Il Carnevale elettorale macchiato di sangue, e non solo di cretinate

            Dopo averlo declassato da criminale a cretino, quel genio di Matteo Salvini ha liquidato la vicenda del giovane di Macerata Luca Traini,  che ha tentato una strage di nigeriani per vendicare la ragazza uccisa e tagliata a pezzi da un loro connazionale, dando del delinquente a chi non condivide le  ricette leghiste per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione. Bell’esempio di leader candidato un giorno sì e l’altro pure a guidare un governo di centrodestra in Italia. Che per fortuna –a questo punto- ha le stesse probabilità dei grillini, altri campioni di logica e di stile, di conseguire nelle elezioni del 4 marzo la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Questa è l’unica condizione alla quale un aspirante a Palazzo Chigi possa ottenere la nomina a presidente del Consiglio dal capo dello Stato. Che al massimo può concedere a chi non ha conquistato da solo o con la propria coalizione la maggioranza assoluta dei seggi il tentativo di procurarsela trattando con altri la fiducia. L’una e l’altra –converrete- sono ipotesi irrealistiche: fortunatamente irrealistiche, avrei detto prima di Macerata e ancor più mi sento di dire dopo.

           Mi spiace per il vecchio e sempre ottimista Silvio Berlusconi, che per rispettare il copione della campagna elettorale mostra fiducia, anzi certezza di vincere con Salvini e poi domarlo, com’era riuscito a fare con Umberto Bossi alla guida della Lega dopo la prima rottura consumatasi alla fine del 1994, partorendo col suo primo governo la miseria di una crisi festeggiata impudicamente dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il quale, allergico politicamente a Berlusconi, aveva scambiato Bossi per un patriota, risparmiandosi solo la fatica di nominarlo senatore a vita.

          In questo Carnevale che si confonde con la campagna elettorale, o viceversa, come preferite, si sono guadagnati una medaglia anche quei cretini anti-immigrati e antirazzisti che per contrastare il ritorno alla Camera, o dove altro si è candidata con Liberi e Uguali, della presidente uscente e perciò terminale Laura Boldrini le hanno confezionato una decapitazione di narca nigeriana in fotomontaggio. Che la signora di Montecitorio, al netto dell’indignazione e dell’orrore che può averle procurato all’istante, è in grado di investire a proprio vantaggio sul terreno della solidarietà in una campagna elettorale alla quale, francamente, il leader del suo movimento, Pietro Grasso, sta fornendo pochi argomenti originali o politicamente convincenti. Né potrebbe essere diversamente per chi, vista l’indisponibilità o impossibilità di un accordo per costituire con l’attuale Pd dopo le elezioni una maggioranza di centrosinistra, se mai ve ne fossero i numeri parlamentari sulla carta, ha come unico obiettivo solo la guerra senza quartiere a Matteo Renzi. Un po’ poco, francamente, per guadagnarsi i galloni di governatore d’Italia.

Tra le fiamme dei diavoli e della campagna elettorale…

            Per una volta si può ben ridere della vignetta del Fatto Quotidiano, dove Vauro ha commentato in prima pagina il recupero delle forze anche fisiche appena vantato da Silvio Berlusconi facendo gioire i diavoli. Che ne temono l’arrivo perché il peccatore di Arcore sarebbe capace anche di spegnere il fuoco dell’inferno, lasciandoli disoccupati. Tenetevelo, ha fatto dire Vauro ai diavoli, evidentemente rivolti anche al suo direttore Marco Travaglio.

            Ho la sensazione, per certe notizie che mi giungono dagli specialisti dei sondaggi ma non ancora arrivate ai giornaloni, o da questi esorcizzate, che Vauro dovrà aggiornare dopo le elezioni la sua divertente vignetta per applicarla anche a Matteo Renzi: un altro capace di lasciare i diavoli disoccupati con i loro forconi e attrezzi da griglia.

            La prospettiva di un Renzi scampato alle fiamme deve essere diventata un incubo anche per l’ex pacioso presidente uscente, e quindi terminale, del Senato Pietro Grasso. Che non riesce a digerire il soccorso fornito al Pd e liste collegate dall’ex presidente del Consiglio Romano Prodi denunciando il carattere divisivo, e perciò letale per il centrosinistra, dei Liberi e Uguali. Così si chiamano, com’è noto, gli scissionisti del Pd e affini che partecipano alla campagna elettorale portando al polso come nastrino di riconoscimento il nome dell’ex magistrato portato in carrozza al Senato cinque anni fa dall’amico ed estimatore Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd.

