Lo strano ’68 di Bersani a Bettola usato contro Renzi

Aldo Grasso, l’ormai storico esperto televisivo del Corriere della Sera, che ha peraltro vissuto la stagione della contestazione giovanile del Sessantotto dalla postazione vantaggiosa e consapevole di un ventenne, non ha mandato giù il ricordo che ha mostrato di averne il buon Pier Luigi Bersani evocandolo contro il solito Matteo Renzi. Cioè, mostrando stupore perché non se ne sia già scoppiata un’altra edizione di fronte ai guasti che starebbe procurando alle nuove generazioni il segretario del Pd e -ahimè- di nuovo aspirante a Palazzo Chigi, anche se l’interessato cerca di mostrare indifferenza all’argomento quando ne parla come di un problema non attuale.

Nel suo “Padiglione Italia” di domenica Aldo Grasso si è chiesto, un po’ alla Maurizio Crozza, che razza di Sessantotto avesse vissuto nella sua Bettola l’allora diciassettenne Bersani, visto che ora riassume le contestazioni di allora nelle “3 emme” del mestiere, della moglie e della macchina. Il critico del Corriere ricorda invece altre lettere e slogan di quella ormai lontana stagione, come “Fate l’amore, non la guerra”, o “l’immaginazione al potere”, o “lotta dura senza paura”, o ancora “Tutto e subito”. E’ possibile -si è chiesto Grasso- che i liceali emiliani contestassero solo il mestiere così tenacemente perseguito e conquistato dai genitori, la macchina, evidentemente sgradita ai “ciclisti leninisti”, e la moglie per via del fastidioso ostacolo alla pratica dell’amore libero?

Sono seguite nella crozzata, diciamo così, di Aldo Grasso parole ironiche sul “bestiario fantastico” di Bersani, preso fa passerotti, tacchini sul tetto, giaguari da smacchiare e mucche nei corridoi del Pd. Mucche che, peraltro, hanno il vantaggio di contenere la emme: una lettera magicamente tradotta in una “parola palindroma” leggibile allo stesso modo, anche politicamente, tanto da destra quanto da sinistra, o viceversa.

Non meno curioso del rimpianto, in funzione antirenziana, del ’68 non importa di quale impronta, se francese, italiana o, ancor più in particolare, di Bettola con le tre emme contestategli ironicamente sul Corriere della Sera, è stato un recente affondo di Bersani, sempre in funzione antirenziana, che me lo ha fatto assomigliare al Ciriaco De Mita degli anni ’80.

L’ex segretario del Pd ha esortato Renzi e amici o sostenitori a non godere della crisi di consensi che ha subìto nelle ultime elezioni amministrative il movimento di Beppe Grillo.

Ostinato a vedere nel partito del comico genovese, come all’inizio di questa diciassettesima legislatura, quando ne inseguì l’aiuto ad un suo governo “di minoranza e combattimento”, una specie di costola della sinistra, per ripetere un’espressione usata nel 1995 da Massimo D’Alema nei riguardi dei leghisti appena usciti dalla prima alleanza elettorale e politica con Silvio Berlusconi, il buon Bersani ha detto -nella stessa intervista alla Stampa sul ’68- che una crisi grillina farebbe soltanto aumentare la “sfiducia” nel sistema politico. Sarebbe quindi meglio che il movimento a 5 stelle rimanesse solido e forte, non abbastanza magari da poter governare da solo, ma costretto dai numeri e dal buon senso, prima o poi, a cercare o accettare accordi e alleanze a sinistra, piuttosto che in direzione dei leghisti, a destra. Il problema insomma sarebbe di far capire finalmente ai grillini ciò che per conto di Bersani ha detto qualche giorno fa il senatore Miguel Gotor spiegando come e cosa dovrebbero sentirsi oggi i benpensanti di sinistra: “competitivi con Grillo, sfidanti rispetto a Renzi”.

Con o senza la variante o la spiegazione di Gotor, le preoccupazioni di Bersani per il pericolo che i grillini perdano voti e consenso mi ha richiamato alla mentre il De Mita degli anni Ottanta perché l’allora segretario della Dc esprimeva lo stesso tipo di timore per i voti che perdeva o poteva perdere il Pci, reduce peraltro dalla pesante sconfitta referendaria sui tagli alla scala mobile dei salari apportati dal governo presieduto da Craxi. E di cui pure la Dc faceva parte occupando da sola metà dei posti ministeriali.

De Mita scommetteva sulla tenuta del Pci in funzione anticraxiana così come oggi Bersani scommette sulla tenuta di Grillo in funzione antirenziana.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

La sinistra è morta, certifica lo psicanalista Recalcati

         Mentre la sinistra discute, al solito, come separarsi ulteriormente per poter poi ricomporsi in qualche altro modo, a spese dell’avversario o dell’antipatico di turno, lo psicanalista Massimo Recalcati, che penso l’abbia votata ogni tanto, se non sempre, ha avuto la bella idea di metterla sul lettino per esaminarla ben bene.

         Il risultato è stato a dir poco catastrofico per la paziente. Sentite che cosa Recalcati ha scritto procurando, credo, al segretario del Pd un piacere non da poco, specie in questi giorni, mentre tutti spulciano il suo libro Avanti per spedirgli quelli che potremmo definire nuovi avvisi politici di garanzia: “Matteo Renzi è colpevole di aver messo la sinistra di fronte al suo cadavere. Anziché fare il lutto della sua identità ideologica, essa preferisce, come spesso accade, imputare all’eterogeno la colpa della sua morte (già avvenuta)”.

