Il contrappasso di Fini e Bocchino

 

L’ingresso di Italo Bocchino, il fedelissimo prima di Pinuccio Tatarella e poi di Gianfranco Fini, nel menù degli indagati per gli appalti della Consip, e accessori, risponde un po’ alla legge dantesca del contrappasso, che comporta una corrispondenza persino fisica della pena alla colpa.

         Quella di Bocchino, ma anche di Fini, di recente accusato -per atto dovuto, ha detto l’ex presidente della Camera- di riciclaggio con la compagna Elisabetta Tulliani e familiari, è una colpa tutta politica per i ruoli pubblici che hanno avuto in passato. E’ la colpa, direi, del giustizialismo, inteso come propensione a prendere per oro colato ogni iniziativa di una Procura della Repubblica e a scambiare per un atto o comportamento ostile alla Giustizia, con la maiuscola, il garantismo. Che, al contrario, preferisce il dubbio alla certezza, i processi in tribunale a quelli inevitabilmente sommari sui giornali, quando un malcapitato ha a che fare con un ufficio giudiziario. Ma ancor più con un pubblico ministero troppo sicuro del fatto suo, magari convinto -alla maniera di Piercamillo Davigo, presidente pro-tempore dell’associazione nazionale dei magistrati- che spesso, se non sempre, l’assolto sia solo un colpevole che l’ha fatta franca, rimettendoci nel peggiore dei casi qualche tempo di scomoda detenzione preventiva.

         Non sto poi esagerando, credetemi, visto ciò che succede in Italia da 25 anni a questa parte: quanti ne sono trascorsi dall’esplosione di Mani pulite: l’inchiesta sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione che, secondo l’accusa, necessariamente ne era o a monte o a valle. Venticinque interminabili anni, durante i quali è casualmente accaduto -per carità- ad alcuni degli inquirenti di diventare poi politici, magari eletti in collegi blindatissimi, come fu quello rosso del Mugello assegnato a Tonino Di Pietro nel 1997 da Massimo D’Alema.

         Fini nella scorsa legislatura ruppe con Silvio Berlusconi, sino a votarsi al suicidio politico, per sostenere i magistrati che lo accusavano: alcuni riuscendo poi a condannarlo in sessione estiva della Cassazione per frode fiscale, e altri fallendo clamorosamente con le accuse di prostituzione minorile e concussione.

         Bocchino fu il megafono di Fini, in Parlamento e nei salotti televisivi, seguendolo anche nella mancata rielezione. E ritrovandosi ora indagato per la Consip come consigliere di Alfredo Romeo, l’imprenditore sospettato, fra l’altro, di avere pranzato in una bettola a Napoli col papà di Matteo Renzi per combinare affari illeciti.

                                                      

 

Ma che smarcato! Gentiloni incollato a Renzi

Ora che il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, cambiando collaboratori nell’Arma dei Carabinieri e ordinando accertamenti sulle anomalie delle settimane e dei mesi scorsi, ha interrotto il fluviale traffico di notizie riservate verso certe redazioni trattate come buche postali, l’inchiesta sugli appalti della Consip condiziona di meno il dibattito politico. Che è tornato, per esempio, ad occuparsi di più dei rapporti di Matteo Renzi non col babbo Tiziano, o con l’amico Luca Lotti, coinvolti a vario titolo in quell’inchiesta, ma col presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. E viceversa, naturalmente.

Ma, anche se un po’ alleggerito delle scorie giudiziarie, come dimostra pure la ridotta pericolosità dell’iniziativa presa dai grillini per la sfiducia parlamentare al ministro Lotti, il quadro dei rapporti fra Renzi e Gentiloni -o viceversa, ripeto- è avvolto in un involucro di diffidenza, di malizia. Che, pur all’insegna della vecchia convinzione di Giulio Andreotti che a pensare male si fa peccato ma s’indovina, produce anch’esso una intossicazione del dibattito e della rappresentazione mediatica che se ne fa.

Sono esemplari, a questo proposito, il ragionamento e il titolo che si è dato l’editorialista di turno del Giornale della famiglia Berlusconi sullo stato dei rapporti, appunto, fra l’ex presidente del Consiglio e il conte che ne ha preso il posto dopo la debacle del referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale. “Pure Gentiloni si è smarcato dal renzismo”, ha titolato il Giornale esprimendo probabilmente l’impressione o la speranza del suo editore ma- paradossalmente- anche della sinistra uscita dal Pd e di quella, che pur essendovi rimasta, ritiene il presidente del Consiglio in pericolo per la smania ancora attribuita a Renzi di cogliere la prima occasione o il primo incidente utile, dopo una eventuale vittoria congressuale e conseguente riconquista della segreteria del partito, per farlo cadere. E provocare in autunno le elezioni anticipate per poi riprendersi anche Palazzo Chigi.

Gli avversari di Renzi temono insomma che egli ripeta contro Gentiloni lo schema di gioco usato quattro anni fa con l’allora presidente del Consiglio e compagno di partito Enrico Letta, esortato a “stare sereno” -ricordate?- proprio mentre l’allora segretario del Pd si preparava a sostituirlo. E ne parlava per telefono ad un amico generale della Guardia di Finanza, purtroppo intercettato, come di un brav’uomo inadatto però alla guida di un governo per ritmi di lavoro, carattere e cultura, meglio spendibili -disse anche questo- al Quirinale. Dove Giorgio Napolitano però era stato rieletto solo da meno di un anno e non si sentiva abbastanza stanco per farsi tentare dalle dimissioni, come sarebbe accaduto dopo altri 12 mesi.