            Dopo essersi scoperto qualche mese fa, col groppo alla gola davanti ad un’assemblea di adoranti, “un ragazzo di sinistra”, Grasso si è ora riconosciuto nello “zoccolo duro” della sinistra, che Renzi avrebbe “espulso”, anche se i vari Bersani e D’Alema un anno fa, all’incirca di questi tempi, se ne andarono spontaneamente dal Pd, non seguiti dalle altre componenti della minoranza. Delle  quali adesso, nominandone gli uomini di riferimento, cioè Andrea Orlano, Michele Emiliano e Gianni Cuperlo, il presidente del Senato ha cercato di stimolare l’orgoglio, o la rabbia di vittime, accusando Renzi di avere decimato i loro candidati nella preparazione delle liste.

            Grasso ha imparato presto il mestiere della politica, assimilandone anche gli aspetti peggiori: per esempio, l’intromissione con mani e piedi nelle vicende interne degli altri partiti, nella speranza di raccoglierne qualche brandello. Sapeva farlo benissimo il Pci, ai suoi tempi, affettando il partito socialista.         

Quei 300 milioni di lire pagati di tasca loro a Spataro dai giornalisti dell’Avanti…

L’articolo del magistrato Guido Salvini che il Corriere della Sera ha curiosamente pubblicato solo in edizione on line, e in Cronaca di Milano, ha il merito di ribadire, in polemica tanto dettagliata quanto civile con i suoi colleghi Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, gli inconvenienti in cui purtroppo incorsero, per sottovalutazione o altro, le indagini sul mortale attentato terroristico subìto nel 1980 dal povero Walter Tobagi. Del quale non riesco mai a scrivere senza commuovermi perché, oltre che un collega, Walter era un carissimo amico. Lo ricordo ancora quando veniva a Roma a fare le sue inchieste e trovava sempre il tempo per fare due chiacchiere con me in un ristorante vicino Piazza Navona. Ah, Walter, quanto mi manchi da quasi 37 anni. Eri un giornalista serio e generoso, oltre che coraggioso.

I colleghi Renzo Magosso e Umberto Brindani, per quanto condannati pesantemente, hanno avuto la fortuna di incontrare alla fine nei loro percorsi giudiziari un magistrato come Guido Salvini. Che ha avuto la pazienza, la competenza e il coraggio di riabilitarli, almeno sul piano mediatico per ora, rispetto all’accusa di avere diffamato chi non accertò bene le responsabilità del delitto Tobagi.

Walter, già scampato a un sequestro, sarebbe sfuggito anche alla morte se inquirenti, Carabinieri e quant’altri avessero saputo utilizzare le informazioni di cui pure disponevano su ciò che si stava preparando contro di lui.

Grazie agli approfondimenti e alle rivelazioni del dottor Salvini,  già occupatosi come magistrato del sequestro di Tobagi tentato due anni prima dell’assassinio, potranno forse ottenere giustizia con le nuove garanzie della giurisdizione internazionale. Temo che così non potranno fare per ragioni di tempo i parlamentari socialisti e i giornalisti dell’Avanti !, con l’allora direttore politico Ugo Intini in testa, che nel 1985 furono condannati per avere criticato la conduzione delle indagini sull’assassinio di Tobagi e il processo che seguì. L’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, come è stato di recente già ricordato su questo giornale, rischiò di essere “processato” dal Consiglio Superiore della Magistratura per avere osato condividere le critiche dei suoi compagni di partito. A salvarlo fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che minacciò l’uso dei Carabinieri per impedire al Consiglio Superiore, peraltro da lui stesso presieduto per dettato costituzionale, di sostituirsi al Parlamento nei rapporti col capo del governo in carica.

In quei tempi c’era ancora l’autorizzazione a procedere, per cui i deputati socialisti denunciati per diffamazione dall’allora pubblico ministero di Milano Giuseppe Spataro non avrebbero potuto essere processati senza il consenso della Camera. Che fu dato a scrutinio segreto, con un incrocio di sì dell’opposizione comunista e della sinistra democristiana.

