
Ho trovato una confessione che un po’ mi ha consolato e un po’ o ancor più sorpreso nella lunga intervista dal sapore di congedo che il capo della Procura di Milano Francesco Greco ha concesso al Corriere della Sera in vista del suo pensionamento. Che si avvicina nell’amarezza delle polemiche che lo hanno investito per la presunta mancanza d’indagini sulle altrettanto presunte rivelazioni dell’avvocato Piero Amara a proposito di una loggia segreta mista di magistrati e faccendieri.

La consolazione -a conferma peraltro della stima che istintivamente ho sempre avvertito per Greco a causa del fatto che all’epoca di “Mani pulite” era tra i magistrati incaricati delle indagini ma alieno dal palcoscenico sul quale invece altri saltavano ad ogni occasione fosse loro offerta dai giornali- sta nella coraggiosa confessione, per i tempi che corrono anche dopo l’esplosione della vicenda Palamara, del carattere “corporativo e autoreferenziale” della magistratura. Cui Greco oppone la sua abitudine di “guardare sempre avanti”, per cui è convinto di avere seminato abbastanza nella propria carriera per ritenere che “le idee” come le sue sulla giustizia “hanno molte cose da fare”, nonostante le delusioni procurategli negli ultimi tempi da ex collaboratori come il già pensionato Piercamillo Davigo o da un collaboratore confermatogli dal Consiglio Superiore della Magistratura come il sostituto Paolo Storari. Di cui invece era stato chiesto dal Procuratore generale della Cassazione il trasferimento ad altra sede e altra funzione per avere passato all’allora consigliere superiore Davigo -sempre lui- i verbali secretati di Amara, con tutto quello che poi ne sarebbe derivato.
La sorpresa -maggiore anche di quella riservatami dall’anticipazione del Fatto Quotidiano di una querela che Davigo avrebbe deciso o minacciato di sporgere contro il capo uscente della Procura milanese per reazione alle critiche ricevute, anche a costo di mandare ulteriormente “a pezzi” quella che molti ancora considerano l’epopea di “Mani pulite”- sta nella scoperta insita nell’intervista di Greco che l’autoreferenzialità dei magistrati non raggiunse il suo massimo a quell’epoca, come io invece ritetenevo. Per cui, dato ciò che ho sempre scritto di quegli anni e che sto per ripetere, o ricordare, mi chiedo a quale livello siano arrivate davvero le cose a Milano, e forse anche altrove, a proposito di magistrati corporativi e autoreferenziali.
Di “Mani pulite”, dei loro attori e del loro capo, che era Francesco Saverio Borrelli, mi impressionò subito, quando ne registrai i primi passi stando alla direzione del Giorno, la formazione a testuggine opposta alle prime, pur timide reazioni della politica. Borrelli in persona mi chiese a bruciapelo, in un rinfresco offerto nella Prefettura di Milano in onore dell’allora presidente del Senato Giovanni Spadolini, se “il presidente Craxi” fosse “impazzito” solo perché il figlio Bobo, consigliere comunale, aveva avvertito in una dichiarazione puzza di “campagna elettorale” nell’arresto di Mario Chiesa. Di cui si vantò che fosse avvenuta in flagranza di reato, al Pio Albergo Trivulzio, proprio per evitare che si potesse sospettare delle sue circostanze, due mesi prima delle elezioni politiche del 1992.

Poi, lasciata la direzione del Giorno e tornato nella squadra giornalistica dell’allora Fininvest, mi colpì la durezza con la quale Borrelli commentò l’ipotesi prospettata da Craxi di una commissione parlamentare d’inchiesta sul finanziamento della politica. Che doveva servire, secondo il capo della Procura milanese, ad aggirare e infine affondare le indagini giudiziarie in corso. Bastò e avanzò questo sospetto perché non se ne facesse nulla. E così il Parlamento ha potuto indagare su tutto, dalle banche alle banane, dai terremoti alla costruzione dell’aeroporto di Fiumicino, da Sindona alla P2 e ad altro ancora, ma non sul finanziamento dei partiti e, più in generale, della politica. E lo rilevai con una certa durezza in un commento a Parlamento in, anche a costo di procurare qualche preoccupazione a Berlusconi, che già avvertiva troppa attenzione giudiziaria sulle sue aziende e non aveva ancora deciso di difendersene anche scendendo in politica.
Quando il governo di Giuliano Amato – formato dopo il fallimento della candidatura di Craxi a seguito di un insolito allargamento delle consultazioni del presidente della Repubblica a Borrelli- varò nel 1993 il decreto legge di cosiddetta “uscita politica” da Tangentopoli, faticosamente concordato articolo per articolo, comma per comma, con Scalfaro al Quirinale, tra numerose interruzioni del Consiglio dei Ministri, bastò una reazione negativa dello stesso Borrelli perché il capo dello Stato ritirasse il suo assenso e annunciasse il rifiuto della firma.

L’anno dopo, quando Berlusconi già era presidente del Consiglio, portato a Palazzo Chigi dalla vittoria elettorale, e il suo governo varò un decreto legge per ridurre il ricorso alla carcerazione preventiva, di cui Scalfaro riconosceva si fosse fatto un certo abuso, tanto da controfirmare il provvedimento immediatamente, si levò dalla Procura di Milano una protesta così corale e rumorosa che la Lega di Umberto Bossi, presente al governo col ministro dell’Interno Roberto Maroni, si tirò indietro. E lo stesso Berlusconi dovette rinunciare alla conversione del decreto, grazie al quale nel frattempo erano stati liberati un bel po’ di detenuti in attesa di ulteriori indagini, neppure rinviati ancora a giudizio.
Pubblicato sul Dubbio
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