 

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Il Giornale ha probabilmente visto lo smarcamento di Gentiloni da Renzi, e quindi la sua volontà di durare sino all’esaurimento ordinario della legislatura, senza lasciarsi coinvolgere in qualche tentativo del predecessore di anticiparne la fine, nel proposito annunciato non solo di ridurre le tasse sul lavoro, di impostare in qualche modo già da ora la legge finanziaria del 2018, di fissare la data dei referendum promossi dalla Cgil sui voucher e sulle garanzie per i dipendenti delle ditte subappaltatrici, ma anche di rendere più marcato, più visibile -come ha detto a Pippo Baudo a Domenica in– il carattere “rassicurante” del proprio governo.

Ma va detto, con onestà, anche a costo di sembrare ingenuo agli occhi del diffidente editorialista del Giornale, che Renzi non ha per niente trattenuto Gentiloni in queste ultime settimane. Lo ha, anzi, sempre incoraggiato a darsi da fare, a non perdere tempo, a non rinviare le decisioni.

Ospite recentemente di Fabio Fazio a Che tempo che fa, l’ex presidente del Consiglio è tornato a tirarsi fuori, come aveva già fatto davanti alla direzione e all’assemblea nazionale del Pd, prima di dimettersi da segretario e di avviare il percorso congressuale, dal problema delle elezioni anticipate o no. Anche a costo di pestare i piedi al povero Sergio Mattarella, unico titolare costituzionale del diritto di sciogliere le Camere prima della loro scadenza ordinaria, egli ha detto che sarà Gentiloni a valutare e decidere una eventualità del genere, assumendosi evidentemente con le dimissioni la respondabilità di una crisi per mancanza delle condizioni politiche necessarie a proseguire nel suo mandato.

Poi ancora, e di più, come da noi segnalato su formiche.net, Renzi ha detto all’editorialista di Repubblica Massimo Giannini, col quale evidentemente i rapporti sono tornati buoni dopo lo scontro sulla vicenda della Banca Etruria e del papà dell’allora ministra Maria Elena Boschi, che Gentiloni non ha più “l’alibi” della prospettiva delle elezioni anticipate, essendo ormai assodato che si voterà fra un anno. Per cui il il conte fa bene a darsi da fare.

 

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A questo punto al Giornale, in paradossale compagnia, ripeto, con la sinistra antirenziana uscita dal Pd, o rimasta per continuare a combatterlo senza cambiare casa, potrebbero anche ritenere che quella di Renzi sia solo una manfrina, cioè un tentativo di continuare a perseguire le elezioni anticipate in altro modo, fingendo di essersi rassegnato a non cercarle. Ma saremmo in questo caso al classico processo alle intenzioni, con cui il confronto politico si impantanerebbe.

Avremmo lo stesso effetto tossico dell’intreccio che si spera davvero interrotto dal capo della Procura di Roma fra le cronache giudiziarie e politiche. Per cui le redazioni dei giornali tradizionalmente più contigue alle Procure sono rimaste un po’ all’asciutto,   costrette a registrare solo le smentite di Alfredo Romeo, l’imprenditore napoletano arrestato per l’affare Consip con l’accusa di corruzione, agli incontri e frequentazioni attribuitegli col padre di Renzi.

 

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Quei soldi di Romeo alla Verità di Belpietro

La sapientemente perfida selezione delle intercettazioni e quant’altro sottratte al segreto delle indagini su appalti e frequentazioni alla Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, ha seminato confusione e zizzania anche a destra, e non solo a sinistra. Dove si è peraltro arrivati all’ineguagliabile paradosso di un candidato alla segreteria del Pd, il governatore pugliese e magistrato in aspettativa Michele Emiliano, che vorrebbe eliminare con un sol colpo, proprio con l’affare Consip, entrambi i suoi concorrenti.

In particolare, Matteo Renzi dovrebbe pagare lo scotto del coinvolgimento del padre e del fedele Luca Lotti nelle indagini, pur a diverso titolo, e il povero Andrea Orlando, a dispetto dei consensi crescenti che sta raccogliendo, per la funzione di “garante” di quelle indagini: funzione che gli spetta come ministro della Giustizia.

Così l’intelligentone, furbissimo “don Michele” di Bari, o dintorni, si troverebbe solo a correre verso il vertice del Pd, essendosi nel frattempo perse le tracce, ed anche il nome, di quella volenterosa signora di Torino iscrittasi alla gara come “moderata”, quasi che tutti gli altri fossero il contrario, cioè smodati.

In verità, verrebbe voglia di dare dello smodato, per lo stile e gli argomenti che usa contro rivali o concorrenti, proprio a Emiliano, ma non cado in questa tentazione perché non mi piace la prospettiva di diventare l’unico fesso a procurarsi una querela, anche se la polemica è tutta politica, e non personale.

A destra, come accennavo, le ricadute delle fughe di notizie dalle indagini sulla Consip si sono tradotte in un attacco di Libero, il quotidiano guidato dal sempre urticante direttore editoriale Vittorio Feltri, alla concorrente Verità, il pugnace giornale fondato l’anno scorso da Maurizio Belpietro per proseguire una durissima, direi feroce campagna antirenziana che gli sarebbe stata impedita alla direzione dello stesso Libero dagli editori Angelucci.