Alle condanne penali seguirono, con i soliti tempi della giustizia di rito italiano, quelle civili per un ammontare complessivo di circa trecento milioni di lire. Che i giornalisti dell’Avanti! pagarono di tasca loro per il sopraggiunto fallimento della storica testata del Psi.

Tanto volevo ricordare solo per rinfrescare la memoria a quanti vorrebbero rimuoverla, fra magistrati, politici e giornalisti.

 

 

 

Pubblicato da Il Dubbio

Silvio Berlusconi fra il detto e non il detto agli adoranti di Libero

            Silvio Berlusconi, in verità non lo ha detto, per quanto sia capace di dirlo in privato, ma molto in privato, consapevole che, detto in pubblico, farebbe solo la figura del gradasso. Glielo ha fatto dire il quotidiano Libero nel titolo, in prima pagina, di una lunga intervista ottenuta dall’ex presidente del Consiglio durante la pausa che pure si era data nella campagna elettorale per lo stress procuratogli dalla formazione delle liste dei candidati della sua Forza Italia alle elezioni del 4 marzo, con tante promesse alla fine non mantenute. “Se vinco aggiusto tutto”, gli ha fatto gridare Libero, non rendendosi conto del ridicolo al quale esponeva l’incolpevole intervistato.

            Ciò accade purtroppo quando il cuore va oltre l’ostacolo. E il desiderio di compiacere si trasforma in un’autorete.

            Corrisponde invece al vero, leggendo il testo della lunga intervista, il “dissenso” dichiarato da Berlusconi verso il pur amico e fedele, di nome e di fatto, Confalonieri. Che ha confermato di recente anche al Fatto Quotidiano l’auspicio di una collaborazione politica, dopo le elezioni e all’insegna delle cosiddette larghe intese, fra Berlusconi e Matteo Renzi.

            Ma il dissenso dell’ex presidente del Consiglio è sull’auspicio, e basta. Berlusconi, cioè, non vuole auspicarlo pure lui, vuole anzi la libertà di non augurarselo, di non cercarlo, ma dopo le elezioni sarà pronto ad accordarsi con Renzi se altre soluzioni non saranno possibili al problema della cosiddetta governabilità del Paese per i numeri di cui disporranno i vari partiti in Parlamento.

            Lo farà insomma, poverino, per senso di responsabilità, per “servizio”, come si dice da sempre in politica. E altrettanto farà naturalmente Renzi, visto che in questa campagna elettorale egli liquida quasi con le stesse parole di Berlusconi la prospettiva di un loro incontro, senza tuttavia smentire Antonio Di Pietro. Che ha appena dichiarato al Corriere della Sera di avere ricevuto dal Pd con l’avallo del segretario più proposte di candidarsi nelle sue liste, ma di esserne stato lasciato fuori dopo avere avvertito che mai avrebbe votato in Parlamento per una maggioranza di governo comprensiva di Berlusconi.  

L’eterno duello rusticano fra Massimo D’Alema e Romano Prodi

            Nella cosiddetta prima Repubblica vivemmo prima l’eterna gara fra i due “cavalli di razza” della Dc, Amintore Fanfani e Aldo Moro, in ordine rigorosamente alfabetico, e poi l’eterno duello fra Bettino Craxi e Ciriaco De Mita, pure loro in ordine alfabetico. Nella cosiddetta seconda Repubblica dobbiamo accontentarci dell’eterno duello rusticano  fra Massimo D’Alema e Romano Prodi, sempre in ordine alfabetico per essere il più neutri possibile.

            Fanfani e Moro non se le dissero, ma se le fecero di tutti i colori per una ventina d’anni contendendosi, oltre alla guida dello scudo crociato, il merito e la conduzione del centro-sinistra. Così fu chiamata la politica democristiana di apertura e collaborazione con i socialisti dopo la rottura di governo del 1947 e lo scontro elettorale dell’anno seguente col “fronte popolare” costituito dal Pci dell’astuto Palmiro Togliatti e dal Psi di un ingenuo Pietro Nenni.

