Ponzio Pilato richiamato a Roma per Consip

Sia pure sul piano metaforico, pasticciando con due millenni di storia, Pilato è tornato a Roma dopo il fallimento della missione offertagli da eccezionali circostanze in Palestina. Dove, se avesse avuto coraggio, e non la rassegnazione o addirittura la voglia ostentata di lavarsene le mani, avrebbe potuto salvare la vita a Gesù, anche a costo di smentire le sacre scritture. Alle quali d’altronde lui non credeva. Era scritto un corno che Gesù dovesse fare quella fine, avrebbe detto un laico. Figuriamoci un pagano.

Una volta a Roma, con i tempi veloci garantiti un po’ dalla modernità e un po’ dalla natura, il fantasma di Pilato dove altro poteva rifugiarsi se non a due passi dalla Stazione ferroviaria Termini, in Piazza Indipendenza, e più in particolare nel cosiddetto Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio Superiore della Magistratura ? Che per dettato costituzionale è presieduto dal capo dello Stato, ma nei fatti dal vice presidente obbligatoriamente scelto fra i membri cosiddetti laici, cioè non togati, eletti dal Parlamento: nel nostro caso dall’ex sottosegretario piddino Giovanni Legnini.

Si tratta di una persona degnissima, per carità, ed anche esperta per la sua lunga professione di avvocato, che ha alternato con l’attività politica prima nella sua terra d’Abruzzo e poi a livello nazionale. Ma di fronte all’affare giudiziario Consip, del quale il meno che si possa dire è “pasticciato”, Legnini ha mostrato forse un po’ troppa prudenza, non so se del tutto di testa sua o, magari inconsapevolmente, per l’influenza dei due altissimi magistrati che lo affiancano nel comitato di presidenza dell’organo di autogoverno delle toghe, e forse dello stesso presidente della Repubblica.

Immagino infatti che il vice presidente sia solito consultare preventivamente, e giustamente, il presidente quando il comitato di presidenza, appunto, deve affrontare questioni di particolare importanza o esposizione mediatica com’è sicuramente la vicenda della Consip e dei suoi appalti per gli acquisti della pubblica amministrazione. Su cui indagano due Procure della Repubblica, di Napoli e di Roma, distanti fisicamente circa duecento chilometri, ma forse dieci o cento volte tanto per l’impressione che hanno dato ai giornali, anche a quelli meglio disposti, più comprensivi verso la magistratura. Ne cito uno per tutti: naturalmente Il Fatto Quotidiano.

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Ebbene, il comitato di presidenza del Csm, acronimo del Consiglio Superiore della Magistratura, non ha ritenuto di dovere aprire una “pratica” d’indagine, proposta invece dal consigliere laico forzista Pierantonio Zanettin, sulla manipolazione di una intercettazione addebitata dalla Procura di Roma a un capitano dei Carabinieri operante presso la Procura di Napoli. Intercettazione dal cui “brogliaccio”, cioè sunto, i magistrati romani avevano ricavato elementi tali da accusare il padre di Matteo Renzi, Tiziano, di traffico di influenze illecite, prima di accorgersi della manipolazione, appunto, e di accusare l’ufficiale dell’Arma di falso ideologico e materiale.

Secondo il comitato di presidenza del Csm si tratta di una vicenda non di propria competenza perché non le risulta -sentite, sentite- alcun conflitto fra le due Procure. Solo in questo caso di conflitto il comitato avrebbe sentito l’obbligo di promuovere un accertamento.

In effetti, le due Procure negano di essere in conflitto, è vero. Evidentemente, come mi è già capitato di scrivere qui, lo sono a loro curiosissima, stravagante insaputa. E mi pare sconcertante che il comitato di presidenza del Csm non si sia posto nessun problema considerando il fatto, per esempio, che il capitano indagato a Roma faccia parte di un reparto dei Carabinieri -quello ecologico- che la locale Procura ha estromesso dall’inchiesta non fidandosi della sua tenuta stagno, chiamiamola così, nella difesa del segreto istruttorio. Ma lo stesso nucleo continua ad essere adoperato dalla Procura di Napoli, che gli ha insomma confermato fiducia.

Lo stesso capitano indagato a Roma avrebbe potuto continuare a svolgere atti istruttori come ufficiale di polizia giudiziaria a Napoli se non avesse deciso autonomamente, senza che i magistrati campani glielo chiedessero, di astenersene dopo l’incriminazione.

Va poi detto che questo benedetto capitano è in forza come Carabiniere a Roma, ma ha lavorato e potrebbe ancora lavorare, se rinunciasse all’astensione, in quel di Napoli.

La faccenda è risultata così strana anche al ministro della Giustizia Andrea Orlando da avere fatto chiedere formalmente dai suoi uffici alla Procura Generale di Napoli un rapporto sull’uso e sul funzionamento della polizia giudiziaria in quel distretto. Neppure questa circostanza, che non mi pare secondaria, per quanto esistessero, secondo il mio modesto avviso, elementi anche per disporre un’ispezione diretta del Ministero, ha indotto il comitato di presidenza del Csm a porsi e a porre una questione aprendo quanto meno un fascicolo, come chiesto appunto dal consigliere Zanettin, considerato evidentemente troppo curioso e intempestivo.

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In compenso, nel Palazzo dei Marescialli si sono posti il problema, che ha sicuramente la sua valenza, della compatibilità fra la tutela del segreto istruttorio e la dipendenza della polizia giudiziaria, nelle cui mani c’è gran parte se non tutto quel segreto, non solo dai magistrati con i quali collabora ma anche dai comandi militari da cui dipende. E cui deve riferire sul proprio lavoro in base ad una norma curiosamente introdotta l’anno scorso in occasione -chissà perché, poi- del passaggio della Guardia Forestale all’Arma dei Carabinieri.

E’ chiaro che una simile norma allarga e non stringe la rete di protezione del segreto istruttorio o d’ufficio. E andrebbe perciò abolita o modificata.

Ma la vicenda Consip non è più solo questione di segreti istruttori e d’ufficio violati, e su cui risultano tuttora indagati un ministro della Repubblica, il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e un altro generale della stessa arma. C’è anche o soprattutto, adesso, il problema di sapere e scoprire com’è potuto accadere che di una intercettazione abbia potuto contare più un brogliaccio sbagliato che un testo esatto di trascrizione integrale. Perché ciò che si è scoperto a Roma, confrontando l’uno con l’altro, e sentendo anche materialmente la registrazione, non si è scoperto prima a Napoli? Ci volete dare una risposta, signori inquirenti, di qualsiasi livello e località ?