Feltri fu allora accusato dal pur vecchio amico Belpietro di essersi prestato ad un repentino cambio di linea politica per avere sostenuto, semplicemente, che la riforma costituzionale targata Renzi fosse accettabile nel referendum, nonostante limiti e pasticci dei suoi contenuti, perché “sempre meglio di niente”. Al resto delle accuse a Renzi, cioè di coltivare all’ombra di quella riforma disegni autoritari, da ducetto fiorentino, il competitore di Belpietro non aveva ritenuto di dare alcun ascolto.

Furono addebitati a Feltri anche visite e incontri conviviali, da lui però smentiti, con l’allora presidente del Consiglio a Palazzo Chigi o dintorni. Venne fuori insomma il solito repertorio di allusioni, sospetti e voci, relative anche agli affari sanitari degli Angelucci dipendenti dalla politica, di cui anche noi giornalisti siamo capaci quando ci becchiamo fra di noi.

Ora le fughe di notizie giudiziarie gestite, secondo i sospetti o le convinzioni maturate nella Procura di Roma, anche dai Carabinieri del nucleo ecologico scelti a Napoli dal sostituto procuratore Henry John Woodcock, e perciò sostituiti con Carabinieri di un altro reparto, hanno consentito al direttore editoriale di Libero di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. In particolare, egli ha potuto rimproverare a Belpietro alcuni finanziamenti forniti alla sua Verità, tramite una fondazione presente nella società editrice, da quell’Alfredo Romeo arrestato nel corso delle indagini sulla Consip per sospetta corruzione e non so quali e quant’altri reati: un ricchissimo imprenditore fornito, secondo le intercettazioni arrivate nelle redazioni, di tanto denaro in contanti da non sapere dove mettere o come investire, essendone pieni i suoi “cassetti”. Un imprenditore, sempre questo Romeo, in odore di buoni rapporti col “giro” di Renzi, a cominciare dal padre Tiziano, la cui iniziale è stata trovata accanto alla bella cifra di 30 mila euro mensili in un pizzino stracciato ma recuperato e ricomposto fra le immondizie dai Carabinieri del nucleo ambientale. E da chi sennò?

Belpietro, a dire il vero, informatissimo sulle indagini Consip, tanto da avere pubblicato per primo nei mesi scorsi notizie o voci sul padre di Renzi in angoscia per guai giudiziari in arrivo da Napoli, non si è lasciato sorprendere dal suo amico e competitore Feltri. Lo ha anzi preceduto scrivendo dei finanziamenti al suo giornale attribuiti a Romeo su consiglio del consulente ed ex deputato finiano Italo Bocchino. E dicendosene sorpreso per primo. Sarebbe stato insomma un aiuto ottenuto a sua insaputa, e per niente condizionante, avendo lui obiettivamente continuato sulla strada dell’antirenzismo non certamente in sintonia con le simpatie politiche e persino con gli interessi attribuiti all’imprenditore napoletano, peraltro già finito in carcere in passato e uscitone assolto.

Senza ricorrere ad un’attenuante una volta sarcasticamente attribuita da Marco Travaglio all’allora ministro forzista Claudio Scajola per un appartamento davanti al Colosseo pagatogli in parte da un amico, Feltri ha velenosamente consigliato Belpietro a chiamare “Dubbio” la sua “Verità” troppo assertiva, osservando però onestamente e simpaticamente che questo è già il nome della testata garantista diretta da Piero Sansonetti.

Per la cronaca, l’attenuante inventata in un fulminante corsivo da Travaglio per Scajola fu un richiamo a Cristoforo Colombo, che nel lontanissimo 1492 scopri a sua insaputa l’America, ritenendo di essere invece sbarcato in India.

Tutto questo vi ho raccontato anche per farvi capire quali e quante sorprese, quali e quanti paradossi, quale e quanta confusione, quale e quanto fango può essere sollevato, si vedrà solo dopo se a ragione e a torto, da una indagine giudiziaria condotta tra fughe occasionali o, peggio, pilotate di notizie e documenti. Fughe destinate non a fare luce su fatti e responsabilità, ma ad alimentare i processi sui giornali anziché nei tribunali, come ha giustamente lamentato Renzi. E a intossicare il dibattito politico nei passaggi più importanti: in questo caso, nello svolgimento delle primarie e del congresso del Pd, dal cui esito dipenderanno gli sviluppi di una situazione politica a dir poco torbida. Un congresso alla cui disintossicazione si è raccomandato anche il guardasigilli, oltre a Renzi.

Pubblicato su Il Dubbio di martedì 7 marzo 2017 alle pagine 1 e 7

Il Corriere della Sera appoggia Orlando nella bolgia del Pd

Diversamente dal quadro politico, che va sempre più confondendosi, specie con gli ingredienti forniti alla lotta fra e nei partiti dalle indagini giudiziarie sulla Consip, particolarmente scomode per Matteo Renzi, la sua famiglia e i suoi amici, va chiarendosi il quadro mediatico. Che è importante anche per definire l’altro, come avvenne 25 anni fa, quando l’inchiesta giudiziaria Mani pulite spazzò via non un solo uomo, non un solo partito ma tutti quelli di governo, toccando solo marginalmente e quindi salvando l’allora Pds-ex Pci. E tutto col sostegno della cosiddetta grande stampa e delle televisioni, comprese quelle di Silvio Berlusconi. Il quale a sorpresa ne avrebbe tratto i frutti maggiori, nonostante i legami personali con i leader distrutti, irrompendo nella politica e vincendo le elezioni nel 1994.

