politica. E non solo in magistratura, come ammonì saggiamente l’allora presidente della Repubblica Pertini parlando dell’autonomia e dell’indipendenza delle toghe ben prima di “Mani pulite” e di tutto il resto.

Pubblicato sul Dubbio

Ciascuno ha la sua emergenza, anche Fico temendo le elezioni anticipate

Ciascuno ha la sua emergenza all’ombra di quella pandemica appena prorogata dal governo sino a fine marzo. Ha una sua emergenza -sua sia come persona sia come presidente della Camera- anche il grillinissimo Roberto Fico. Che ha voluto approfittare del consueto incontro natalizio con la stampa parlamentare non solo per promettere che il 4 gennaio farà sapere la data precisa nella quale cominceranno nell’aula di Montecitorio le votazioni per la successione a Sergio Mattarella al Quirinale, ma anche -o forse soprattutto- per cercare di inchiodare alla scadenza ordinaria del 2023 la legislatura in corso. Che proprio i grillini però hanno fatto ben poco per stabilizzare, diciamo così, cominciando a delegittimarla con la riforma costituzionale, imposta prima ai leghisti e poi al Pd, che riduce di un terzo i seggi parlamentari. 

Da allora, cioè da quella riforma destinata a scattare con le nuove Camere, quelle in carica sono apparse vecchissime, superate. E tali in effetti sono, contro l’ostinazione di chi lo nega o non lo ammette. Eppure è a queste Camere politicamente decadute che spetterà il mese prossimo il compito di eleggere, o quanto meno di tentare di eleggere un nuovo presidente della Repubblica destinato a rimanere in carica sino al 2030. Viene il capogiro solo a leggere questa data nelle condizioni attuali della politica.

Ci potevano pensare francamente un pò prima, i grillini, a garantire la salute, chiamiamola così, di una legislatura nata in modo così fortunato per loro, subentrati addirittura alla Dc nella posizione di forza “centrale” per essere la più rappresentativa dell’elettorato, almeno a livello di partito o movimento, come almeno allora essi preferivano chiamarsi. Poi -si sa-  lor signori hanno deciso, con tanto di referendum digitale, di chiedere l’iscrizione al registro nazionale dei partiti -gli odiati partiti- per partecipare al meccanismo del finanziamento pubblico noto come il due per mille. 

Titolo della Stampa di oggi

Si dirà che è naturale per un presidente difendere la “sua” assemblea dal rischio o pericolo di elezioni anticipate: tanto naturale che l’articolo 88 della Costituzione nel riconoscere al presidente della Repubblica il diritto di sciogliere le Camere prima della loro scadenza, a meno che non sia entrato nell’ultimo semestre del proprio mandato, lo obbliga solo a “sentire” i presidenti del Parlamento, non a tenere conto del loro parere, quasi scontatamente o fisiologicamente contrario quindi. Ma si dà il caso che la difesa ad oltranza di questa legislatura pur così indebolita per strada -sino far parlare qualche giorno fa di Camera “suicida” con lo spettacolo dell’aula quasi vuota alle prese con la legge sul suicidio assistito reclamata addirittura dalla Corte Costituzionale- coincide perfettamente con gli interessi politici di Grillo. 

Simone Canettieri sul Foglio

“Il garante del M5s -ha scritto o descritto Simone Canettieri sul Foglio non inventandosi nulla- vuole che la legislatura arrivi a scadenza, anche perché sa che le elezioni anticipate si porterebbero appresso nuovi scontri con l’’ex premier” Giuseppe Conte, messo forse imprudentemente a capo del movimento. “La deroga al vincolo del secondo mandato che dovrà saltare (“per i meritevoli”) e soprattutto la formazione delle liste” -ha spiegato Canettieri- potrebbero essere “l’occasione per Conte per rompere i ponti col passato, candidando figure nuove e fresche, lontane dalla vecchia concezione del Movimento. E dunque Grillo si augura di affrontare questo problema il più tardi possibile, sperando che nel frattempo le questioni familiari siano finite in secondo piano”. Già, perché il fondatore e tuttora garante del MoVimento ha anche problemi simili.

Questo -purtroppo per lo stesso Fico e per le istituzioni- è il contesto nel quale va o può essere letta la sortita del grillinissimo .-ripeto- presidente della Camera a favore della prosecuzione della legislatura ad ogni costo: quasi per partito preso, oltre che per l’emergenza delle emergenze.