Non si può onestamente scambiare questa curiosità per interesse politico a fare da spalla, diciamo così, alle richieste di verità avanzate e appena ribadite, peraltro legittimamente, da Matteo Renzi sia in veste di politico, danneggiato dal cosiddetto processo mediatico sull’affare Consip, sia in veste di figlio di un indagato per effetto anche di quel brogliaccio.

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Un Grillo amletico si confessa all’Avvenire

         Già collaboratore dell’Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, Beppe Grillo gli si è confessato con una intervista che mi ha felicemente sorpreso, una volta tanto.

         “Io -ha detto- non uso il mio mestiere per convincere. Sono semplicemente Beppe Grillo con le mie passioni, con i miei limiti, con le mie intuizioni. Lascio che tutto traspaia ed emerga per com’è, evitando di vivere nell’enorme vergogna di ciò che ero prima di essere un politico. Un comico può permettersi di fingere, un politico no”.

         E’ un Beppe Grillo di sapore un pò amletico, shakesperiano. Essere o non essere un comico? Essere o non essere un politico? E a propria insaputa, in un caso o nell’altro.

         Se fossi un suo “portavoce”, mi sentirei un po’ perduto. E diventerei afono.

Renzi invidia giustamente la May, Brexit a parte

Immagino quanto Matteo Renzi abbia invidiato la premier inglese Theresa May, che ha potuto decidere da sola, dalla sera alla mattina, pur smentendo precedenti affermazioni, di mandare gli elettori alle urne prima della scadenza del mandato della parte elettiva del Parlamento, cioè la Camera dei Comuni. E i cittadini britannici sanno già la data in cui andranno a votare: giovedì 8 giugno. Tutto il resto ormai è formalità: la convalida parlamentare della decisione della signora May e la firma dell’anziana regina Elisabetta.

La sovrana al massimo avrà ricevuto dalla prima ministra la cortesia di una telefonata prima dell’annuncio ufficiale della sua decisione, motivata con le difficoltà di portare avanti i negoziati con Bruxelles per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea fra i contrasti che dividono le forze politiche inglesi. E nella convinzione di cogliere l’opposizione laburista nel momento della sua maggiore debolezza, per cui la signora leader dei conservatori avverte già la vittoria in tasca.

Tutto a Londra è stato ed è semplice, chiaro, rapido e trasparente. E’ l’opposto di quello che accade a Roma quando un governo si trova nelle stesse condizioni in cui si è messo o è stato messo quello inglese in questa incipiente primavera 2017.

Eppure l’Inghilterra non è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, né l’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi, né la Libia di non so neppure chi. E’ la culla della democrazia moderna. E’ il Paese di Westminster e dell’annessa, maestosa torre dell’orologio. E’ il Paese al quale basta e avanza il canale della Manica per dire che il Continente è isolato quando vi cala la nebbia. Ah, che Paese, che Nazione, che Comunità, deve avere pensato il nostro giovane ex presidente del Consiglio. Egli vi si potrebbe trovare bene, raggiungendo amici che già vi risiedono, lavorano e guadagnano benissimo, se solo avesse meno ambizioni nazionali e sapesse naturalmente parlare l’inglese un po’ meno approssimativamente di quanto non lo parli, sia pure con la stessa disinvoltura con la quale indossa quei pantaloni che non raggiungono neppure le caviglie e quelle giacche che superano di poco la lunghezza di un gilè di taglia britannica.

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Al povero, italiano, toscano Matteo Renzi, figlio di Tiziano, bastò pensare alle elezioni anticipate la sera del 4 dicembre scorso, quando prese la sventola del referendum costituzionale ad opera di un’”accozzaglia” -l’aveva chiamata- di forze incapace di progettare insieme e di realizzare un canile, altro che un governo; bastò pensare alle elezioni, dicevo, per rischiare il mandato di cattura di qualche volenteroso magistrato in servizio permanente effettivo di “partigiano della Costituzione”, come una volta si vantò di essere Antonio Ingroia con la toga ancora addosso.

Bastò il 5 dicembre, o qualche giorno più avanti, che Renzi mandasse in avanscoperta il suo ancora ministro dell’Interno Angelino Alfano a dire che si potevano rinnovare le Camere già a febbraio, perché l’arresto del presidente del Consiglio dimissionario fosse eseguito e la chiave della cella buttata in qualche scarico del carcere. Tanto, il giovanotto non era e non è neppure coperto da quel poco che è rimasto delle vecchie immunità parlamentari, non essendo né deputato, né senatore né europarlamentare. E’ un giovanotto vulnerabilissimo, nonostante l’onnipotenza attribuitagli ossessivamente nella redazione del Fatto Quotidiano guidata con mano ferma da Marco Travaglio: il pubblico ministero -credo- più mancato d’Italia. Se ci fosse stato lui al posto del già impetuoso Antonio Di Pietro alla Procura di Milano nel 1992, ne avremmo viste di ancora più grosse e clamorose durante la stagione del terrore di Mani pulite.

Bastò, sempre dopo la sventola del referendum costituzionale del 4 dicembre, che Renzi dimettendosi da presidente del Consiglio accennasse al presidente della Repubblica l’idea delle elezioni anticipate per rischiare di perdere il saluto di Sergio Mattarella, che pure era arrivato al Quirinale meno di due anni prima grazie a lui. Che aveva preferito rompere il famoso Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, e prenotare così anche la sconfitta referendaria, piuttosto che trattare su un altro nome per la successione a Giorgio Napolitano. E perdere il saluto di Mattarella era pure poco, perché c’era anche il rischio che il presidente facesse chiamare un’ambulanza per favi infilare dentro l’ospite e mandarlo in qualche reparto di neurologia.

Non sto qui a ricordarvi quello che successe all’interno del Pd ancora popolato dai vari Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema quando sentirono gli amici di Renzi parlare di elezioni anticipate. Per poco non lo cacciarono via, prima di decidere di andarsene loro quando lui dalle elezioni ripiegò sul congresso anticipato.

A sentir parlare di elezioni prima della scadenza ordinaria delle Camere perse le staffe pure il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, spintosi a definire anormale un Paese dove si pensasse una cosa del genere. Ma dove i ricorsi anticipati alle urne si erano letteralmente sprecati, visto che a memoria posso elencare gli scioglimenti anticipati delle Camere del 1972, del 1976, del 1979, del 1983, del 1987, del 1994, del 1996, e del 2008: scioglimento, quest’ultimo, disposto proprio da Napolitano solo due anni dopo le elezioni ordinarie del 2006, vinte da un Romano Prodi travolto poi dall’arresto della moglie del suo ministro della Giustizia Clemente Mastella. Questo, giusto per rinfrescarsi la memoria.