Con la sua prima pagina di oggi, lunedì 6 marzo 2013, in apertura -credo non casuale- della settimana scelta da Matteo Renzi per lanciare la sua candidatura, o ricandidaura, alla segreteria del Pd nella cornice del Lingotto di Torino, proprio dove nacque dieci anni fa il partito col discorso di pre-investitura del suo primo segretario Walter Veltroni, il Corriere della Sera ha praticamente adottato- o sponsorizzato, come preferite- il concorrente più politico dell’ex presidente del Consiglio, cioè il guardasigilli Andrea Orlando.

L’altro concorrente di Renzi, il governatore pugliese Michele Emiliano, che casualmente -ma non troppo- è anche un testimone nell’inchiesta giudiziaria targata Consip, è troppo truce, acrimonioso, imprevedibile e discusso, per giunta con quell’ostinato rifiuto di dimettersi dalla magistratura dopo avere ormai scelto come mestiere o professione prevalente quella del politico, per potersi guadagnare il sostegno del primo giornale italiano, almeno per numero di copie vendute.

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La sponsorizzazione corrieristica della candidatura di Orlando alla segreteria del Pd nasce dal combinato disposto di un editoriale di Paolo Mieli e di un’intervista dello stesso Orlando raccolta dall’inviato di punta Aldo Cazzullo, che sa cogliere sempre dall’ospite di turno il meglio, inteso come contributo a capire la situazione.

L’editoriale di Mieli e l’intervista di Orlando contengono lo stesso giudizio negativo sulla corsa di Renzi per tornare a guidare il partito: una corsa viziata, secondo loro, da un obiettivo di “rivincita” che è di per sé un handicap nel quadro politico italiano, con partiti sfarinati e accidiosi, senza che si veda all’orizzonte una legge elettorale che possa aiutare a fare uscire dalle urne una maggioranza di governo. E’ un quadro che sta impensierendo sempre di più il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ai cui appelli un po’ pleonastici, diciamolo pure, alla “prudenza” ha preferito aggrapparsi l’editorialista del secondo giornale italiano: Stefano Folli su Repubblica.

         Ma torniamo a Mieli, il sornione due volte ex direttore del Corriere, frequentatore assiduo di tutti i salotti televisivi, pubblici e privati, abituato come pochi altri a maneggiare e mescolare storia e cronaca politica, protagonista nel 2006, sempre in via Solferino, della sponsorizzazione del pur breve e sfortunato ritorno di Romano Prodi a Palazzo Chigi, che deluse e indispettì non pochi lettori.

Il mio amico Paolo ha avvertito che, a dispetto delle apparenze e della sicurezza ostentata da Renzi, la corsa di Orlando alla segreteria del Pd non può essere considerata perdente. Lo stesso Orlando, del resto, ha spiegato a Cazzullo ch’egli corre “per vincere”, non per testimoniare, cioè per perdere. “L’esito delle primarie -ha scritto Mieli- è sempre meno scontato”. E ancora: “La partita è aperta, apertissima”. Chi vuol dare una mano al giovane guardasigilli, di provenienza Pci, è quindi invitato a muoversi, magari tra quelli ancora solidali con Renzi.

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Una così esplicita e impegnativa adozione della candidatura di Andrea Orlando da parte del Corriere della Sera, salvo successivi ripensamenti o correzioni di rotta, significa naturalmente che il maggiore giornale italiano, di cui è da poco editore Urbano Cairo, il patron de la 7, ha scaricato di brutto Renzi. I cui rapporti con il giornale di via Solferino, a Milano, non sono stati del resto mai buoni, neppure prima dell’arrivo di Cairo.

Ci sono direttori del Corriere che proprio per i cattivi rapporti con Renzi ci hanno anche rimesso il posto. Mi riferisco naturalmente a Ferruccio de Bortoli, che si tolse la soddisfazione, lasciando l’incarico, di dare all’allora presidente del Consiglio, oltre che segretario del Pd, del “maleducato di talento”. Ma poi il Corriere sarebbe tornato ad affidarsi agli editoriali dell’ex direttore, senza ch’egli cambiasse idea su Renzi, né sul piano politico né sul piano personale.

Quasi come controprova dell’adozione della candidatura di Orlando alla segreteria del Pd c’è la valorizzazione che il Corriere ha voluto fare di Paolo Gentiloni e del suo governo, sottolineandone nel titolo più vistoso di prima pagina il carattere “non a termine” e “rassicurante”, vantato dallo stesso presidente del Consiglio a Domenica in, davanti a un Pippo Baudo oltremodo ossequioso, e non solo ben educato, come deve essere naturalmente ogni buon conduttore televisivo. Quell’aggettivo rassicurante va letto, senza malizia, ma per dovere d’informazione, in relazione al governo che ha preceduto quello oggi guidato dal conte Gentiloni: il governo cioè di Renzi.

Sul carattere “non a termine” dell’esecutivo in carica va tuttavia detto che un termine comunque esso ce l’ha. Ed è la conclusione ordinaria della legislatura, fra meno di un anno.

Anche senza voler considerare incidenti o trappole- dai referendum promossi dalla Cgil sui temi del lavoro alle elezioni amministrative di primavera, per esempio- capaci di provocare con una crisi le elezioni anticipate, non è molto quel meno di un anno che il governo ha a disposizione per portare a termine il suo compito o programma. In cui rientra adesso anche la riduzione delle tasse sul lavoro, come Gentiloni ha detto in televisione, oltre all’obbligatoria legge finanziaria del 2018.