         Caspita, viene voglia di dire. E di ripetere ancora più forte quando si vede per quale giornale il buon Recalcati ha scritto questo articolo sensazionale, per il tono e il contenuto. E’ la Repubblica fondata da Eugenio Scalfari e ora diretta da Mario Calabresi. Il quale nello stesso giorno in cui ha ospitato lo psicanalista Recalcati ha scritto un editoriale rigorosamente di sinistra, secondo l’accezione comune, raccogliendone tutta la delusione e preoccupazione per il rinvio all’autunno, e poi chissà ancora a quando, della legge nota come ius soli. Una legge –ritengo- purtroppo danneggiata dallo stesso nome che per errore le hanno voluto assegnare i promotori, facendola apparire per quella che non è, produttiva cioè della cittadinanza italiana a chiunque nasca nella penisola, magari un attimo dopo che la mamma vi ha messo piede sbarcando da una nave che l’ha soccorsa in mare.

         Solo un suicida, come la sinistra bella che morta certificata da Recalcati, poteva avere l’idea di chiamare così una legge dall’effetto per niente automatico. E in un periodo come questo, quando l’Italia subisce una immigrazione d’intensità quasi da invasione, procurandosi dall’Europa, nella migliore delle occasioni, parole di elogio, ma nulla di più.

Il Corriere scivola sulla smania di smentire Renzi su Berlusconi

Il Corriere della Sera con una scivolata antizenziana che poteva risparmiarsi è incorso il 13 luglio in un grave infortunio, costituito da una ricostruzione sbagliata della candidatura di Giuliano Amato al Quirinale, nel 2015: una candidatura saltata per un madornale errore di Silvio Berlusconi, che segnò anche la fine del cosiddetto Patto del Nazareno stretto fra lui e Matteo Renzi un anno prima sulle riforme della Costituzione e della legge elettorale.

         Nel suo libro Avanti il segretario del Pd racconta di avere capito il fallimento proprio di quel patto nel momento in cui Berlusconi, accompagnato dai soliti Gianni Letta e Denis Verdini, andò da lui a perorare l’elezione del giudice costituzionale Amato per la successione al dimissionario e stanco Giorgio Napolitano dicendogli imperdonabilmente di avere già verificato, o addirittura di essersi procurato l’appoggio della minoranxa del Pd in una conversazione telefonica con Massimo D’Alema.

         Renzi, di cui D’Alema era diventato irriducibile avversario politico da quando, l’anno prima, gli era stata preferita Federica Mogherini come commissaria europea alla politica estera e di sicurezza, si chiese giustanente se Berlusconi ci fosse o ci facesse con quella proposta concordata col suo antagonista. E reagì seguendone astutamente lo stesso percorso istituzionale, cioè cercando un candidato al Quirinale nella stessa Corte Costituzionale dove aveva pescato il presidente di Forza Italia. La sua scelta cadde sul giudice Sergio Mattarella, che fu eletto al Quirinale, con soddisfazione pure della minoranza del Pd, il 31 gennaio, alla quarta votazione, quando bastava la maggioranza assoluta delle Camere e dei delegati regionali, e non la maggioranza dei due terzi necessaria nei primi tre scrutini.

         Allo scopo abbastanza evidente di minimizzare l’infortunio di Berlusconi, presentando la sua iniziativa come qualcosa di improvvisato a fin di bene, sul Corriere della Sera Tommaso Labate ha raccontato la “vera” storia, secondo lui, del contatto telefonico avuto dal presidente di Forza Italia con D’Alema.

         Tutto sarebbe accaduto, secondo Labate, la sera del 27 gennaio, quando mancavano due giorni soltanto alla seduta congiunta delle Camere per la prima votazione sulla successione a Napolitano. Berlusconi -secondo questa “ricostruzione” presentata come uno scoop- cenava nella sua redazione romana con amici, fra cui Nunzia De Girolamo, che si era portata appresso, gradito ospite anche lui dell’ex presidente del Consiglio, il marito Francesco Boccia, esponente della minoranza del Pd e presidente di commissione alla Camera.

         A furia di parlare del più e del meno, compresa quindi la scadenza quirinalizia, il discorso sarebbe caduto sull’ipotesi di mandare sul colle più alto di Roma Giuliano Amato. Su cui però si temeva che non tutti nel Pd potessero essere d’accordo, essendo arcinota la diffidenza che una parte dei post o degli ex comunisti non aveva mai smesso di avere verso chi, pur defilatosi nel momento della caduta dell’odiatissimo Bettino Craxi, ne era pur stato negli anni Ottanta e i primi Novanta il principale collaboratore. E’ vero che proprio D’Alema lo aveva riportato a Palazzo Chigi nel 2000, ma è anche vero che nella successione a Oscar Luigi Scalfaro, nel 1999, lo stesso D’Alema, che era allora presidente del Consiglio, non era riuscito a candidarlo al Quirinale, avendogli il segretario del partito Walter Veltroni preferito Carlo Azeglio Ciampi.