Ripreso da http://www.startmag.it  

I chiodi dell’emergenza potrebbero valere anche per Mattarella

Titolo del Dubbio

Non debbono per niente stupire le doppie, triple e ancor più letture alle quali si è prestato subito l’annuncio della improvvisa conversione, autonoma o obbligata, di Mario Draghi alla necessità di prorogare lo stato di emergenza virale. Che non servirebbe solo a garantire la prosecuzione del buon lavoro del generale Francesco Paolo Figluolo a capo della mobilitazione contro il Covid 19 e varianti. Cui sarebbe bastato e basterebbe ancora qualche accorgimento legislativo diverso dal mantenimento dello stato di emergenza, secondo studi fatti eseguire nei giorni scorsi nelle segrete stanze del governo. 

Purtroppo -almeno per la trasparenza della politica- tutto ciò che accade in vista della cosiddetta corsa al Quirinale si presta a interpretazioni da oracolo più che da analisi. A questo proposito riferisco ai più giovani -fortunati loro- lo sfogo che raccolsi da Ado Moro dopo un articolo dedicatogli nel 1969 da Giovanni Spadolini, ancora direttore del Corriere della Sera, che pure lui stimava già in quei tempi, ben prima che da presidente del Consiglio tornato a Palazzo Chigi dopo la defenestrazione del 1968 lo nominasse ministro dei Beni Culturali. E gli confezionasse su misura, diciamo così, un dicastero con tanto di cosiddetto portafoglio ricorrendo addirittura ad un decreto legge. Era verso la fine del 1974.

Ebbene, prima di questa esperienza politica, ancora seduto come un Pontefice in via Solferino, sospettoso di ogni segnale che potesse far pensare a quella che lui definiva “Repubblica conciliare” pensando ad intese spurie fra democristiani e comunisti, Spadolini aveva lamentato che Moro, tornato semplice deputato dopo le prime esperienze di presidente del Consiglio, avesse votato con i comunisti, appunto, nella Commissione Pubblica Istruzione della Camera la modifica ad un disegno di legge per fare equivalere ad una promozione la parità di voti in un esame scolastico. “Ma come? Un professore come Spadolini -mi disse Moro- come fa a interpretare  maliziosamente una banalità del genere, simile a quel che accade nei tribunali quando si decide sulla condanna o sull’assoluzione di un imputato?”. Non si capacitava del fatto -il povero Moro- che una pur casuale o “banale”, come lui la chiamava, convergenza con i comunisti potesse essere scambiata per un progetto di alleanza a causa della deformazione derivante dalla scadenza pur lontana del Quirinale, mancando più di due anni -in quel momento- alla fine del mandato di Giuseppe Saragat. 

Mario Draghi a Palazzo Chigi

Di che cosa quindi ci meravigliamo se la proroga dello stato di emergenza è appena stato rappresentato su alcuni giornali, particolarmente quelli di area del centrodestra, con o senza il trattino che da qualche tempo usa e fa usare Silvio Berlusconi quando se ne parla o se ne scrive, come una mezza crocifissione di Mario Draghi a Palazzo Chigi? E il conseguente impedimento di una sua candidatura al Quirinale, fra qualche settimana, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella. Ma anche l’altrettanto conseguente aiutino alla pur difficile candidatura di Silvio Berlusconi. 

Sino a quando l’elezione del presidente della Repubblica continuerà ad essere indiretta, affidata cioè al Parlamento e non direttamente al popolo, il Quirinale diventerà, alla vigilia vicina o anche lontana degli avvicendamenti al vertice dello Stato, uno specchio deformante nella visione della politica. O, più precisamente, della lotta politica. 

Nel caso poi specifico di un Draghi praticamente vittima di una proroga dello stato di emergenza, dandone per scontata un’ambizione quirinalizia, con lo stesso metro di giudizio non si possono escludere altri effetti apparentemente o realmente perversi, secondo i gusti, della situazione eccezionale in cui il governo si trova e sta per confermarsi.  

Se l’emergenza vale per tenere Draghi inchiodato a Palazzo Chigi, nonostante il “trasloco” avvertito nell’aria di recente persino dalla moglie in una conversazione al bar con  chi confeziona gli aperitivi a lei e al marito, mi si deve spiegare perché non dovrebbe valere per Mattarella, da inchiodare al Quirinale se la ricerca di un successore dovesse rivelarsi più difficile del previsto, o addirittura impossibile. Cosa che già si verificò per altri versi nel 2013 con Giorgio Napolitano, dopo i fallimenti delle candidature di Franco Marini e di Romano Prodi, entrambi del Pd,

Nicola Mancino, ex presidente del Senato

Qualche giorno fa, dopo un’analoga uscita dell’ex senatore dell’ex Pci Claudio Petruccioli, anche l’ex senatore democristiano Nicola Mancino, già presidente dello stesso Senato e vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha avvertito in una intervista che l’ipotesi di una conferma di Mattarella non può, anzi non deve essere esclusa, per quanti no siano arrivati dall’interessato, persino di fronte ai bis reclamati in sei minuti di applausi dal pubblico del teatro milanese della Scala: compreso quello popolare del loggione, secondo la testimonianza e la cronaca del quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda. Il quale sembrava volesse sottolinearlo al presidente della Repubblica, che egli ha più occasioni certamente di noi di vedere o frequentare. 