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Nervosismo nel santuario di Marco Travaglio

Al Fatto Quotidiano, il santuario di carta diretto da Marco Travaglio, dove trattano le notizie giudiziarie con venerazione quando riguardano e colpiscono quegli impuniti che sono di solito, nella loro visione del mondo, i politici avvezzi a gestire il potere, familiari e amici, non hanno preso bene la decisione della Procura di Roma di estromettere dalle indagini sulla Consip i Carabinieri del nucleo ambientale, o ecologico, scelti a suo tempo dal notissimo sostituto procuratore Henry John Woodcock a Napoli. Dove l’inchiesta sugli appalti della centrale degli acquisti della pubblica amministrazione cominciò a suo tempo e rimase a lungo, prima di dividersi in due tronconi per competenza territoriale, uno dei quali destinato alla Capitale.

I Carabinieri di Woodcock, come li chiamano forse troppo sbrigativamente i cronisti giudiziari napoletani, sono purtroppo incorsi prima nei sospetti e poi nella convinzione degli inquirenti di Roma di custodire malissimo i loro segreti, trattandoli  peggio delle immondizie tra le quali i militari sono riusciti a trovare i pizzini  stracciati da Alfredo Romeo, ora in carcere, e a ricomporli ben bene, trovando numeri e iniziali a dir poco galeotte. E’ stato così possibile, per esempio, risalire da una T al papà di Matteo Renzi, Tiziano, accusato di traffico di influenze illecite, per adesso. Poi si vedrà se il buon uomo potrà guadagnarsi altre accuse e aumentare le difficoltà del figliolo incautamente in corsa al congresso del Pd per essere rieletto segretario.

Travaglio in persona ha voluto intervenire per bacchettare la Procura di Roma, che è pur sempre una cosa insolita per il sacrario delle verità giudiziarie. Ma il signor procuratore capo della Capitale deve essere ormai fra i pochi dei suoi parigrado a non piacere a quelli del Fatto. Ora poi che è riuscito a scegliersi da sé i reparti dei Carabinieri da cui farsi aiutare nelle investigazioni, intercettazioni, pedinamenti e quant’altro, stando  peraltro attento a non estromettere l’intera Arma Benemerita, il cui comandante generale è stato appena confermato dal governo nonostante sia stato o sia anche lui ancora indagato per fuga di notizie, il povero Giuseppe Pignatone deve rassegnarsi a sentirsi dire di tutto e di più dal vigilantissimo, esigentissimo, informatissimo, furbissimo Travaglio.

Ecco uno scampolo o un anticipo di ciò che attende il capo della Procura di Roma dal direttore del Fatto, ancora fresco di stampa: “Tutti rimangono al loro posto”, in questa maledetta giostra della Consip, “fuorchè i Carabinieri del Nucleo ecologico che, avendo scoperto lo scandalo, non possono continuare a investigare un solo giorno in più. Ieri la Procura di Roma, così distratta sulle fughe di notizie su Muraro, Marra, Raggi, Di Maio e Romeo (l’altro, Salvatore, quello delle polizze)”, tutti targati maledettamente 5 Stelle, “li ha sollevati dall’incarico. Le indagini saranno trasferite, per competenza, a Medjugorje”, nei Balcani. Dove la Madonna che viene venerata da milioni di fedeli provenienti da tutto il mondo ha la disavventura di poter contare ogni tanto sulla visita dell’anziano papà di Renzi e suoi amici, fra i quali  -sfortuna della sfortuna- qualcuno che lavora o a che fare con la Consip.

L’inchiesta Consip perde carabinieri per strada

Mentre grillini, leghisti e altri antirenziani irriducibili, fuoriusciti o rimasti nel Pd, continuano a reclamare la sfiducia al ministro Luca Lotti, accusato dagli inquirenti di avere boicottato, da solo o di concerto con due generali dei Carabinieri, l’inchiesta sugli appalti della Consip per gli acquisti della pubblica amministrazione, avvertendo i dirigenti delle intercettazioni alle quali erano sottoposti, la Procura di Roma ha preso una decisione che dovrebbe far riflettere le opposizioni. Dalle quali invece non sono arrivati cenni di ripensamento. Né arriveranno -c’è da scommetterci- perché non c’è più sordo di chi non vuole sentire, come dice un vecchio proverbio.

La decisione della Procura romana, dalla quale quella di Napoli, dove è partita l’inchiesta, è stata letteralmente spiazzata, ha estromesso dalle indagini i Carabinieri del nucleo ambientale allertati in Campania del sostituto procuratore Henry John Woodcock: quello che il compianto presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga riempiva pubblicamente di considerazioni ed epiteti che non ripeto per non rischiare querele.

L’estromissione dei Carabinieri del nucleo ambientale -riusciti a ricostruire, fra l’altro, i pizzini stracciati dall’imprenditore arrestato Alfredo Romeo, e recuperati fra le immondizie, con l’iniziale del nome del padre di Matteo Renzi affiancata dalla cifra di 30 mila euro mensili- è stata collegata dalla Procura romana con significativa chiarezza alle troppe fughe di notizie sulle indagini.

Si è quindi fatto ricorso a Carabinieri, sempre loro, di un altro reparto nella speranza che si rivelino più blindati o quanto meno discreti, diciamo, secondo il noto intercalare di Massimo D’Alema. A proposito del quale una impertinente ricostruzione del Foglio ha ricordato la sensazione attribuitagli nella scorsa estate che il suo rottamatore e allora presidente del Consiglio potesse cadere per qualche complicazione giudiziaria, e non solo per il referendum sulla riforma costituzionale. Su cui lo stesso D’Alema si stava mobilitando per battere l’avversario di partito sul piano politico.