         A quel punto l’onorevole Di Girolamo avrebbe incoraggiato Boccia, tra una pietanza e l’altra della cena a Palazzo Grazioli, di chiamare D’Alema e poi di passarglielo a Berlusconi. Che l’indomani -28 gennaio, sempre secondo la ricostruzione di Labate, spintosi ad attribuire questa data allo stesso racconto di Renzi nel libro Avanti- si sarebbe presentato da Renzi per riferirgli dell’assenso di D’Alema raccolto personalmente.

         Il guaio, per Labate e il Corriere della Sera, è che le date della ricostruzione filoberlusconiana della vicenda, col rammarico sottinteso di una reazione eccessiva di Renzi, è che le date non coincidono per niente.

         A pagina 26 del suo libro, che mi sono premurato di andare a leggere nel testo pubblicato da Feltrinelli, finalmente in vendita e coincidente con le anticipazioni fornite dallo stesso autore ai giornali, Renzi scrive, testualmente: “Lo stupore colora -o meglio sbianca- il volto di tutti i presenti. Berlusconi ha sempre un modo simpatico di raccontare la realtà. La sua ricostruzione della telefonata con D’Alema è divertente, ma lascia tutti i partecipanti al tavolo senza parole. Non solo non avevamo mai inserito l’elezione del capo dello Stato nel Patto del Nazareno, ma l’idea che Berlusconi abbia già fatto una trattativa parallela con la minoranza del mio partito sorprende anche i suoi. In quel momento -sono più o meno le due di pomeriggio del 20 gennaio- nel salotto del terzo piano di Palazzo Chigi capisco che il Patto del Nazareno non esiste più: il reciproco afffidamento si è rotto”.

         Ancora, dal libro di Renzi: “Non è un problema di nomi. La personalità su cui Berlusconi e D’Alema si sono accordati telefonicamente è di indubbio valore e qualità, ma è anche difficile da far accettare ai gruppi parlamentari- sempre pronti a esercitare l’arte del franco tiratore- e all’opinione pubblica. E poi c’è un fatto di metodo, prima ancora che di merito. Io ho scelto un percorso trasparente e partecipato, con tanto di streaming, dentro il Pd e davanti al paese per evitare di tornare allo stallo del 2013”, quando alla scadenza del primo mandato di Napolitano non si riuscì a trovare un successore, per cui il presidente uscente fu scongiurato da tutti, fuorché i grillini, a lasciarsi confermare. “Sono impegnato -continua e conclude Renzi su questo punto- in un iter parlamentare difficilissimo per condurre una maggioranza su un nome condiviso. E in una sala ovattata di Palazzo Chigi devo scoprire che si è già chiuso un accordo tra Berlusconi e D’Alema, prendere o lasciare ? E, come se non bastasse, da questo prendere o lasciare dipende la scelta se continuare o meno con il percorso di riforme che pure erano state scritte insieme”.

         Altro, quindi, che all’ultimo momento, a 48 ore dalle votazioni in Parlamento, giusto per aiutare Renzi ad uscire da una situazione di paralisi. Altro che telefonata occasionale con D’Alema, via Boccia, la sera del 27 gennaio e incontro con Renzi il giorno, anzi poche ore dopo. Berlusconi con D’Alema aveva già parlato prima, forse senza alcuna occasionalità e mediazione, per riferirne a Renzi il 20 gennaio, quando ancora mancavano nove giorni all’apertura dell’elezione presidenziale.

         La differenza fra le due ricostruzioni -quella diretta di Renzi e quella, per sentito dire, di Labate sul Corriere della Sera- è grande quanto un grattacielo, a meno che non si voglia sospettare un voluto errore, o un refuso disgraziatamente occasionale del segretario del Pd nel suo libro, pensando al 28 e scrivendo 20 gennaio. Ma è una cosa che ritengo francamente assai improbabile.

         La verità è che Berlusconi -direbbe la buonanima di Amintore Fanfani, toscano come Renzi- la fece grossa. E non tentò poi neppure di coprirla, diversamente da quel che Fanfani soleva aggiungere o intimare, con tutte le aspirazioni di un aretino dicendo testualmente: “Chi la fa grossa, la copra”, appunto.

La memoria corta di Bersani, Gotor ed Enrico Letta

         Miguel Gotor, che non è un torero, ma una senatore della Repubblica italiana, voluto e portato in Parlamento nel 2013 dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, al seguito del quale è uscito nello scorso inverno dal partito non avendo potuto, con i suoi compagni, rovesciarne il segretario Matteo Renzi, è appena tornato a dichiarare che la sinistra deve essere “competitiva” col movimento di Beppe Grillo e “sfidante” nei riguardi del partito renziano.

         Qualche giorno prima Bersani in persona aveva spiegato, dal canto suo, che si fa male, sempre a sinistra, a compiacersi delle difficoltà politiche ed elettorali dei grillini perché quanto più perde voti il comico genovese, tanto più aumenta “la sfiducia” nel Paese. Ma sfiducia verso chi e che cosa? Verso la politica e la democrazia, sembra di capire dalle parole dell’uomo di Bettola, che d’altronde all’inizio di questa diciassettesima legislatura aveva inseguito l’appoggio di Grillo ad un suo governo “di minoranza e di combattimento”: un governo cioè quanto meno velleitario, se non rivoluzionario nel vero senso della parola. Ciò fece drizzare al povero presidente della Repubblica allora in carica, Giorgio Napolitano, anche i capelli che non ha, inducendolo a ritirargli l’incarico conferitogli di presidente del Consiglio. Facendo anzi sapere di non averglielo mai dato, essendosi trattato solo di un “pre-incarico”.