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Allo scioglimento anticipato del 2016, visto il colpo inferto dal referendum costituzionale ad una legislatura già entrata in camera di rianimazione alla nascita, si è preferito questa lunga, tormentata, logorante campagna elettorale in corso ormai da più di un anno. Che, già calda di suo, si arroventerà con le elezioni amministrative dell’11 giugno e, in autunno, con la preparazione e il cammino parlamentare della legge finanziaria di lacrime e sangue attesa a Bruxelles.

Il fatto che non si vada alle elezioni anticipate perché non piacciono per varie ragioni ai partiti maggiori, ma anche minori, le leggi cucite nella sartoria della Corte Costituzionale per rinnovare la Camera e il Senato, e che proprio per ritardare al massimo il voto si faccia melina a Montecitorio sulla riforma o riformetta elettorale reclamata dal presidente della Repubblica per rassegnarsi allo scioglimento anticipato, non attenua ma aggrava la situazione. E dà la misura dello stato di paralisi al quale un Paese si può condannare da solo, sia pure per la paura di una paralisi peggiore dopo il voto.

Ma sì, lasciatemi dire con Renzi, che tuttavia temo non avrà il coraggio di gridarlo pubblicamente per non giocarsi il ritorno ormai vicinissimo alla segreteria del Pd: beati gli inglesi, Brexit a parte naturalmente.

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Montanelli e Ottone, due campioni del giornalismo

Diavolo di un uomo e di un giornale. L’uomo è Beppe Grillo. il giornale è il Fatto Quotidiano, il solo al quale il “garante” del Movimento 5 Stelle si rivolge quando si stufa del suo blog.

Per quanto diffida dell’uno e dell’altro per la mania che hanno di liquidare gli altri come infedeli, debbo riconoscere loro il merito di avere celebrato la Pasqua denunciando un’assurdità vera, non inventata o esagerata. E’ quella di un intero palazzo di proprietà del Comune di Roma, davanti ai Fiori Imperiali, affittato ai Cavalieri di Malta al prezzo simbolico di 14 euro e 40 centesimi l’anno. Di cui Grillo si è divertito a proporre un aumento di 2 euro e 88 centesimi per tenersi alla misura del 20 per cento, come simbolico contributo di quel di più che basterebbe perché ciascuno desse una mano al dissestato Campidoglio.

Il palazzo affittato dal Comune di Roma ad una rappresentanza del Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta ha attirato l’attenzione del comico genovese per due motivi. Innanzitutto, perché ne porta casualmente il nome, essendo noto come il Palazzo del Grillo, inteso però come l’omonimo marchese pontificio immortalato da Alberto Sordi nel famoso film di Mario Monicelli, del 1981, in cui la guardia nobile del Papa riassume il suo stato dicendo agli astanti: “Io so io e voi non siete un cazzo”. Scusate la parolaccia, ma non è mia.

Non ditelo, per favore, all’insegnante genovese ripudiata come candidata a sindaco della sua città dal capo dei 5 stelle perché quella potrebbe credere che il Grillo da lei denunciato sia un discendente davvero del personaggio recitato dal grandissimo attore romano. Quella di fare il prepotente e il villano è un’abitudine di famiglia, può pensare la signora.

Un’altra ragione per la quale quel palazzo si è guadagnato l’interesse del “garante” pentastellato sta nella sua collocazione: a due passi, e perciò a vista, dall’albergo dove egli alloggia quando viene a Roma, nell’omonima Salita del Grillo. Informarsi negli uffici della sindaca grillina di Roma e scoprire, scandalizzato, l’arcano dell’affitto virtuale, per quanto motivato dal fatto che i Cavalieri di Malta si sono assunti l’onere della manutenzione dell’edificio, è stato tutt’uno. Non lo ha aiutato a consolarsi il sospetto che,   lasciato sfitto nelle mani dei custodi capitolini, il palazzo avrebbe fatto probabilmente la fine dei ruderi dirimpettai. Giustamente il comico ha pensato che si potesse quanto meno tentare di trovare un altro inquilino.

Bravi. Chapeau questa volta a Grillo e al Fatto. I signori di Malta scendano pure da cavallo e si passino la mano sulle loro insegne per chiedersi se non hanno esagerato, non si sa se più della munificenza o della dabbenaggine degli amministratori capitolini di ogni colore succedutisi da quando è cominciata questa storia incredibile.

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A proposito di giornali e giornalisti, mi preme di tornare sulla scomparsa di Piero Ottone e sugli elogi che ho fatto della sua signorilità quasi aristocratica, perché dalle reazioni mi sono accorto di avere sorpreso e persino irritato amici e lettori. Che non mi perdonano di avere dimenticato due cose del collega appena scomparso: la lettera di licenziamento a Indro Montanelli, di cui sono stato collaboratore al Giornale come notista politico per ben dieci anni, e la censura applicata al suo nome sulla prima pagina del Corriere della Sera a direzione ottonista quando egli fu gambizzato dalle brigate rosse, il 2 giugno 1977.

Ebbene, pur con tutta l’amicizia, la stima e la mia riconoscenza che merita la buonanima di Indro Montanelli, debbo onestamente riconoscere e ricordare ai suoi estimatori che quella lettera di licenziamento lui se l’era cercata. Nel senso che l’aveva in qualche modo provocata, avendo già in mente l’idea di lasciare il Corriere, dopo l’allontanamento dell’amico Giovanni Spadolini e la nomina di Ottone a direttore. Se l’era cercata con una intervista ad un settimanale nella quale, pur editorialista ancora in forza in via Solferino, aveva invitato la borghesia milanese a boicottare il Corriere nelle edicole, e anche fuori, appartenendo a quella borghesia anche molti inserzionisti pubblicitari della storica testata italiana.

Dopo quell’intervista la principale editrice del quotidiano, Giulia Maria Crespi, che già per conto suo si era invaghita del sessantottismo, non prevedendone le potenzialità anche eversive emerse negli anni di piombo, pretese o le scuse di Montanelli o il licenziamento. Che, mancando le scuse, Ottone fu ragionevolmente costretto a promuovere anche per evitare una rivolta, a quel punto, di mezza redazione del Corriere, specie quella più giovane, che si era pur’essa risentita dell’intervista montanelliana.

Montanelli purtroppo non c’è più e la mia potrebbe sembrare una rivelazione temeraria perché postuma e indimostrabile. Ma vi assicuro che una volta, mentre lo accompagnavo a piedi dalla redazione romana alla vicina Piazza Navona, dov’era la sua abitazione con vista mozzafiato, Montanelli mi disse che ormai non riusciva a sopportare più “fisicamente” Ottone, per quante gentilezze il suo nuovo direttore avesse cercato di fargli. L’incompatibilità da politica si era fatta anche personale, e perciò irrimediabile.