Di fronte al colabrodo avvertito e denunciato dalla Procura di Roma, non da qualche renziano sfegatato, per non parlare degli infortuni degli inquirenti rivelati per telefono alla trasmissione televisiva Bersaglio mobile, su la 7, dall’avvocato difensore dell’indagato Marco Gasparri, diventa ancora più difficile prendersela –ripeto- con Lotti per l’allarme scattato fra i dirigenti e negli uffici della Consip.

 

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Sul piano più strettamente politico, al netto del clamore provocato dallo scontro a distanza fra l’ex presidente del Consiglio e Beppe Grillo, avventuratosi nel suo stile ad attribuire a Renzi anche la “rottamazione” del babbo, avendone auspicato una pena raddoppiata se dovesse risultare davvero colpevole di traffico d’influenze illecite e di chissà cos’altro, va registrata e segnalata la beata ingenuità -permettetemi di dirlo- del guardasigilli e candidato alla segreteria del Pd Andrea Orlando. Che, appoggiato nella sua scalata anche da Gianni Cuperlo, ha auspicato che il congresso del suo partito si svolga senza essere condizionato dalle indagini targate ormai Consip.

Sant’uomo benedetto, come fa Orlando a nutrire una simile speranza? D’altronde lui stesso ha mostrato di rendersi conto di una situazione ormai incontenibile quando ha lamentato la campagna congressuale del suo concorrente Michele Emiliano: il governatore pugliese e magistrato in aspettativa che si è conquistato il diritto di entrare nelle indagini Consip come testimone nel momento in cui ha rivelato al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio -e a chi sennò?- di avere conservato nel suo telefonino messaggi di più di due anni fa utili a far valutare dagli inquirenti i rapporti fra l’allora sottosegretario Lotti, l’imprenditore Carlo Russo e il papà di Renzi, tutti adesso indagati.

Con un attore delle primarie e del congresso come Emiliano, peraltro concorrente diretto di Orlando nella raccolta dei voti più antirenziani, non è soltanto ingenua ma velleitaria la speranza di mettere la corsa alla segreteria del Pd al riparo dalla vicenda giudiziaria che ha invaso le prime pagine dei giornali.

 

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Non meno ingenuo -consentitemi anche questo- è il tentativo del buon Eugenio Scalfari, in quella che lui chiama “la nota” domenicale ai lettori di Repubblica, di raccomandare agli esagitati cultori delle indagini Consip e dei suoi possibili riflessi politici una lettura filosofica. Che dovrebbe partire addirittura da Aristotele, il primo ad individuare la corruzione nella confusione fra interessi generali e interessi personali durante l’esercizio del potere, e il meno lontano Camillo Benso di Cavour, vigilantissimo in questo campo e indicato già altre volte a Matteo Renzi come statista da studiare e imitare.

In ogni caso, abituato non foss’altro per ragioni anagrafiche a vederne di tutti i colori, e a scriverne, Scalfari ha riconosciuto che l’Italia sul crinale della corruzione non è poi messa così male perché “ci sono le Americhe, la Russia post-sovietica di Putin”, ma anche quella precedente forse non scherzava, “il Medio Oriente, la Cina, i Balcani, la Turchia, l’Africa, l’Australia”.

Credo che di tutto questo il fondatore di Repubblica, di sua iniziativa o sollecitato, abbia avuto occasione di parlare anche con l’amico più illustre che ha, e di cui va giustamente orgoglioso: Papa Francesco. Che della corruzione ha per missione una visione universale.

 

 

 

 

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Gli insulti del pregiudicato Grillo

Beppe Grillo ha commentato a modo suo, cioè con insulti, la prestazione di Matteo Renzi nel salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7, appena dopo che il padre Tiziano aveva concluso un interrogatorio di 4 ore subìto nella Procura di Roma per il suo coinvolgimento, con l’accusa di traffico d’influenze illecite, nelle indagini sugli appalti della Consip. Che è la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione.

         Al netto degli insulti, non una parola di risposta, o di spiegazione, il comico di Genova ha ritenuto di voler spendere sulla realtà denunciata dall’ex presidente del Consiglio di un movimento -quello delle 5 Stelle- severissimo con tutti ma fondato da “un pregiudicato”, quale in effetti è Grillo per una sentenza definitiva di condanna rimediata dopo un incidente mortale in auto. Per una volta Renzi ha preso in prestito il linguaggio da casellario giudiziario di Marco Travaglio.

L’incontenibile giustizialismo leghista

         Hanno un bel dire l’ex ministro leghista Roberto Calderoli e i suoi amici di partito che essi sono decisi a votare con i grillini per la sfiducia parlamentare al ministro dello sport Luca Lotti, renziano di strettissima osservanza, solo per inseguire la crisi di governo ai fini delle elezioni anticipate.

         Poiché le contestazioni grilline, e della sinistra malpancista, anche fra quanti sono rimasti nel Pd dopo la scissione di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, nascono dai problemi che Lotti ha con gli inquirenti sugli affari della Consip, che gli hanno contestato la violazione del segreto sulle intercettazioni in corso a carico degli altri indagati, i leghisti non possono onestamente voltare la faccia dall’altra parte e far finta di non vedere e di non sentire. Essi accettano con le loro scelte l’aberrante uso delle vicende giudiziarie ai fini della lotta politica: in questo caso, ai fini appunto di una crisi di governo e di un conseguente ricorso, secondo loro, alle elezioni anticipate. Che restano tuttavia una prerogativa solo del presidente della Repubblica.