         Seguirono non a caso a quella decisione la rielezione dello stesso Napolitano al Quirinale, le dimissioni di Bersani anche da segretario del Pd e la formazione di un governo presieduto dal suo vice segretario Enrico Letta, della cui maggioranza fu chiamato a far parte anche Silvio Berlusconi. Di cui tuttavia dopo alcuni mesi il nuovo presidente del Consiglio, dichiarandosi neutrale nella controversia esplosa in Parlamento sulla materia, lasciò che si decidesse a scrutinio palese la decadenza del Senato in applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino, per effetto della condanna definitiva per frode fiscale comminata al presidente di Forza Italia dalla sezione feriale, cioè estiva, della Cassazione. Che era stata praticamente diffidata dalla Procura di Milano dal far decadere con l’imminente prescrizione il reato contestato all’allora Cavaliere.

         Tutto questo ricordo per rinfrescare la memoria a chi l’avesse perduta. E per osservare che Bersani e i suoi compagni sono veramente irriducibili. Preferiscono Grillo a Renzi, oltre che a Berlusconi.

         Enrico Letta, dal canto suo, preferisce offendersi per l’11 per cento e qualcosa raccolto nelle primarie di partito negli anni passati e rinfacciatogli da Renzi in questi giorni, piuttosto che difendersi dignitosamente, e autocriticamente, ricordando al segretario del Pd che quell’11 e rotti per cento contribuì poi a portare l’allora sindaco di Firenze alla segreteria del partito. Egli insomma preferì mettersi alla finestra sia per assistere alla decadenza di Berlusconi dal Senato, destinata a indebolire il suo governo, sia per assistere e assecondare la scalata di Renzi al vertice del Pd, destinata a detronizzarlo da Palazzo Chigi. Più sprovveduto, politicamente, non poteva rivelarsi l’ormai ex deputato, oltre che ex presidente del Consiglio.

La memoria corta di Bersani, Gotor ed Enrico Letta

         Miguel Gotor, che non è un torero, ma una senatore della Repubblica italiana, voluto e portato in Parlamento nel 2013 dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, al seguito del quale è uscito nello scorso inverno dal partito non avendo potuto, con i suoi compagni, rovesciarne il segretario Matteo Renzi, è appena tornato a dichiarare che la sinistra deve essere “competitiva” col movimento di Beppe Grillo e “sfidante” nei riguardi del partito renziano.

         Qualche giorno prima Bersani in persona aveva spiegato, dal canto suo, che si fa male, sempre a sinistra, a compiacersi delle difficoltà politiche ed elettorali dei grillini perché quanto più perde voti il comico genovese, tanto più aumenta “la sfiducia” nel Paese. Ma sfiducia verso chi e che cosa? Verso la politica e la democrazia, sembra di capire dalle parole dell’uomo di Bettola, che d’altronde all’inizio di questa diciassettesima legislatura aveva inseguito l’appoggio di Grillo ad un suo governo “di minoranza e di combattimento”: un governo cioè quanto meno velleitario, se non rivoluzionario nel vero senso della parola. Ciò fece drizzare al povero presidente della Repubblica allora in carica, Giorgio Napolitano, anche i capelli che non ha, inducendolo a ritirargli l’incarico conferitogli di presidente del Consiglio. Facendo anzi sapere di non averglielo mai dato, essendosi trattato solo di un “pre-incarico”.

         Seguirono non a caso a quella decisione la rielezione dello stesso Napolitano al Quirinale, le dimissioni di Bersani anche da segretario del Pd e la formazione di un governo presieduto dal suo vice segretario Enrico Letta, della cui maggioranza fu chiamato a far parte anche Silvio Berlusconi. Di cui tuttavia dopo alcuni mesi il nuovo presidente del Consiglio, dichiarandosi neutrale nella controversia esplosa in Parlamento sulla materia, lasciò che si decidesse a scrutinio palese la decadenza del Senato in applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino, per effetto della condanna definitiva per frode fiscale comminata al presidente di Forza Italia dalla sezione feriale, cioè estiva, della Cassazione. Che era stata praticamente diffidata dalla Procura di Milano dal far decadere con l’imminente prescrizione il reato contestato all’allora Cavaliere.

         Tutto questo ricordo per rinfrescare la memoria a chi l’avesse perduta. E per osservare che Bersani e i suoi compagni sono veramente irriducibili. Preferiscono Grillo a Renzi, oltre che a Berlusconi.

         Enrico Letta, dal canto suo, preferisce offendersi per l’11 per cento e qualcosa raccolto nelle primarie di partito negli anni passati e rinfacciatogli da Renzi in questi giorni, piuttosto che difendersi dignitosamente, e autocriticamente, ricordando al segretario del Pd che quell’11 e rotti per cento contribuì poi a portare l’allora sindaco di Firenze alla segreteria del partito. Egli insomma preferì mettersi alla finestra sia per assistere alla decadenza di Berlusconi dal Senato, destinata a indebolire il suo governo, sia per assistere e assecondare la scalata di Renzi al vertice del Pd, destinata a detronizzarlo da Palazzo Chigi. Più sprovveduto, politicamente, non poteva rivelarsi l’ormai ex deputato, oltre che ex presidente del Consiglio.