D’altronde, Montanelli era stato abituato dai precedenti direttori ad essere quello che lui si definiva “il regolo” del Corriere. Ad un certo punto o ne diventava il direttore davvero o doveva andar via e accasarsi altrove, come accadde prima accettando l’ospitalità della Stampa della famiglia Agnelli e poi fondando Il Giornale con l’aiuto di Eugenio Cefis e, politicamente, dell’allora segretario della Dc Amintore Fanfani.

 

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Per quanto riguarda l’episodio indubbiamente grave del titolo della prima pagina del Corriere in cui mancò il nome di Montanelli quando fu gambizzato dalle brigate rosse, seppi anni dopo la mia uscita dal Giornale da fonti dello stesso Corriere che non era stata colpa di Ottone, in quei giorni in vacanza sulla sua barca e non raggiungibile per telefono e radio, ma dei suoi collaboratori. Ai quali, una volta a terra e informato dell’accaduto, contestò ruvidamente l’errore, assumendosene tuttavia la responsabilità.

Sono stato particolarmente lieto quando il collega ed amico Gennaro Malgieri, un ex deputato e un intellettuale tra i più fini e onesti della migliore destra italiana, legato da stima e amicizia con Ottone per la comune frequentazione ideale e letteraria del tedesco Oswald Spengler, autore già nel 1914 del celeberrimo “Tramonto dell’Occidente” pubblicato dopo quattro anni, mi ha confermato in una lunga chiacchierata telefonica la versione di quei fatti a mia conoscenza. E mi ha aggiunto dei particolari personali che mi hanno accreditato ulteriormente Ottone come un grande signore del nostro giornalismo. Un signore che nei drammatici anni Settanta, più che tradire, rappresentò una borghesia lombarda che per un misto di opportunismo, vigliaccheria e incultura prese politicamente fischi per fiaschi, senza neppure adottare, nei riguardi degli avvenimenti, il distacco anglosassone di Piero Ottone, già Mignanego, qual era il suo primo e vero cognome.

 

 

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La favola dei poveri imprenditori concussi di Tangentopoli

Raffaele Cantone, da più di tre anni presidente dell’Autorità nazionale dell’anticorruzinne, considera “sfascista” l’idea, pur diffusa fra i meno giovani di lui, che il malaffare dei nostri tempi sia peggiore dei “tempi di Tangentopoli”, quando si sprecavano gli arresti e la gente sfilava per le strade di Milano in maglietta bianca invitando l’allora sostituto procuratore della Repubblica Antonio Di Pietro a farla sognare. Che significava arrestare ancora di più, spesso alla presenza di puntualissime telecamere, in modo che il pubblico potesse godersi lo spettacolo guardando il telegiornale a pranzo e a cena.

“Davvero vogliamo credere -ha chiesto il pur ottimo Cantone a Fiorenza Sarzanini, del Corriere della Sera- che la maxitangente Enimont sia uguale alle mazzette versate per gli appalti del Campidoglio o per il G8 ?”. O per quelli della Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, su cui -aggiungo io -s’intrecciano le indagini delle Procure della Repubblica di Napoli e di Roma con criteri non proprio univoci, e la seconda non fidandosi della polizia giudiziaria adoperata dalla prima?       I tempi della vecchia Tangentopoli, secondo Cantone, rimangono quindi peggiori di quelli attuali perché “prima la politica era il fine dell’attività corruttiva”, mentre “adesso è il mezzo”. Sarebbero cioè i gruppi di potere economico a utilizzare la politica per fare affari e corrompere. Ciò “vuol dire -ha detto ancora Cantone- che i corruttori sono in grado di tenere sotto controllo i politici”, allevati “come polli in batteria per essere messi nei posti giusti a garantire gli interessi di pochi”.

Da questa rappresentazione dei fatti di adesso e di allora il presidente dell’Anticorruzione mi ha dato l’impressione, spero sbagliata, di essersi fatta un’idea, essendo allora un giovane appena entrato in magistratura, un po’ approssimativa dell’era di Tangentopoli, quando una politica vorace e spregiudicata, secondo una convinzione del resto generalizzata, teneva sotto scacco l’imprenditoria vessandola con finanziamenti illeciti. E infatti il reato che più frequentemente la magistratura contestava allora ai politici era quello della concussione, prendendo per buona la difesa dei corruttori. Che essi cioè fossero stati costretti a pagare partiti, correnti e singoli esponenti politici pur di lavorare e procurare lavoro.

Ebbene, la mia sensazione fu diversa, forse condizionata -lo ammetto- dal fatto di conoscere per motivi professionali un bel po’ del personale politico finito nel tritacarne del giustizialismo. La storia dei poveri industriali concussi, costretti cioè a finanziare, e in nero, la classe politica pur di lavorare e far lavorare la considerai subito più fantasia che realtà. Fui decisamente controcorrente. Ma credo, modestamente, che i fatti mi diedero spesso ragione quando dai processi mediatici si passò finalmente ai processi veri: quelli nei tribunali.

La Fiat -tanto per fare il nome di un’azienda o di un gruppo- mi apparve subito troppo grande e forte per poterla immaginare in ginocchio di fronte ad una politica ancora più forte di lei, dei suoi amministratori, del suo mitico “avvocato” e presidente. Che metteva soggezione al solo mostrare quell’orologio originalmente allacciato sul polso della camicia, credo non per non usurarne l’orlo.

Gli industriali -mi creda, dottor Cantone- facevano letteralmente la fila davanti alle segreterie dei partiti, e delle correnti, per finanziarle. Ne erano tanti che qualcuno dei leader o politico di turno si prendeva anche il lusso o il gusto di dire no. Il compianto Vincenzo Balzamo, segretario amministrativo del Psi, raccontò – credo anche agli inquirenti, prima di morire d’infarto- di avere avuto disposizioni da Craxi di rifiutare soldi, per esempio, da Carlo De Benedetti.

Anche alle Botteghe Oscure si faceva una discreta selezione fra quanti erano disposti ad aiutare il Pci, specie dopo che Enrico Berlinguer aveva disposto di non accettare più finanziamenti da Mosca, dove d’altronde non avevano più voglia di darne ad un partito che si concedeva troppa autonomia.

Quando scoppiò il finimondo di Mani pulite, con l’arresto persino banale del presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio di Milano, che aveva appena intascato una miserabile mazzetta di sette milioni di lire, equivalente a circa 3500 euro di adesso, sia pure come acconto o rata di una somma maggiore, molti imprenditori profittarono dell’occasione per raccontare balle agli inquirenti. Che a loro volta non credevano ai loro occhi vedendo di poterne usare deposizioni, confessioni e quant’altro per ghigliottinare leader e partiti, per giunta selezionandoli a dovere.