            Ad onore di Fanfani, che pure alla fine del 1971, avendo perso la corsa al Quirinale non aveva permesso a Moro di succedergli come candidato, va detto che lui fu l’unico, o fra i pochi, a mobilitarsi davvero, non per finta, per aiutare il suo antagonista quando si trovò in pericolo di vita. Fu lui, da presidente del Senato e da esponente autorevole della direzione democristiana, a prestarsi a sostenere in pubblico la grazia che il presidente della Repubblica Giovanni Leone si prestava a concedere alla detenuta per terrorismo Paola Besuschio per cercare di fermare le mani assassine dei carcerieri di Moro. I quali poi, pur di non dividersi nella valutazione dell’atto di clemenza, se fosse congruo o no rispetto allo scambio originariamente proposto con 13 brigatisti rossi detenuti, ammazzarono Moro la mattina del 9 maggio. Lo uccisero cioè  prima che Fanfani potesse parlare alla direzione del suo partito a favore dell’atto “autonomo” di Leone, e questi potesse  firmare  la grazia.

             Craxi e De Mita se le dissero, oltre che darsene, di tutti i colori. Più in particolare, in verità, De Mita diede a Craxi dell’”inaffidabile” e della vittima quasi cerebrale del diabete prima di scalzarlo malamente nel 1987 da Palazzo Chigi, rivendicando un’assai curiosa staffetta alla guida del governo non per governare nell’ultimo e più difficile anno della legislatura, ma per anticipare le elezioni. Che a quel punto il leader socialista rivendicava il diritto di gestire.

             La disinvoltura di De Mita, segretario allora della Dc, fu tale che pur di provocare lo scioglimento delle Camere il gruppo democristiano della Camera si astenne sulla fiducia, negandola, al governo monocolore appena composto da Fanfani  in sostituzione di Craxi.

            I celebranti dei 90 anni che De Mita ha appena compiuto dimenticano in questi giorni, nella rievocazione delle sue gesta, quel passaggio poco glorioso sul piano politico e istituzionale, ma non fa niente.

            Il duello rusticano fra D’Alema e Prodi cominciò quando comparve sui giornali l’indiscrezione secondo cui, conversando con amici, l’allora segretario del Pds-ex Pci aveva dato del “flaccido imbroglione” all’allora presidente del Consiglio. D’Alema smentì indignato, ma sfortunatamente dopo qualche mese Prodi fu costretto a dimettersi dalla guida del governo per un voto di sfiducia, o di mancata fiducia, come preferite, voluto dalla sinistra facente capo a Fausto Bertinotti.

            Prodi reclamò, col sostegno di Walter Veltroni, suo vice presidente del Consiglio dimissionario, il ricorso alle elezioni anticipate per cercare di governare nella successiva legislatura senza dipendere da Bertinotti. Ma D’Alema non ne volle sapere. E, facendosi sostituire al partito da Veltroni, subentrò a Prodi a Palazzo Chigi per governare con l’aiuto di un gruppo di transfughi del centrodestra allestito dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

            Quindici anni dopo, nel 2013, furono attribuiti anche a D’Alema, oltre all’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi, i cento e passa “franchi tiratori” che impedirono l’elezione al Quirinale di Prodi, appena candidato dal Pd su proposta di Pier Luigi Bersani, allora segretario ed anche presidente del Consiglio pre-incaricato. D’Alema negò che in quell’agguato ci fosse stata la sua mano, ma non poteva francamente negare che qualche compagno avesse potuto partecipare al cecchinaggio immaginando di fargli un piacere.

            E veniamo ai nostri giorni, o alle nostre ore. Prodi ha fatto quello che si chiama endorsement elettorale per Renzi e i suoi alleati nella corsa al voto del 4 marzo lamentando il carattere “divisivo”, e fortemente negativo per le prospettive del centrosinistra, del movimento Liberi e Uguali allestito da D’Alema e compagni e affidato alla guida di Pietro Grasso, presidente uscente, e quindi terminale, del Senato. D’Alema ha colto la prima occasione offertagli dalla sua campagna elettorale per liquidare quella di Prodi come una sortita di nessuna influenza, rinfacciando all’ex presidente del Consiglio l’irrilevanza del sì annunciato nel 2016 al referendum sulla riforma costituzionale di Renzi. Che D’Alema, allora esponente ancora del Pd, aveva duramente contrastato festeggiandone alla fine la bocciatura.

