C’è sicuramente dell’esagerazione, per quanto congenita alla satira, nella vignetta con la quale Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX ha voluto ribattezzare col nome di “Ministero dell’Internamento”, anziché dell’Interno, il Viminale gestito dal leader leghista Matteo Salvini. Che però questa volta -diciamo la verità- è andato proprio a cercarsela con la disposizione che ha dato di allontanare dal comune calabrese di Riace un centinaio di immigrati che vi si erano integrati col metodo del sindaco Domenico Lucano, Mimmo per gli amici: finito agli arresti domiciliari proprio per le maniere, diciamo così, disinvolte con le quali usava trattare nel suo territorio il fenomeno dell’immigrazione.
Già Salvini se n’era fregato -scusate il termine, che però il ministro usa molto spesso quando reagisce a ciò o a qualcuno che non gli piace – della norma costituzionale sulla presunzione di non colpevolezza, cioè di innocenza, sino a condanna definitiva applaudendo l’arresto del sindaco. Che peraltro, pur finendo ai domiciliari, era stato accusato dal pubblico ministero anche di reati, oltre al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non condivisi dal giudice competente.
Ora il ministro dell’Interno -o dell’Internamento, secondo il perfido Rolli- ha completato la sua performance governativa ordinando l’allontanamento da Riace di immigrati che saranno pertanto un po’ meno o per niente integrati, per quanto la loro integrazione fosse stata permessa o favorita dal sindaco largheggiando all’anagrafe con certificati, matrimoni e ricongiungimenti. Sono tutti reati, per carità, per quanto limitati a casi che sono la classica goccia nel mare dell’immigrazione clandestina o irregolare, ma sempre in attesa di giudizio. E così poco vissuti come pericoli e scandali fra gli abitanti della zona e, più in generale, d’Italia da avere provocato sul posto raduni di protesta contro la Procura della Repubblica: un inedito assoluto nella storia di un paese purtroppo abituato per più di venticinque maledettissimi anni a sfilate davanti ai tribunali con magliette inneggianti alle manette. Che peraltro fanno pure rima.
Di questa inversione di tendenza paradossalmente si potrebbe anche ringraziare Salvini. E perdonargli l’errore contestatogli da Rolli con la forza disarmata della satira.
Questa volta tuttavia è francamente difficile non condividere l’attacco mosso dal Fatto Quotidiano, appunto, alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per il vitalizio che ha preteso e ottenuto dalla giustizia interna di Palazzo Madama, in cosiddetta autodichia, in relazione ai quattro anni trascorsi al Consiglio Superiore della Magistratura, fra il 2014 e le sue dimissioni per partecipare alle elezioni politiche del 4 marzo scorso. Dalle quali era destinata a uscire, per una serie di coincidenze tanto impreviste quanto fortunate, scalando i vertici istituzionali, sino a conquistare la seconda carica dello Stato.
esidente del Senato, in condizioni non certamente di indigenza, convenga accettare l’invito già rivoltole da qualche parte a rinunciare agli arretrati. Meglio avrebbe fatto, anzi, a precederlo. Se proprio fosse convinta da avvocato di lungo corso della giustezza di quella sentenza curiosamente -o odiosamente?- segreta, la presidente potrebbe destinare la somma a qualche opera o ente di beneficenza. E magari sorridere, da signora davvero, alla immagine attribuitale dal monello del Fatto Quotidiano della “messa in piega della terza Repubblica”.