Gli ammanchi di molte società, i cui titolari avevano sottratto capitali mandandoli all’estero e frodando soci e creditori, furono allegramente attribuiti a versamenti ai partiti, di cui spesso non si riuscivano a trovare tracce, senza che per questo venisssero meno le accuse.

A favorire quell’andazzo era anche un codice di procedura penale che consentiva a chi raccontava frottole di sottrarsi poi, durante il pubblico dibattimento, al confronto col presunto concussore. Ci furono condanne legittimamente emesse con questi criteri a dir poco barbari. Ciò durò fino a quando non provvide la Corte Costituzionale a decretare l’illegittimità di quella procedura.

Antonio Di Pietro usa raccontare spesso che l’azione di pulizia sua e dei colleghi fu boicottata e infine interrotta da misteriose minacce, intromissioni, dossieraggi, mani e manine di servizi segreti e quant’altro.

Non so francamente se vi è stato anche questo, visto che l’ex magistrato si rifà ad uno e persino più documenti in questo senso approvati dal comitato parlamentare di controllo dei servizi. Ma di sicuro quando la Corte Costituzionale pose termine alla pacchia dei presunti concussi che potevano sottrarsi impunemente al confronto con gli accusati, allora sì che si essiccò il fiume delle confessioni e delle delazioni. E i magistrati dissero, sconsolati, che la famosa e non più tanto apprezzata “società civile” si era stancata di collaborare, o aveva cominciato ad avere paura che l’opera di pulizia andasse tanto avanti da travolgere anche la gente comune, che si arrangiava a suo modo evadendo, per esempio, il fisco.

Seguii praticamente da solo come giornalista, allora per Il Foglio, quasi tutte le udienze di un processo a Roma che avrebbe dovuto essere quello emblematico di Tangentopoli perché riguardava gli appalti dell’Anas. L’ex ministro dei lavori Pubblici Gianni Prandini fu condannato in prima istanza, dove peraltro i giudici si rifiutarono di prendere atto della pronuncia della Corte Costituzionale e di cambiare verso al processo ancora in corso. Quando i giudici di appello fecero invece il loro dovere e, annullando il primo verdetto, ordinarono all’accusa di riprendere le indagini daccapo, di raccogliere di nuovo le deposizioni e di portarle in dibattimento col dovuto confronto, l’inchiesta si arenò da sola, Non vi fu un solo accusatore della prima ora disposto a ripetere la sua versione dei fatti. Prevalse nei numerosi e facili concussi il timore di finire in galera al posto dei politici da loro accusati negli anni precedenti e spesso passati per la debilitante esperienza della custodia cautelare.

Questa o anche questa fu, caro il mio Di Pietro, Tangentopoli. E mi piacerebbe che lo riconoscesse anche l’ottimo –ripeto- Raffaele Cantone, che ha già avuto molte volte il coraggio di non lasciarsi condizionare dalla comune percezione di molti suoi colleghi di cosiddetta prima linea.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

Le fantasie di Tangentopoli

La storia dei poveri industriali concussi, costretti cioè a finanziare, e in nero, la classe politica pur di lavorare e far lavorare la considerai subito più fantasia che realtà. Fui decisamente controcorrente. Ma credo, modestamente, che i fatti mi diedero spesso ragione quando dai processi mediatici si passò finalmente ai processi veri: quelli nei tribunali.

La Fiat -tanto per fare il nome di un’azienda o di un gruppo- mi apparve subito troppo grande e forte per poterla immaginare in ginocchio di fronte ad una politica ancora più forte di lei, dei suoi amministratori, del suo mitico “avvocato” e presidente. Che metteva soggezione al solo mostrare quell’orologio originalmente allacciato sul polso della camicia, credo non per non usurarne l’orlo.

 

 

Domani su Il Dubbio

Da Erdogan a Renzi, da Montanelli a Ottone

La stentata e pure contestata vittoria di Recep Tayyip Erdogan nel referendum sulla sua riforma costituzionale, che ne fa adesso il padrone della Turchia ma un po’ dimezzato rispetto alle originarie ambizioni e attese, dovrebbe consolare in Italia il nostro Matteo Renzi. E fargli chiedere come poteva pensare, lui, con mezzo partito contro, con tutti gli errori commessi nella campagna referendaria, e in un paese non traumatizzato come la Turchia, di vincere il referendum del 4 dicembre scorso. Col quale, peraltro, mai e poi mai, anche se fosse riuscito a vincerlo, avrebbe potuto disporre di meno della metà del potere che oggi Erdogan detiene.

I referendum d’altronde sono sempre un’insidia nei paesi democratici. Il generale e presidente Charles De Gaulle, che era appunto De Gaulle, nel 1969 fu battuto, e costretto al ritiro, in un referendum costituzionale minore rispetto a quelli più consistenti promossi e vinti nei dieci anni precedenti, dopo che aveva sotterrato la quarta Repubblica.

Gli emuli di De Gaulle in Italia sono stati pochi. Il più esplicito fu forse Amintore Fanfani, che però non osò neppure immaginare un referendum da cavalcare per realizzare le sue forti ambizioni di potere, spintesi al massimo al cumulo delle cariche di segretario della Dc, di presidente del Consiglio e, visto che si trovava, persino di ministro degli Esteri. Il capitombolo, a cavallo fra il 1958 e il 1959, proprio mentre De Gaulle si riaffacciava al potere in Francia, fu micidiale. L’uomo poi si riprese, ispirando a Indro Montanelli il soprannome di “Rieccolo”, ma onestamente non fu più lo stesso. Si azzardò a candidarsi al Quirinale alla fine del 1971 rimediando una sfilza interminabile di pugnalate a scrutinio segreto. Qualcuno scrisse sulla scheda: “Nano maledetto, non sarai mai eletto”. Il presidente dell’assemblea congiunta dei deputati, senatori e delegati regionali non ebbe il coraggio di leggerla, limitandosi ad annunciare: ”Nulla”. Poi perfidamente gliela offrì come cimelio, rifiutato.

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Renzi, ormai in dirittura di arrivo per il suo secondo mandato di segretario del Pd, dovrà accontentarsi di riscalare e conservare il potere con metodi meno duri, imparando che all’italiano in genere non piace essere governato più di tanto, fatta qualche drammatica eccezione, come quella di Mussolini. Che riempiva le piazza e tuttavia si lasciò scappare una volta, ben prima che la guerra lo spingesse alla rovina, che governare il suo Paese fosse semplicemente e rovinosamente inutile.