Bersani con Grillo come De Mita col Pci negli anni 80

         Se non ci fosse, Pier Luigi Bersani bisognerebbe inventarselo. E non solo per riderne, come ha cercato dal primo momento di fare Maurizio Crozza esasperandone con imperdibili imitazioni gli elementi distintivi, le metafore e gli ammonimenti agli avversari di turno. Che sono andati via riducendosi per diventare uno solo: naturalmente Matteo Renzi, il giovanotto toscano impadronitosi della “ditta”, come Bersani usava chiamare il partito comunista italiano e tutte le edizioni successive, compreso il Pd da lui abbandonato nei mesi scorsi, con Massimo D’Alema e altri, per rovesciarne la sigla in Dp, visto il fallimento di tutti i tentativi di rovesciarne il segretario.

         Bersani è prezioso, per chi segue la politica, a causa della capacità che ha, con o senza metafore, di far capire gli umori più profondi di una certa sinistra irriducibile nelle sue simpatie e antipatie, bonaria nelle parole e impietosa nelle demolizioni, quando si mette in testa di abbattere qualcuno e qualcosa, pure al costo di rimanere anch’essa sepolta purtroppo sotto le macerie.

         L’ultima sortita che ha fatto notizia dell’ex segretario del Pd è stata la rievocazione del Sessantotto del secolo scorso per auspicarne in pratica una riedizione in funzione antirenziana.

         Il 1968 fu l’anno della contestazione giovanile, della “fantasia al potere”, destinata purtroppo a produrre anche la tragica illusione e speranza della lotta armata, praticata da uomini e donne che l’onestà intellettuale di Rosanna Rossanda sul Manifesto, all’indomani del sequestro di Aldo Moro, dieci anni dopo, riconobbe fra i volti dell’”album di famiglia” comunista. Basterebbe già questo per liquidare come merita il ricordo che ne ha Bersani nelle allucinazioni antirenziane di oggi, dimenticando peraltro che il 1968 delle sinistre europee ebbe, fra gli altri inconvenienti, anche quello autenticamente vergognoso di non spendere una parola o una manifestazione a favore di quanti nell’allora impero sovietico cercavano di riconquistare autonomia e libertà: per esempio, nella Cecoslovacchia di Alexander Dubcek. Chissà se ricorda ancora qualcosa questo nome a Bersani.

         Eppure non è la rievocazione del 1968 in funzione antirenziana, o di antirenzusconismo, come viene chiamata la combinazione temuta di Renzi con Berlusconi dopo le prossime elezioni politiche. Ancora più sconcertante è il rapporto privilegiato che Bersani continua a coltivare col grillismo, ch’egli preferisce a Renzi e al cosiddetto Renzusconi.

         “Non gioisco -ha detto testualmente Bersani alla Stampa– dei fallimenti del M5S”, che non è naturalmente la sigla di un sommergibile ma quella del movimento a 5 stelle di Beppe Grillo,”perchè -ha spiegato l’ex segretario del Pd- cresce la sfiducia”. Egli insomma preferisce un Grillo più forte a un Renzi più forte, o meno debole, viste le difficoltà del giovanotto toscano.

         Bersani è riuscito così ad andare anche oltre il 2013, quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovette togliergli l’incarico, o pre-incarico, di presidente del Consiglio per impedirgli di inseguire i grillini sino a scommettere su un loro aiuto ad un suo governo “di minoranza e combattimento”. Di combattimento, in particolare, contro il “giaguaro” Berlusconi, ch’egli si era proposto in campagna elettorale di “smacchiare” riuscendo invece a fargli sfiorare la vittoria.

         Bersani parla dei grillini come negli anni Ottanta l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita parlava del Pci, rammaricandosi ogni volta ch’esso perdeva voti, stando all’opposizione, a vantaggio del Psi di Bettino Craxi, che pure era alleato della Dc guidando un governo di coalizione per metà composto di ministri democristiani.

         L’avversione politica di Bersani a Renzi, sino a qualche mese fa compagno di partito, è quindi pari a quella che De Mita aveva per Craxi una trentina d’anni fa e più. Craxi notoriamente è morto, la sinistra post-comunista si cannabilizza, De Mita fa il sindaco della sua Nusco e Bersani ne ha preso il posto a livello nazionale, ereditandone umori e pregiudizi. Che parabola, signori!

 

 

 

 

 

        

L’Avanti e Indietro…. letterario di Matteo Renzi

         A dispetto di quell’Avanti scelto per il titolo volendo dare evidentemente la precedenza a ciò che vuole fare da grande, visto che è ancora giovane, c’è molto Indietro nel libro di Matteo Renzi finalmente distribuito da Feltrinelli dopo un eccezionale lancio fatto con le anticipazioni giornalistiche.

         Se l’Avanti è prevalso nella titolazione, l’Indietro è forse prevalso, almeno sinora, nell’interesse del pubblico, e non solo degli addetti ai lavori, per quanto non detto in copertina.