Tutto quindi è ancora dannatamente o fortunatamemte aperto -anche qui secondo i gusti- nella corsa al Quirinale di fatto in corso, nonostante i cosiddetti leader fingano di non averlo capito. E di cui si  ostinano a voler parlare, anche se sollecitati a farlo per telefono da un attivissimo Matteo Salvini, solo dopo l’approvazione del bilancio, comunque imminente ormai. 

Pubblicato sul Dubbio

Tutti i sottintesi della proroga dello stato di emergenza pandemica

I sottintesi, e neppure tanto, della proroga dello stato di emergenza a fine marzo, in arrivo dal governo dopo l’accelerazione imposta -orologio alla mano- dal segretario del Pd Enrico Letta e subita, più che promossa, dal presidente del Consiglio, si evincono dalla somma o dal confronto, come preferite, dei titoli di apertura di due quotidiani di area del centrodestra: il Giornale della famiglia Berlusconi diretto da Augusto Minzolini e La Verità fondata e diretta da Maurizio Belpietro, generalmente più sensibile o pia vicina, sempre come preferite, alle posizioni di Matteo Salvini rispetto a quelle, pur rispettate, di Silvio Berlusconi.

Titolo del Giornale
Il “catenaccio” del titolo del Giornale

Ebbene, il Giornale annuncia su quasi tutta la prima pagina che “lo stato di emergenza ostacola Draghi al Colle”, aggiungendo -in quello che tecnicamente viene definito “catenaccio”- che lo stesso Draghi diventa così “sempre più vincolato alla poltrona di presidente del Consiglio”. Altro quindi, che candidarsi o lasciarsi candidare al Quirinale, magari rendendo più esplicita la sua ambizione o disponibilità  nella tradizionale conferenza stampa di fine anno del capo del governo, stavolta forse anticipata di qualche giorno rispetto alle ultime occasioni: in particolare, prima e non dopo Natale. 

Minzolini sul Giornale
Titolo dell’editoriale di Minzolini sul Giornale

In un’emergenza pandemica prorogata -avverte nel suo editoriale il buon Minzolini, esperto come pochi di operazioni politiche e decriptatore dei messaggi solitamente ermetici che si scambiano i leader di partito- se Draghi insisterà a proporsi o a lasciarsi proporre al Quirinale per succedere a Sergio Mattarella  rischierà di “far passare il suo disegno più che per un’esigenza del Paese per un capriccio personale”. E di capricci si parla nel titolo dell’editoriale del Giornale, che si trova un pò -sia come quotidiano sia come editore- in quello che potremmo definire “conflitto d’interesse” di fronte alla corsa al Quirinale. Cui Berlusconi ufficialmente non si è ancora iscritto,  ma è chiaramente fra tutti i partecipanti possibili o effettivi quello già più esposto o visibile. 

Titolo della Verità

Sul quotidiano La Verità, in linea col nome stesso della testata, senza riferimenti polemici al vecchio giornale del partito comunista sovietico, che in russo si chiamava Pravda, si grida più esplicitamente che “ci tengono in emergenza per sgambettare Draghi”. E si lamenta “il solito uso politico del virus”, immedesimandosi forse negli umori e quant’altro di Salvini. Che ha appena aperto le sue consultazioni proprio sulla corsa al Quirinale come leader sia della Lega sia del centrodestra: ruolo o qualifica acquisita nel 2018 sorpassando Forza Italia nelle elezioni politiche. 

Sempre Minzolini sul Giornale

Ciò significa -mi chiederete- che Salvini non si sente inchiodato alla candidatura o comunque all’ambizione quirinalizia di Berlusconi e si riserva, una volta verificatane la impraticabilità in termini di voti parlamentari occorrenti all’elezione, di cercare altre soluzioni per concorrervi in modo decisivo? Sì, vi rispondo, Significa anche questo. Tanto è vero che sul già citato Giornale di famiglia di Berlusconi si levano quotidianamente, a più firme, moniti e preoccupazioni sulla tenuta degli alleati di centrodestra, dei quali non si gradiscono i “ma” che spesso accompagnano gli impegni o le promesse all’ex presidente del Consiglio. Eccovi la conclusione dell’editoriale odierno di Minzolini già citato per altri versi: “I primi che dovrebbero scongiurare in ogni modo l’esplosione del centro.destra sono proprio Salvini e Meloni: se la coalizione andasse in crisi verrebbe a mancare ad entrambi l’unico strumento che hanno a disposizione per arrivare a Palazzo Chigi”. Questo “strumento” è appunto l’alleanza con Berlusconi: rotta la quale nella corsa al Quirinale, si aprirebbero ben altri scenari politici ed elettorali per iniziativa o con la partecipazione dello stesso Berlusconi. A buon intenditore poche parole, come dice un vecchio proverbio. 