L’ex presidente del Consiglio deve farsi più astuto, anche se lui ritiene di essere astutissimo. Deve farsi “più ruffiano”, come una volta mi disse Indro Montanelli con tono paterno quando da capo della redazione romana del suo Giornale ebbi qualche problema col rappresentante sindacale, che mi aveva contestato un telegramma d’invito a telefonarmi mandato ad un collega che da tre giorni non si era presentato in redazione, senza alcuna spiegazione e creandomi un po’ di problemi nell’organizzazione del lavoro.

A Renzi consiglio, oltre a non insultare i giornali che lo attaccano, lasciandolo fare ad altri, di non ripetere nel suo secondo mandato di segretario del Pd l’avventura anche di Palazzo Chigi. Dove egli ha bisogno di un ammortizzatore, non di un mitragliere, visto che si sta tornando al sistema elettorale proporzionale e si dovranno necessariamente allestire alleanze dopo il voto, con tutti i compromessi che ne deriveranno. E si tolga dalla testa, con l’aria che tira, altre riforme costituzionali. Si accontenti piuttosto, come raccomandava di fare negli anni Ottanta la buonanima del mio amico Carlo Donat-Cattin, di una buona riforma dei regolamenti parlamentari.

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La Pasquetta purtroppo mi ha portato una brutta notizia: la morte di Piero Ottone. Di cui ho condiviso poco politicamente, come la troppa fiducia riposta nel Pci quando ancora i suoi legami con Mosca erano forti. Ed Enrico Berlinguer diceva di sentirsi protetto sotto l’ombrello della Nato, evitando però che se ne scrivesse sull’Unità, ma al tempo stesso era contrario a ripararne i buchi prodotti dal riarmo missilistico dell’allora Patto di Varsavia.

Ma il dissenso politico da Ottone era pari al rispetto che l’allora direttore del Corriere della Sera si meritava per lo stile personale, di grandissimo signore.

Una volta che Montanelli me ne parlò con un po’ troppa acredine, motivata d’altronde dalla rottura che si era consumata fra di loro, mi permisi di fargli presente l’eleganza di quel riconoscimento fatto da Ottone del valore suo, e dei colleghi che lo avevano seguito nella fondazione del Giornale, nel momento in cui disse di avere perduto “l’argenteria” di via Solferino. Una volta tanto riuscii a spiazzare il mio direttore, a tal punto che cominciò a scrivere su quel riconoscimento uno dei suoi “controcorrente”. Gli venne benissimo. Ma il giorno dopo non lo vidi pubblicato. Chissà cosa e chi lo trattenne.

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Auguri sinceri di buona Pasqua e Pasquetta

         Auguri di buona, buonissima Pasqua a quanti, specie se anziani, non hanno cambiato abitudini a tavola per sembrare più giovani o, peggio, per piacere di più ai modaioli dell’animalismo.

         Auguri di buona, buonissima Pasquetta a quanti, giovani e anziani, avranno il buon gusto di dire la verità agli amici raccontando di avere mangiato il giorno prima il solito, gustoso abbacchietto.

         Di loro sarà la felicità elettorale se e quando riusciremo mai a votare e a farla finita con questa interminabile e mortifera campagna elettorale.

         Pace e bene alla Repubblica di San Marino, minacciata di guerra da quanti nella solita Italia dei furbetti, pur di non votare, sarebbero pronti a farle la guerra per prolungare questa diciassettesima, logora legislatura.

        

La prima Pasqua vegetariana di Silvio Berlusconi

Questa è la prima Pasqua vegetariana di Silvio Berlusconi, alla bella età di 80 anni compiuti nell’autunno scorso. Un’età alla quale i comuni mortali si sentono più attaccati alle origini e alle abitudini ricordando gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza, della maturità, tutti trascorsi dall’uomo di Arcore festeggiando a tavola la Pasqua con l’agnello ben cotto e saporito, senza pensare un attimo alla strage che aveva precedere il rispetto di quella tradizione.

Ma Berlusconi, si sa, è Berlusconi. Il suo mestiere è sorprendere. E’ saperti vendere anche quello che non avevi mai immaginato di poter desiderare, ed anche quello che lui non avrebbe da venderti, ma è ugualmente capace di farti sognare, di farti ritenere a disposizione pur non disponendone, appunto. E’ come la famosa rivoluzione liberale da lui promessa scendendo in campo 23 anni fa: non a San Siro con il suo bel Milan, prima che gli venissero gli occhi a mandorla, ma in Parlamento con Forza Italia. Una rivoluzione però impeditagli -ha spiegato più volte- da alleati troppo riottosi e da un elettorato troppo avaro. Che non ha mai regalato a lui solo il 50 per cento più uno dei voti. E tanto meno potrà regalarglielo adesso che lui stenta, poco sopra il 12 per cento delle “intenzioni di voto”, a tenere testa ai leghisti di Matteo Salvini, per rimanere nel campo che fu il centrodestra e non affacciarsi altrove, dove ci sono Matteo Renzi finalmente liberatosi di Massimo D’Alema e compagni e quell’istrione di Beppe Grillo. che paradossalmente più stranezze compie e più voti prende, sin a far sognare Palazzo Chigi a uno come Luigi Di Maio, il giovanotto della congiuntivite.

 

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Costretto, magari a sua insaputa, come capita sempre più di frequente in Italia alle categorie più diverse, dagli acquirenti di case scontate alle Procure entrate in conflitto fra di loro, a inseguire Grillo sulla strada delle sorprese, il povero Berlusconi si è fatto recentemente convincere dalla sua amica Michela Vittoria Brambilla, con la complicità della fidanzata Francesca Pascale, a diventare “il signore degli agnelli”. Così lo ha recentemente e felicemente definito Enrico Mentana in una intervista a Repubblica avvertendo sia Grillo sia Matteo Renzi a stare attenti a non regalargli la prossima vittoria elettorale, a furia di litigare furiosamente tra di loro.

Da ciò si potrebbe maliziosamente dedurre che l’ex direttore del berlusconiano Tg5, ora giornalista di punta dell’artiglieria editoriale di Urbano Cairo, considera Grillo e il Pd tutto sommato compatibili. Era anche la convinzione di Pier Luigi Bersani già nel 2013, quando tentò di ottenere un aiutino dai grillini per il suo governo “di minoranza e di combattimento”, prima che l’allora presidente della Repubblica non gli togliesse prudentemente l’incarico. Ed è tuttora la convinzione di Bersani, che però nel frattempo ha dovuto cambiare partito e rovesciarne la sigla in Dp, alla maniera di Mario Capanna del lontano 1984. Tutto torna e si ripete maledettamente nella politica italiana.