         Il fatto è che, sotto sotto, rimane forte nella Lega la tentazione al giustizialismo: la stessa che all’inizio della loro avventura di governo con Silvio Berlusconi, nell’estate del 1994, li portò a rinnegare un decreto legge appena varato con la firma anche del loro ministro dell’Interno Roberto Maroni dopo le proteste televisive di Antonio Di Pietro e degli altri magistrati della Procura di Milano. Che erano contrari alle ulteriori limitazioni imposte da quel decreto all’uso delle manette durante le indagini preliminari. Se n’era fatto un abuso   sproporzionato contro gli indagati di Mani pulite.

         L’allora presidente del Consiglio dovette fare buon viso a cattivo gioco, lasciando decadere il provvedimento, per scongiurare una crisi. Che peraltro l’allora segretario della Lega Umberto Bossi provocò lo stesso dopo qualche mese cavalcando le proteste della Cgil contro la riforma delle pensioni in cantiere.

         Ora che non c’è un suo governo in gioco, Berlusconi non ha subìto il giustizialismo leghista, comunque camuffato e motivato. Ed ha disposto, a costo di un altro strappo con Matteo Salvini, che i parlamentari di Forza Italia votino, quando sarà il momento, contro la sfiducia al ministro Lotti. Il quale pertanto con i no dei forzisti, anche di quelli alla Brunetta, che fanno dell’antirenzismo una ragione di vita, al pari dei grillini e della sinistra di vecchio stampo, potrà sentirsi al sicuro dall’agguato grillino.

         Questo è un altro mattone del muro che, a dispetto dei conclamati propositi di ricostituire su nuove basi il vecchio centrodestra, separa ormai Berlusconi dalla Lega: l’Europa, l’euro, la premiership e adesso anche i rapporti fra giustizia e politica.

Emergono pasticci nella gestione delle intercettazioni per gli affari Consip

 

Il ministro dei beni culturali Dario Franceschini e “i suoi”, come li ha chiamati La Stampa, sono arrivati per ultimi, dopo le reazioni di Matteo Renzi, di Lorenzo Guerini, vice segretario del partito e presidente della commissione di garanzia del congresso, e di Matteo Orfini, presidente del Pd, ma hanno pur sempre tagliato anche loro il traguardo della smentita. Essi hanno cioè negato i malumori loro attribuiti e la tentazione di chiedere il rinvio delle primarie del 30 aprile per evitare intossicazioni da cronache giudiziarie. Che sono quelle sulle indagini in corso fra Napoli e Roma sugli appalti della Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, in cui sono coinvolti a vario titolo il padre di Renzi, Tiziano, appena interrogato per 4 ore nella Capitale, il suo amico imprenditore Carlo Russo, appena rifiutatosi di rispondere agli inquirenti perché all’oscuro degli atti che lo riguardano, e il renzianissimo ministro Luca Lotti, di cui i grillini hanno chiesto la sfiducia in Parlamento.

Oltre a smentire ripensamento o incertezze sul sostegno alla ricandidatura di Matteo Renzi alla guida del Pd, Franceschini ha accusato chi glieli ha attribuiti di voler mettere “zizzania” nei suoi rapporti con l’ex presidente del Consiglio. Come il segretario della Lega Matteo Salvini ha accusato recentemente Silvio Berlusconi di voler fare con i dirigenti del Carroccio sponsorizzando la candidatura del governatore veneto Luca Zaia, leghista pure lui, alla premiership di un nuovo centrodestra. E ciò nel caso in cui lo stesso Berlusconi non dovesse recuperare in tempo per le prossime elezioni la candidabilità preclusagli dalla cosiddetta legge Severino.

I seminatori di zizzania quindi si sprecano davvero nel dibattito politico. E lo confondono ancor più di quanto non faccia la maggior parte dei cronisti giudiziari: almeno di quelli che selezionano notizie, indiscrezioni, voci e quant’altro provenienti dalle Procure e dintorni per complicare la campagna congressuale di Renzi nel Pd.

 

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Il ricandidato segretario, chiamiamolo così, del Partito Democratico ha comunque segnato qualche altro punto a suo favore, oltre alla smentita di Franceschini, negli sviluppi dell’offensiva in corso contro di lui. Egli è diventato tanto fiducioso da sottoporsi nel salotto televisivo di Otto e mezzo, a la 7, alle curiosità non proprio benevole della stessa conduttrice Lilli Gruber e del direttore dell’Espresso Tommaso Cerno. Ai quali non ha avuto difficoltà a ribattere che i processi, a cominciare da quello al padre Tiziano, si fanno nei tribunali e non sui giornali. Il genitore, accusato di traffico d’influenze illecite, aveva appena respinto ogni addebito davanti agli inquirenti dicendo, come poi avrebbe ripetuto ai giornalisti il suo avvocato, di sentirsi vittima di un “abuso di cognome”. Cioè, di millantato credito da parte di chi avesse trattato affari con la Consip, con l’imprenditore Alfredo Romeo, arrestato, o con altri spendendosi la conoscenza o l’amicizia con lui.

Oltre alla deposizione del padre, uscito libero dal lungo interrogatorio, a dispetto delle voci che avevano prospettato ben altri scenari, Matteo Renzi ha incassato la confermata solidarietà del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ribadita in una riunione del governo, al ministro Lotti. Che si aggiunge all’accusa di “clown” dei grillini rivolta dal presidente del Pd al concorrente di Renzi alla segreteria Michele Emiliano, spintosi a chiedere sostanzialmente a Lotti le dimissioni come gesto di “generosità” verso il partito e il governo.