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Berlusconi nella nuvola di Fantozzi confezionatagli da Renzi

Matteo Renzi al raduno dei Fratelli d’Italia
Salvini, l’altro Matteo

Guadagnatosi nella precedente edizione della corsa al Quirinale il ruolo di kingmaker con l’elezione di Sergio Mattarella, prelevandolo dalla Corte Costituzionale, Matteo Renzi cerca di pesare anche stavolta, nonostante non sia più da tempo il presidente del Consiglio, né il segretario del Pd ma il leader della più modesta Italia Viva, valutata meno del 2 per cento nei sondaggi ma forte di una cinquantina di voti -sulla carta- nell’assemblea congiunta dei deputati, senatori e delegati regionali. Rientra forse in questo tentativo di partecipazione l’incoraggiamento al centrodestra, raccolta al volo da Salvini, l’altro Matteo, che se ne sente il capo dopo il sorpasso elettorale eseguito nel 2018 su Forza Italia, a prendere l’iniziativa. Cioè a proporre un candidato e/o cercarlo con gli altri gruppi avendo il vantaggio di disporre -sempre sulla carta- del maggior numero di voti, insufficienti tuttavia all’autosufficienza.

Da kingmaker a suggeritore, e magari partecipe decisivo, alla fine, di una maggioranza ristretta  ce ne corre. E non è detto che  Renzi non ci riesca, vista la frammentazione di un Parlamento dove dall’inizio della legislatura hanno cambiato gruppo circa 250 dei 945 fra deputati e senatori eletti nel 2018.

Paolo Villaggio nei panni di Fantozzi
Dal Corriere della Sera

Un trofeo comunque spetta già adesso al senatore di Scandicci: l’oscar della battuta in questa edizione della corsa al Colle più alto di Roma, avendo rappresentato Silvio Berlusconi, con tono presuntivamente amichevole, come il mitico Fantozzi sovrastato dalla nuvola di disturbo della sua festa. “Tutte le volte che vinceva le elezioni -ha detto Renzi di Berlusconi in politica dal 1994- aveva la sfiga di non poter correre come presidente della Repubblica. Lui che è un uomo tra i più fortunati del mondo ha avuto questa nuvola di Fantozzi sopra la testa e la sente”.

Titolo del Fatto Quotidiano su Giorgia Meloni

Sotto o addirittura avvolto nella nuvola fantozziana, Berlusconi  sembra avere quindi la solidarietà o comprensione del suo ex “royal baby”, secondo la definizione data di Renzi da Giuliano Ferrara  negli anni del patto del Nazareno, rottosi proprio sull’elezione di Mattarella al Quirinale. Ma anche da “patriota” indicato da Giorgia Meloni, con riserva di verificarne  “i numeri” in Parlamento, l’uomo di Arcore ha l’inconveniente di doversi guardare alle spalle, come si dice in queste occasioni ed hanno provato sulla loro pelle fori di predecessori come Amintore Fanfani ed Aldo Moro.

Il centrodestra avrà pure sulla carta -ripeto ancora, sino alla noia- il maggiore pacchetto di voti ma, oltre ad essere insufficiente anche per il quorum minimo della maggioranza assoluta, non è vaccinato né vaccinabile dal virus dei “franchi tiratori”. O “liberi pensatori”, come li ha recentemente chiamati Paolo Cirino Pomicino tradendo un certo orgoglio, avendone probabilmente fatto parte nelle votazioni presidenziali  rigorosamente a scrutinio segreto nel 1992, quando era in ballo la candidatura dell’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti a Palazzo Chigi aspettava più o meno tranquillamente il suo turno, che però non gli sarebbe mai arrivato. 

Giuliano Urbani
Titolo di Libero

Sotto la nuvola fantozziana Berlusconi è minacciato da “baruffe”, oltre che da “franchi tiratori”, a sentire il suo ex ideologo e ministro Giuliano Urbani. Che auspica la conferma di Mattarella, pur riservandosi  ormai da spettatore di dirsi “contento” se Silvio dovesse fortunosamente arrivare al Quirinale, nonostante le obiettive difficoltà della scalata e gli scongiuri che ogni giorno si fa metaforicamente sul proprio giornale Marco Travaglio, dividendosi tra  fotomontaggi, titoli e articoli a dir poco velenosi contro “il pregiudicato” troppo sfacciatamente ambizioso. 

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