Il “signore degli agnelli” non fa mai nulla a caso e per niente, neppure quando si mette in bella posa ad allattare “Fiocco di neve” prima di lasciarlo sul prato di Arcore a giocare con gli altri quattro colleghi adottati. Berlusconi -fidatevi di uno che lo ha ben conosciuto e vi ha anche lavorato- è imbattibile nel campo della pubblicità o. se volete, della promozione. Lui gli spot se li produce e se li diffonde da solo, senza spendere un centesimo. Si è fatto rapidamente i conti e si è convinto che quella foto lì valeva più di un comizio, più di un collegamento telefonico ad un convegno dove, magari, aveva promesso di andare decidendo alla fine di omaggiate gli amici di una telefonata incoraggiante e benedicente. Che poteva e doveva bastare.

Quell’agnellino, quel fiocco di neve fuori stagione pesava, nei calcoli di chi lo allattava, o solo fingeva di farlo, più di quattro scatoloni messi insieme e pieni di schede elettorali con la croce sul simbolo di Forza Italia. Ma le schede per ora se le tiene tutte, intonse e ben chiuse nei magazzini metaforici del Quirinale, il presidente della Repubblica. Che non vuole saperne di rimandarci alle urne, per quanti fastidi possa procurare anche a lui questa lunghissima ed esasperante campagna elettorale in corso dal 4 dicembre. Puntualmente sono tuttavia arrivate la cronache e i fumetti dell’inedito Berlusconi animalista che fa strage di cuori e di voti femminili, essendo certo che la maggior parte delle donne italiane siano infelici e preferiscano gli animali ai mariti. Sì, ho letto anche di questo sugli immaginifici giornali italiani che si avventurano nelle analisi politiche con simili baggianate.

 

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Ci sono donne per nulla infelici di una unione scoppiata perchè sempre fiduciose di metterne su un’altra migliore, senza bisogno di cambiare genere, rimanendo cioè al livello degli uomini e non scendendo a quello dei cani, dei gatti e degli agnelli.

Ci sono donne politicamente tanto fedeli al loro leader di turno da clonarne partiti, associazioni e quant’altro per farlo sentire più a suo agio, e più dominatore. E’ il caso di Daniela Santanchè, che ormai si chiama e si lascia chiamare “la Santa”, rigorosamente laica, s’intende. E che ha appena annunciato la costituzione di “Noi repubblicani”, un’associazione per ora, di stampo un po’ trumpiano, da Donald Trump, il nuovo e sempre più imprevedibile presidente degli Stati Uniti. Che la Santa ha avuto modo di conoscere negli anni passati a Milano, dove il riccone americano osava mettere piede senza che venisse a saperlo Carlo De Benedetti, convinto -come lo stesso ingegnere ebbe a dire nel salotto televisivo di Lilli Gruber pochi giorni prima delle elezioni in Usa- che dell’Italia quell’uomo dal ciuffo arancione conoscesse solo Capri, e in cartolina. Invece, no. Il riccone non solo fu eletto, ma conosceva la città della Madonnina, davvero, non in cartolina. E, con la Madonnina, la Santa: tra colleghe, si sa…

A cosa possano o debbano servire i “Noi repubblicani” della deputata azzurra è stata lei stessa a spiegarlo dicendo che possono funzionare da stimolo a Forza Italia. Ed anche da guardiani, pronti a diventare un partito per rendere più vario e appetibile lo schieramento complessivo di quello che fu il centrodestra. Tanto, provvederebbe sempre lui, Berlusconi, a mettere tutti insieme al momento giusto.

A sua insaputa, pure lei, la Santa è diventata morotea, essendo nota l’abitudine di Moro di scomporre via via le cose all’interno della Dc per poterle poi ricomporre in modo diverso. Solo che Moro era Moro, La Santa è la Santanchè. E Berlusconi è Berlusconi, per quanto promosso da Mentana a signore degli agnelli.

 

 

 

 

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Cominciò per scherzo il postificio Antimafia

Rosy Bindi, tornata sulle prime pagine dei giornali per l’annuncio di non volersi più ricandidare al Parlamento con la fine di questa legislatura, avendo peraltro già goduto di una deroga al limite dei mandati fissato nello statuto del suo partito, è la quindicesima presidente della commissione parlamentare antimafia. Quindicesima di un elenco che comprende, dal 1963, e nell’ordine in cui si sono succeduti in questi 54 anni, Paolo Rossi, Donato Pafundi, Francesco Cattanei, Luigi Carraro, Nicola Lamenta, Abdon Alinovi, Gerardo Chiaromonte, Luciano Violante, Tiziana Parenti, Ottaviano Del Turco, Giuseppe Lumia, Roberto Centaro, Francesco Forgione e Giuseppe Pisanu.

La lista sarebbe più lunga, sia pure di un solo nome, se la serie delle commissioni parlamentari antimafia non fosse stata interrotta nel 1976, con la legislatura della cosiddetta “solidarietà nazionale”, durata meno di tre anni, durante i quali non fu evidentemente ravvisata la necessità di ricorrervi. E non perché non si fosse trovato il tempo per proporla con la solita legge e allestirla. Una commissione antimafia fu proposta e fatta persino nella legislatura in assoluto più corta dell’intera storia repubblicana: quella fra il 1992 e il 1994. Che fu anche la legislatura di Tangentopoli, Mani pulite, delle morti per mafia di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, delle presunte trattative fra lo Stato e la mafia delle stragi, del suicidio del deputato socialista Sergio Moroni, delle monetine contro Bettino Craxi, del referendum elettorale per il sistema maggioritario, della pur parziale abolizione dell’immunità parlamentare ed altro ancora. Fu una legislatura tanto breve quanto intensa e drammatica, durante la quale la Bindi si allenò alla segreteria regionale veneta della Dc per approdare la prima volta alla Camera nel 1994. E rimanervi ininterrottamente sino ad ora, facendo più volte anche la ministra.

Ma la Bindi, sempre lei, resterà la presidente anche dell’ultima commissione parlamentare antimafia? Se lo stanno chiedendo in tanti perché proprio l’annuncio della fine della carriera politica della deputata ex democristiana ha fornito l’occasione per chiedersi se sia il caso di ricostituire nella nuova legislatura la ormai “solita” commissione antimafia. Che rischia in effetti, specie con i nuovi strumenti di cui dispone la magistratura ordinaria per contrastare questa ed altre forme di criminalità organizzata, di apparire o un banale postificio -da posti- o la certificazione non certo esaltante del carattere organico della mafia nel tessuto nazionale. Ma in questo caso il Parlamento dovrebbe provvedere non alla costituzione di una commissione d’inchiesta, che ha in sé una natura straordinaria e quindi provvisoria, ma una commissione permanente, ordinaria, da aggiungere alle altre di questo tipo esistenti alla Camera e al Senato: esteri, affari costituzionali, giustizia, affari sociali, ambiente, eccetera.