A favore del renzianissimo Lotti è inoltre arrivata la notizia, confermata anche dal tono dell’editoriale del direttore del Giornale di famiglia, che Silvio Berlusconi ha ordinato ai suoi di votare in Parlamento, quando sarà il momento, contro la sfiducia proposta dai grillini, e sostenuta invece dai leghisti -ha precisato l’ex ministro Roberto Calderoli- “solo” in funzione di una crisi e di conseguenti elezioni anticipate.

 

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Il soccorso maggiore a Lotti, e quindi anche a Renzi, è giunto tuttavia dalla puntata di Bersaglio mobile, condotta da Enrico Mentana su la 7. Dove, in collegamento telefonico, l’avvocato difensore di Marco Gasparri, ex dirigente della Consip risultato “a libro paga” di Alfredo Romeo, ha rivelato clamorosi infortuni nei quali sono incorsi inquirenti e Carabinieri nelle intercettazioni e altro.

Una postazione per gli ascolti e le riprese negli uffici della Consip o dello stesso Gasparri fu incautamente collocata, davanti agli occhi dell’avvocato dell’inquisito, sul tetto dell’edificio in cui si trova la sua abitazione, vicina evidentemente alla sede della società. Altri indagati per gli appalti Consip furono incautamente fermati per strada e perquisiti per un’operazione apparentemente antidroga che fece loro capire di essere sotto controllo per altri motivi.

La stessa deposizione di Marco Gasparri agli inquirenti per ammettere i suoi rapporti con Romeo fu conseguente al consiglio datogli dal suo avvocato di parlare per evitare l’arresto, visto che era intercettatto.

Nel contesto di una simile gestione delle indagini riesce francamente meno convincente lo scenario accreditato sino ad ora dagli inquirenti di Lotti, all’epoca sottosegretario di Renzi a Palazzo Chigi. Che si sarebbe attivato, al pari di generali dei Carabinieri e quant’altri, per avvisare i vertici amici alla Consip dei controlli ai quali erano sottoposti perché li potessero neutralizzare.

         La valenza di queste rivelazioni a Bersaglio mobile si è colta bene vedendo la sorpresa e il disagio di un ospite particolare nello studio: Marco Lillo, scuppista -da scoop- giudiziario del Fatto Quotidiano, che per primo diede la notizia di Lotti indagato per violazione del segreto d’ufficio, o come altro si chiama il reato contestatogli. Il direttore di quel giornale, Marco Travaglio, ha a lungo protestato contro lo scetticismo o l’indifferenza altrui alla gravità della situazione giudiziaria del ministro amico di Renzi.

 

Diffuso in rete da http://www.formiche.net

Matteo come Bettino 25 anni dopo

Matteo Renzi non vuole sentirselo dire. Egli suole infastidirsi al paragone con Bettino Craxi: un personaggio “ diseducativo”, disse una volta motivando da sindaco di Firenze il rifiuto di dedicargli una strada, come aveva chiesto invece la figlia dello scomparso leader socialista. Gli preferisce Enrico Berlinguer, opposto un’altra volta da Renzi, per la sua “generosità”, all’”opportunismo” del rivale morto ad Hammamet.

Ma in questi giorni e in queste ore in cui si accavallano le voci e le smentite più disparate- le ultime delle quali riguardano l’allarme sulle primarie congressuali del Pd lanciato dalla Stampa per il timore di riverberi della vicenda giudiziaria in cui è coinvolto il padre dell’ex presidente del Consiglio e segretario del partito- Renzi sembra proprio nelle condizioni di Craxi nella tarda primavera del 1992.

Allora il leader socialista aspirava a tornare a Palazzo Chigi, da dove Ciriaco De Mita lo aveva sfrattato nel 1987, come ora Matteo Renzi aspira a tornare almeno al Nazareno, alla guida del partito, avendo perduto volontariamente il governo per la sconfitta referendaria del 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale.

Come oggi Matteo Renzi fa continuamente i conti con le voci sul grado di coinvolgimento del padre nelle inchieste sugli appalti della Consip, la centrale degli acquisti per la pubblica amministrazione, così Craxi 25 anni fa faceva i conti con le voci sul coinvolgimento del figlio Bobo nell’inchiesta esplosa con l’arresto -in flagranza di mazzette- di Mario Chiesa. Che aveva aiutato il figlio di Craxi nella campagna elettorale di qualche anno prima per il Consiglio Comunale di Milano.

Alla direzione del Giorno una sera sì e l’altra pure mi telefonava un comune amico per annunciarmi, preoccupato, l’imminente arresto del figlio di Bettino. Intanto arrivavano a Montecitorio le richieste di autorizzazione a procedere contro il cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, e il predecessore Carlo Tognoli a Palazzo Marino.

In quell’orribile scenario entrò a gamba tesa persino la mafia con la strage di Capaci, mentre a Roma il Parlamento cercava di eleggere il nuovo presidente della Repubblica.

La mafia, per fortuna, è oggi molto più debole, checché ne pensino il pubblico ministero Nino Di Matteo e, più in generale, i cultori del processone in corso da quasi quattro anni sulle presunte trattative fra lo Stato e la stessa mafia, risalenti secondo l’accusa proprio alle stragi del 1992. Vengono i brividi solo al ricordo.

Pubblicato su Il Dubbio

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