
Presi dalle notizie sul Covid e sulle nuove misure ulteriormente restrittive che potrebbero essere adottate, non si sta forse osservando con tutta l’attenzione che merita politicamente il percorso parlamentare imposto dai partiti alla legge di bilancio del governo Draghi, come se fosse un altro governo di Conte. Al quale si è sempre rimproverato, non a torto, di avere ridotto praticamente a zero ai suoi tempi il ruolo del Parlamento con un dibattito stringatissimo, praticamente nullo, sulla legge più importante di un esecutivo. E ciò per giunta solo in uno dei rami della Parlamento, obbligando l’altro a ratificare in poche ore, a ridosso della scadenza costituzionale di San Silvestro, il testo ricevuto all’ultimo momento dalla Camera dirimpettaia. E’ un sostanziale monocameralismo a Costituzione invariata.
Persino a Draghi dunque, al competentissimo Draghi, all’autorevolissimo ex presidente della Banca Centrale Europea, all’uomo che il Financial Times e l’Ecominist a nome dei mitici mercati e poteri forti del mondo ritengono indispensabile a Palazzo Chigi per continuare a rendere affidabile l’Italia, è stato imposto quindi dai partiti uno spettacolo così poco commendevole in una Repubblica ancora parlamentare, e bicamerale.
A pensarci bene tuttavia, visti anche i numerosi inpegni internazionali che hanno obbligato il presidente del Consiglio a delegare più del solito, e più ancora dei suoi predecessori, la gestione della legge di bilancio al Ministro dell’Econonomia, è a quest’ultimo in particolare che si è voluto probabilmente rendere la vita difficilissima. Sto parlando naturalmente del ministro Daniele Franco, anzi superministro per le vaste competenze del suo dicastero: una persona di fiducia di Draghi destinata -si presumeva sino a ieri- a prenderne il posto, dopo qualche giorno di interregno del ministro più anziano Renato Brunetta, se il presidente del Consiglio dovesse andare al Quirinale a sostituire Sergio Mattarella. Il quale resta naturalmente indisponibile ad una conferma temporanea nonostante la straordinarietà delle condizioni in cui sta maturando la sua successione, cioè in un Parlamento a poco più di un anno dalla scadenza e delegittimato politicamente da una riforma costituzionale che ne ha tagliato di un terzo i seggi: un Parlamento -aggiungo- in cui sono più di 250 i deputati e senatori che hanno cambiato gruppo o partito. Bisogna dire ancora altro per spiegare la delegittimazione delle Camere che a fine gennaio dovranno eleggere un nuovo Presidente della Repubblica destinato a durare in carica sette anni? Non credo proprio, con tutto il rispetto per gli esimi costituzionalisti di cattedra incollati alla sacralità della durata quinquennale del mandato parlamentare, a prescindere da tutto e da tutti.
Draghi si trova così incredibilmente e gravemente assediato: da chi, anche formalmente amico come Silvio Berlusconi, lo sollecita a dire di non volere andare al Quirinale per lasciare che se lo contendano altri, a cominciare dallo stesso Berlusconi, e da chi lo avverte che, se anche dovesse arrivarvi lo stesso, può scordarsi il suo uomo di fiducia a Palazzo Chigi. Al quale sono state già tagliate o sgonfiate le gomme.


In questa situazione si sprecano le previsioni su ciò che il presidente del Consiglio vorrebbe fare davvero. “Draghi continua a puntare il Colle”, scrive oggi in prima pagina la Repubblica. “Il premier pensa a governare. Il Quirinale? Parola ai partiti”, scrive invece, sempre in prima pagina, il Corriere della Sera presumendo di potere anticiparne anche la conferenza stampa di fine anno, annunciata per il 22 dicembre.

Il Giornale della famiglia Berlusconi si spinge invece a immaginare già la mancata elezione di Draghi per ammonirlo, in un editoriale del direttore Augusto Minzolini, a non farsi prendere dalla tentazione ritorsiva di mollare la guida del governo per lasciare tutti, ma proprio tutti, in braghe di tela.
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