            Manca solo il sangue. Ma sul piano politico è come se già scorresse abbondante.

              

Lo strano modo di Ciriaco De Mita di festeggiare i suoi novant’anni

            Come si fa a non festeggiare i 90 anni che Ciriaco De Mita sta compiendo nella felice compagnia di familiari e amici? Gli auguri se li merita di certo, anche per il modo in cui se li porta fisicamente, pur se –diavolo di un uomo- non ha perso neppure a questa età l’abitudine alle scortesie, come quella che ha appena riservato a Silvio Berlusconi.

          Proprio mentre agenzie e giornali annunciavano la sospensione della campagna elettorale imposta da medici e familiari al presidente di Forza Italia per lo stress procuratosi con la preparazione delle liste dei candidati del suo partito alle elezioni del 4 marzo, l’ex segretario della Dc si è vantato in una intervista di sentirsi e persino di essere davvero più giovane, non più anziano di Berlusconi. Che viaggia “soltanto” verso gli 82 anni, da compiere a settembre.

          Sì, d’accordo, fra i due non è mai corso buon sangue. Hanno sempre diffidato l’uno dell’altro, anche quando Berlusconi faceva solo il costruttore e l’editore, ma aveva il torto di essere molto amico di Bettino Craxi, indigesto umanamente e politicamente a De Mita: tanto amico da essere da lui aiutato a contrastare  il potentissimo monopolio della Rai. Che era cosa anche socialista, a dire il vero, ma soprattutto democristiana, e un po’ anche comunista. Ed era gestita in quegli anni da un demitiano di ferro, furbo e sanguigno, come il direttore generale Biagio Agnes.

          Questa acredine di De Mita verso Berlusconi è stonata anche sul piano politico perché senza l’aiuto del presidente di Forza Italia né Ciriaco né i suoi vecchi amici della sinistra di provenienza e cultura comunista sarebbero riusciti a sconfiggere Matteo Renzi il 4 dicembre 2016 nel referendum sulla riforma costituzionale. Nel quale l’ex segretario della Dc volle impegnarsi personalmente con un duello televisivo con l’allora presidente del Consiglio finito a male parole, come si dice in gergo popolare: con Renzi che rinfacciò a De Mita di avere lasciato il Pd solo perché non lo avevano voluto candidare al Parlamento, dove aveva già trascorso tantissimi anni, e De Mita diede a Renzi dell’infame, cialtrone e altro ancora.

         Con la memoria, d’altronde, De Mita ha spesso giocato e continua a giocare come col pallone, prendendola a calci.

         Da vecchio estimatore e amico di Aldo Moro, al quale De Mita e gran parte degli amici della corrente di sinistra chiamata “Base” preferivano Amintore Fanfani nelle combinazioni interne alla Dc, mi ha fatto una certa impressione leggere della sua devozione allo scomparso statista democristiano, ucciso barbaramente dalle brigate rosse il 9 maggio del 1978, e da lui promosso come il suo punto di riferimento da sempre.

          Eppure furono proprio i voti dei “basisti”, di cui si era vantato in particolare, e pubblicamente Clemente Mastella, allora uomo di fiducia di De Mita, a mancare a Moro quando per la prima volta in Consiglio Nazionale si votò per eleggerlo presidente del partito. E gli mancò la maggioranza qualificata richiesta per l’elezione.

          Moro, di cui raccolsi personalmente la delusione, ci rimase malissimo. E non voleva saperne di essere sottoposto ad una seconda votazione, che alla fine subì, più che accettare. E assunse, poveretto, una presidenza della quale, una volta rapito dalle brigate rosse, si sarebbe doluto in una delle drammatiche lettere scritte dalla prigionia per chiedere inutilmente al suo partito di dissociarsi dalla linea della fermezza. Che, reclamata inflessibilmente dai comunisti nella maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale a sostegno di un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, gli stava costando la vita.

           D’altronde, i demitiani sette anni prima non si erano distinti come amici di Moro nella sua neppure decollata candidatura al Quirinale, dopo l’inutile sostegno dato alla candidatura di Fanfani.

          Auguri lo stesso, comunque, a De Mita per i suoi 90 anni ben portati.

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