         A parte il progetto, a sorpresa, non di superare ma di tornare a Maastricht, dove 25 anni fa si stabilì che il deficit non potesse superare il 3 per cento del prodotto interno lordo nei paesi aderenti all’Unione Europea, costretti invece dal 2012 a stringere di più la cinta con un patto di emergenza che Renzi non intende incorporare nel trattato, come invece vorrebbero soprattutto a Berlino, del libro del segretario del Pd hanno fatto notizia di più i sassolini che l’autore ha voluto togliersi dalle scarpe raccontando i suoi mille giorni e oltre di doppio governo: a Palazzo Chigi e al Nazareno, inteso come sede del suo partito, distanti peraltro poco più di centro metri. Che Renzi soleva percorrere a piedi, e a passo di marcia, attraversando gagliardamente anche la Galleria Colonna di una volta, poi dedicata alla memoria di Alberto Sordi.

         L’operazione dei sassolini da togliersi dalle scarpe é tanto liberatoria per chi la compie quanto scomoda, urticante, dolorosa naturalmente per chi la subisce. Ne sa qualcosa Massimo D’Alema, tanto insofferente e sospettoso dei rapporti “nazareni” di due anni e mezzo fra Renzi, ancora fresco di elezione a segretario del partito, e Berlusconi, un po’ meno fresco di decadenza del Senato per i suoi guai giudiziari, da essere rimasto comprensibilmente infastidito dal racconto renziano di un suo accordo col presidente di Forza Italia, alle sue spalle, per mandare al Quirinale Giuliano Amato nel 2015. “Ricostruzione fantasiosa”, ha detto d’Alema rimproverando però a Berlusconi – e a ragione forse, dal suo punto di vista- di avere fatto il suo nome con Renzi. Che non avrebbe potuto gradire sia per il suo spirito “psicotico” nei riguardi dell’avversario interno di partito, sia per ragioni quanto meno di prudenza, se non di sopravvivenza politica che forse avrebbe avvertito anche lui -D’Alema- al suo posto. Ma è difficile, naturalmente, farglielo ammettere.

         Tuttavia, se Massimo il rottamato gli ha dato dello psicopatico, Enrico Letta da Parigi, o dov’altro si trovava per commentare un altro passo dell’Avanti e Indietro letterario di Renzi, ha dato al segretario del Pd del “disgustoso” per essersi compiaciuto -altro che pentito- di averlo estromesso nel 2014 da Palazzo Chigi. E meno male che l’ex presidente del Consiglio, ora anche ex deputato per una specie di ritorsione politica, oltre che di passione per l’insegnamento, si era proposto “il silenzio” di fronte all’Indietro di Renzi, Figuratevi he cosa gli sarebbe uscito dalla bocca, in italiano o in francese, secondo l’interlocutore, se avesse deciso di parlare, e di togliersi anche lui del tutto i sassolini o sassi dalle scarpe.

         Divertente, tutto divertente. Non c’è che dire. Ma, ripeto, siamo proprio sicuri che quel titolo scelto per il suo libro da Renzi sia giusto? Commercialmente dipenderà dalle vendite. Politicamente dipenderà dalle macerie che rimarranno nei rapporti politici e personali dell’autore con colleghi, concorrenti, avversari e soprattutto elettori.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titoloTutte le democratiche randellate di Enrico Letta e Massimo D’Alema a Matteo Renzi

Autorete di Bruxelles con Renzi, spinto a Palazzo Chigi

Il carattere “centrale” di quella che Carlo Fusi ha giustamente indicato come “la determinazione di Matteo Renzi” in questa estate rovente è stato forse sottovalutato a Bruxelles, vista la fretta con la quale lor signori commissari, portavoce e collaboratori vari hanno insieme snobbato e liquidato il progetto del segretario del Pd di usare per cinque anni il deficit sino alla soglia – il 2,9 per cento rispetto al prodotto interno lordo- non fissata capricciosamente da lui ma dal trattato costitutivo dell’Unione Europea 25 anni fa a Maastricht. Dove si stabilì che il deficit, appunto, dovesse essere contenuto entro il 3 per cento. Poi sopraggiunse, fuori dal trattato, il maggiore rigore ora preteso a Bruxelles, sia pure con qualche flessibilità faticosamente negoziata.

Più che un dispetto a Renzi e un piacere al presidente del Consiglio in carica, Paolo Gentiloni, e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, i signori dell’Unione rischiano di avere fatto il contrario: un piacere al segretario del Pd e un dispetto agli interlocutori istituzionali che nella capitale belga hanno mostrato di preferire, sin quasi a contrapporli a chi pure dispone politicamente del governo nel Parlamento italiano, guidando il principale partito della maggioranza.

Non a caso Renzi, tra un’anticipazione e l’altra del suo libro Avanti, si è affrettato a reagire alla sua maniera, definita di recente “indisponente” dal sindaco di Milano Giuseppe Sala. Che pure si trova a Palazzo Marino grazie all’appoggio dello stesso Renzi, vincendo di strettissima misura sul candidato del centrodestra Stefano Parisi, forse azzoppato dall’indifferenza degli alleati leghisti.