I più giovani, o i meno anziani, forse non ci crederanno, ma il sospetto o la tentazione di fare della commissione parlamentare antimafia un postificio, come tanti altri, si avvertì sin dai suoi primi tempi: diciamo, già al terzo anno di vita dell’organismo d’inchiesta. E lo si avvertì per uno scherzo, un gioco, chiamatelo come volte, di cui mi capitò di essere testimone, e in qualche misura anche partecipe. Provo a raccontarvelo.

Il 21 gennaio 1966 il secondo governo di centrosinistra organico presieduto da Aldo Moro si dimise per i contrasti esplosi nella coalizione, ma più in particolare all’interno della Dc, sulla istituzione della scuola materna statale. Di quel governo faceva parte come ministro del Commercio Estero Bernardo Mattarella, amico personale del presidente del Consiglio ed esponente di primissimo piano della Dc siciliana, che aveva cominciato a fare politica nel Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Cui si era iscritto nel 1924, quando non aveva neppure vent’anni.

La carriera governativa del padre dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio, era di tutto rispetto. Bernardo Mattarella era già stato nominato ministro, alla Marina Mercantile, nell’ottavo e ultimo governo di Alcide De Gasperi, nel 1953. Era poi passato alla guida del Ministero dei Trasporti, fra il 1953 e il 1955, con i governi di Giuseppe Pella, di Amintore Fanfani e del corregionale Mario Scelba.

Dai Trasporti egli era passato nel 1955 al Commercio Estero nel governo di Antonio Segni, quindi alle Poste e Telecomunicazioni nel governo di Adone Zoli, tornando ai Trasporti nel 1962 con Fanfani alla presidenza del Consiglio, passando all’Agricoltura nel governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone, nell’estate del 1963, e tornando ai Commercio Estero con il primo governo di Moro. Che, caduto già nell’estate successiva fra il famoso “rumore di sciabole” avvertito da Pietro Nenni, lo aveva confermato nel secondo: quello caduto per la scuola materna.

Nella trattativa per la formazione del suo terzo governo, Moro trovò difficoltà a confermare, come avrebbe voluto, l’amico Mattarella perché la corrente dei “dorotei”, di cui entrambi facevano ancora parte in quel momento, e che era capeggiata dall’allora segretario del partito Mariano Rumor, pose un problema di riequilibrio interno.

In realtà, i dorotei di Rumor, Flaminio Piccoli ed altri, smaniosi di prenderne il posto, accusavano Moro di essere troppo accondiscendente con i socialisti, di cui peraltro egli aveva favorito il progetto di unificazione sostenendo alla fine del 1964 l’elezione di Giuseppe Saragat al Quirinale, in sostituzione del doroteissimo Antonio Segni. Che disgraziatamente era stato colto da ictus nel suo studio al Quirinale proprio durante un alterco con il leader socialdemocratico, allora ministro degli Esteri.

La formazione della lista del terzo governo Moro fu pertanto l’occasione per i dorotei di ridurre il numero dei ministri più vicini al presidente del Consiglio. Il quale finì per cedere scrivendo però all’amico Mattarella di suo pugno una lettera di rammarico e di spiegazione, in cui ne elogiava l’azione svolta e gli confermava tutta la stima, ricambiata da Mattarella. Che due anni dopo, quando Moro, allontanato da Palazzo Chigi, ruppe con i dorotei allestendo una propria corrente, lo seguì all’istante.

Moro volle scrivere quella lettera a Mattarella nel 1966, al termine di una crisi di governo durata un mese, anche per solidarietà contro una campagna condotta contro l’amico per presunti rapporti con esponenti mafiosi: una campagna basata su voci raccolte nella commissione parlamentare antimafia e sfociata nel 1965 in un libro del sociologo Danilo Dolci. Che Mattarella denunciò ottenendone nel 1967 la condanna a due anni di reclusione, evitati per un sopraggiunto indulto.

Nella legislatura successiva l’ex ministro ricoprì la carica di presidente della Commissione Difesa della Camera rimanendovi sino alla morte, nel 1971, sopraggiunta ad un malore occorsogli a Montecitorio.

Ma torniamo adesso alla crisi del secondo governo Moro e alla preparazione della lista dei ministri del terzo.

Una mattina ero a Palazzzo Chigi, nella sala stampa situata al piano terra, a raccogliere voci, indiscrezioni e quant’altro proprio sulla formazione di quella lista. Eravamo in tanti giornalisti. Si aggirava fra di noi il portavoce di Bernardo Mattarella, che era il collega Enrico Benso, comprensibilmente impegnato a capire se e in che misura il suo ministro rischiasse il posto. Che significava poi anche il posto dello stesso Benso.

Insofferente per le insistenze di Enrico, un collega pensò di liberarsene con una battuta che gli parve ironica ma era a dir poco infelice, vista la campagna che il ministro stava subendo e di cui -ahimè- il portavoce non tenne conto. “No, Enrico, Il tuo ministro rimane fuori, ma c’è l’accordo per farlo presidente dell’antimafia”, gli disse lo sventurato.

Benso si precipitò improvvidamente sul primo apparecchio telefonico libero -allora i telefonini non erano neppure immaginabili- e chiamò sul numero diretto il suo ministro dicendogli all’incirca così: “Eccellenza, per il governo niente. Ma per Lei c’è l’antimafia”. Io, che gli stavo accanto, impallidii. Non immaginavo che Enrico potesse cadere in un infortunio del genere. Sentii nitidamente, tanto era forte la voce di Mattarella, un’imprecazione che oggi definiremmo grillina e il grido finale di “stronzo”. Cui seguì, in verità, anche il mio, quando Benso, sgomento, abbassò il ricevitore.

Poi me la presi naturalmente con il collega che aveva involontariamente provocato l’incidente per il suo scherzo, che tuttavia aveva paradossalmente segnato in qualche modo l’ingresso della commissione parlamentare antimafia nel regno politico del postificio.

Il ricorso sistematico a quest’organismo d’inchiesta lo fece infatti rientrare nel mercato politico di ogni inizio di legislatura, con gli incarichi in palio di presidente, vice presidente , segretario di commissione e via discorrendo, e relativi imprevisti. Da uno dei quali ha tratto vantaggio anche la Bindi, risultata eletta al vertice della commissione nell’autunno del 2013 con una clamorosa rottura delle larghe intese ancora operanti attorno al governo di Enrico Letta.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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