Me ne sbatto, ha praticamente risposto Renzi confermando il suo obiettivo, chiamiamolo così, del 2,9 per quella che sarà la nuova legislatura, e quindi anche come candidato a Palazzo Chigi, pur non dicendolo esplicitamente. E’ importante, per il segretario del Pd, che l’abbiano capito gli addetti ai lavori, dentro e fuori casa. E i destinatari del messaggio l’hanno subito capito, vista l’ulteriore salita della tensione, che pure sembrava già altissima, fra Renzi e Massimo D’Alema. Che, forse conoscendo anche la parte alquanto imbarazzante del libro del segretario del Pd riguardante l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale due anni fa, quando lo stesso D’Alema si adoperò dietro le quinte con Silvio Berlusconi per la scalata di Giuliano Amato al colle più alto di Roma, ha ammonito Renzi a “non stare tranquillo” sino a quando lui avrà fiato. E ciò dopo che lo stesso D’Alema essere intervenuto ad una riunione del partito fondato con Pier Luigi Bersani uscendo dal Pd per assumere una posizione largamente apparsa, a torto o a ragione, alternativa alla troppa moderazione attribuita, sempre a torto o a ragione, al candidato federatore di un nuovo centro sinistra Giuliano Pisapia.

Nel quadro politico che i no giunti a Renzi da Bruxelles hanno contribuito a creare, la pur controversa o contrastata aspirazione del segretario del Pd a tornare a Palazzo Chigi dopo le elezioni, non bastandogli evidentemente la guida del partito, finisce per assumere un carattere sovranista, per ripetere il termine usato dai maggiori contestatori dell’attuale gestione dell’Unione Europea, a destra e a sinistra: da Matteo Salvini a Giorgia Meloni e ai grillini. Sì, anche i grillini: quelli che Pier Luigi Bersani, per esempio, prima ancora che vi arrivasse il segretario della Lega, considerava già nel 2013 possibili interlocutori per realizzare governi “di minoranza e insieme di combattimento”. A fermarlo, togliendogli l’incarico o pre-incarico di presidente del Consiglio, fu l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Se una candidatura di Renzi a Palazzo Chigi per un governo di cosiddette larghe intese, con cespugli centristi sopravvissuti in qualche modo alle elezioni ma soprattutto con un Berlusconi sempre scambiato a sinistra per il male assoluto di questo paese, dovesse essere motivata anche con la necessità di tenere testa ai signori di Bruxelles, e non per cambiare ma per rispettare -ripeto- i famosi parametri di Maastricht, assisteremmo al crollo anche dell’ultima, pur contraddittoria speranza coltivata dagli avversari più inaciditi del segretario del Pd. Alludo alla speranza, espressa da qualcuno a sinistra, di un Renzi accettato da Berlusconi come alleato ma non come presidente del Consiglio, nel timore che diventi troppo attrattivo per l’elettorato del vecchio centrodestra ancora in libera uscita, o in astensione. A quel punto, in nome del sovranismo, pure Berlusconi darebbe forse via libera a Renzi, che d’altronde ha appena scritto che l’ex presidente del Consiglio non riesce ad essergli antipatico, per quanti sforzi facciano gli altri, e persino lo stesso Berlusconi, di faglielo diventare.

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

Se Giuliano Amato facesse causa a Berlusconi……

         Se fosse vera, come io temo nonostante la mezza, neppure intera, smentita di Massimo D’Alema, la ricostruzione dell’ultima edizione della corsa al Quirinale, nel gennaio del 2015, offerta da Matteo Renzi ai lettori del suo libro Avanti, il buon Giuliano Amato dovrebbe fare causa per danni al suo curioso amico Silvio Berlusconi. Che ne propose alle ore 14 del 20 gennaio di quel disgraziatissimo anno la candidatura al Quirinale all’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd nell’unico modo possibile per rendere l’operazione impraticabile. E ciò anche a costo, o forse proprio allo scopo -c’è, a questo punto da sospettare- di affondare il cosiddetto patto del Nazareno sulle riforme, con tutte le conseguenze che ne derivarono, compresa la bocciatura della riforma costituzionale, a quel punto solo di Renzi, nel referendum del 4 dicembre scorso.

         Quando mancavano ancora nove giorni alla partenza della corsa al colle più alto di Roma, essendo state le Camere convocate per il 29 gennaio per eleggere il successore del dimissionario Giorgio Napolitano, sfiancato -a suo dire- dai due anni supplementari trascorsi al Quirinale dopo l’esaurimento del suo primo mandato, Berlusconi volle incontrare Renzi facendosi accompagnare dai soliti Gianni Letta e (allora) Denis Verdini.

         Con la grazia, si può ben dire, di un elefante in movimento fra bicchieri, piatti, tazze e quant’altro di una tavola allestita per il pranzo, il presidente di Forza Italia ritenne di poter offrire a Renzi su un vassoio d’argento la soluzione del problema sul tappeto: l’elezione del già allora giudice costituzionale Giuliano Amato a presidente della Repubblica con l’appoggio da lui personalmente garantito, se non addirittura patteggiato, con la irrequieta minoranza del Pd guidata da Massimo D’Alema. Che si sarebbe preso la briga di parlarne proprio con lui, Berlusconi, per spianare la strada al già due volte presidente del Consiglio: la prima su designazione di Bettino Craxi, nel 1992, e la seconda su designazione dello stesso D’Alema per succedergli nel 2000 a Palazzo Chigi.

         Renzi non è arrivato a scriverlo nel suo libro ma è facile immaginare ch’egli si fosse chiesto, sentendo Berlusconi quel pomeriggio, se il suo ospite ci fosse o ci facesse, come si suol dire. E come lo stesso Berlusconi avrebbe avuto il diritto di chiedersi se, a parti rovesciate, Renzi gli avesse proposto, per esempio, qualcuno alla presidenza di Mediaset, al posto di un Fedele Gonfalonieri stanco e dimissionario, d’intesa con un signore impegnato in una scalata al gruppo.

         La risposta renziana, pur non immediata ma maturata in nove giorni, e annunciata alla vigilia del quarto e decisivo scrutinio parlamentare per l’elezione del capo dello Stato, quando il numero necessario per l’elezione scendeva da 673 a 505 voti, fu sarcasticamente all’altezza, diciamo così, del livello istituzionale scelto con impudenza da Berlusconi.

         Anche Renzi decise di pescare nelle acque della Corte Costituzionale. Egli decise cioè di scegliere un altro giudice Consulta per un trasloco facile facile, a piedi, da un palazzo all’altro della stessa piazza. A Giuliano Amato il presidente del Consiglio e segretario del Pd preferì Sergio Mattarella, di discendenza politicamente morotea ma in grado ancor più di Amato di guadagnarsi il consenso della turbolenta minoranza post-comunista del Pd per avere avuto il “coraggio”, non a caso sottolineato in una dichiarazione dello stesso Renzi, di dimettersi a suo tempo da ministro per essere “coerente con le proprie idee”.

         In effetti nel 1990 l’allora ministro democristiano della Pubblica Istruzione Mattarella si era dimesso dall’ultimo governo di Giulio Andreotti, con altri esponenti della sinistra del suo partito, per protesta contro una disciplina del sistema radiotelevisivo -la famosa legge dell’allora ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì- che finalmente legittimava la tv commerciale di Berlusconi.

         Mai risposta -si può ben dire della reazione di Renzi alla mossa quirinalizia del presidente di Forza Italia- fu più perfida e proporzionata. Perfida e proporzionata sia rispetto a Berlusconi sia rispetto a D’Alema. Che ha reagito alle rivelazioni del segretario del Pd parlando di “ricostruzione fantasiosa” della vicenda presidenziale del 2015, ma il giorno dopo avere ammonito lo stesso Renzi di non sentirsi politicamente al sicuro fino a quando lui vivrà. E D’Alema -credetemi- non è tipo di ammazzarsi.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Le manovrine bizzarre di Silvio Berlusconi con Massimo D’Alema sul Quirinale

 

 

 

 

 

 

 

Salvini sfida Berlusconi con le aperture a Grillo

          Occhio anche all’altro Matteo, che naturalmente è Salvini, il segretario della Lega, tutto preso, diversamente da Renzi, il segretario del Pd, a corteggiare i grillini. Con i quali il padano è appena tornato a dichiarare di non volere escludere accordi dopo le elezioni, vista la sintonia crescente sul problema dell’immigrazione, destinato a diventare sempre più centrale nella campagna elettorale in corso da più di un anno. E ciò, nonostante molti ai piani alti delle istituzioni facciano finta di non accorgersene, soddisfatti dello scampato pericolo di uno scioglimento anticipato delle Camere, sia pure di qualche mese soltanto rispetto alla scadenza ordinaria del prossimo inverno.

         In verità, il vice presidente grillino della Camera Luigi Di Maio, mettendo il suo bagaglio nell’auto dopo la festa a Palermo per il candidato appena scelto col solito sistema del clic alla carica di governatore della regione siciliana, è tornato ad escludere davanti a telecamere e micrfoni che il suo partito si converta, nella stessa Sicilia e altrove, all’idea di allearsi con altri, specie se hanno alle loro spalle esperienze di governo. E la Lega ne ha avute di sicuro a livello nazionale, ai tempi del fondatore Umberto Bossi, e ne ha ancora, con Salvini, a livello locale, se possiamo chiamare locali i governi di regioni come la Lombardia, il Veneto e la Liguria.

         Ma il no di Di Maio, per quanto il vice presidente di Montecitorio sia ancora quotato come il più probabile candidato del movimento di Grillo a Palazzo Chigi, non sembra impensierire Salvini. Che forse ha altre notizie sugli umori di chi conta davvero fra i grillini, anche senza avere incontrato Davide Casaleggio, viste le smentite e le minacce di querele che si è procurato il direttore di Repubblica per averne invece riferito ai lettori.

         D’altronde prove di contiguità politica fra grillini e leghisti si sono colte nelle elezioni amministrative già l’anno scorso, con l’elezione delle sindache pentastellate di Roma e di Torino, e si sono ripetute, a vantaggio questa volta dei candidati della Lega e dintorni, nelle elezioni amministrative di questo 2017.

         Quanto più Silvio Berlusconi, fra uno scherzo e l’altro sull’eterno e vacuo problema, per lui, del suo successore politico, indica nei grillini i principali avversari, e bussa alla porta di Renzi, che lo incoraggia -nella rappresentazione di una vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera- a venire “Avanti!”, con l’esclamativo del giornale del Psi, rimasto nella penna del segretario del Pd titolando il suo libro fresco di stampa, tanto più Salvini tiene a dialogare con loro.

         Questa dell’altro Matteo non può essere scambiata per una condotta occasionale. E’, al contrario, una linea ostentata di dissenso, anzi di sfida al presidente di Forza Italia e alla sua convinzione di essere il leader insostituibile del centrodestra che dovesse ricostituirsi a livello nazionale. Un centrodestra le cui divisioni non sono inferiori a quelle del centrosinistra.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net

       

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