Il buon viaggio di Pisapia all’ossimoro Speranza

L’augurio -si fa per dire- di “buon viaggio” lanciato nel Brindisino, terra pugliese a lungo dominata da Massimo D’Alema, è stato formalmente rivolto all’ex capogruppo del Pd alla Camera  Roberto Speranza: 38 anni, di Potenza. Intesa naturalmente come città, perché di potenza  intesa come forza il giovanotto ne ha obiettivamente poca, per quanto grandi siano le sue ambizioni politiche, specie da quando D’Alema ha deciso di adottarlo politicamente, sperando che non faccia la fine di tanti altri che poi lo hanno abbandonato, o ne sono stati abbandonati sprezzantemente per avere osato dissentire da lui, o cercare di camminare sulle proprie gambe. Com’é accaduto al ministro dell’Interno Marco Minniti, di cui l’ex presidente del Consiglio ha detto di recente, accollandogli curiosamente la responsabilità o titolarità dei campi libici in cui sono ammassati come beste i migranti in attesa di imbarchi clandestini verso l’Italia: “efficiente a contenere partenze e arrivi, ma a che prezzo?”. Al prezzo, evidentemente, della disumanità.

Il destinatario dell’augurio di Pisapia di “buon viaggio” è stato dunque il giovane potentino Speranza, che in una intervista al Corriere della Sera lo aveva appena scaricato dal convoglio che gli scissionisti del Pd hanno deciso di mettere sui binari il 19 novembre, o giù di lì, per fare poi una vigorosa campagna elettorale contro l’odiato Matteo Renzi, colpevole di tutte le più grandi nefandezze subite dall’Italia negli ultimi quattro anni, quanti ne sono trascorsi all’incirca dal trasferimento dell’allora sindaco di Firenze nei palazzi romani del potere.

Ma Speranza è un giovane esangue anche a guardarlo, con quel pallore che gli rimane in faccia, forse per via della barba, anche dopo avere preso il sole ventiquattro ore: il sole inteso naturalmente come la stella di fuoco, e non come il giornale della Confindustria di una delle tante barzellette che circolano sui due carabinieri italiani che, alla rovescia,  vanno sulla spiaggia an anziché all’edicola indicata dal comandante per acquistare il quotidiano.

Più che un giovanotto di grandi promesse, Speranza è ormai diventato un ossimoro a furia di  condividere e ripetere le cose che D’Alema pensa. E che Pisapia ha tradotto nella costruzione di “un quarto polo” elettorale e politico, non bastando  quelli di centrodestra sognato di notte da Silvio Berlusconi e sfasciato di giorno da Matteo Salvini, di cinque stelle del movimento grillino affidato temporaneamente a Luigi Di Maio, e del Pd dell’odiato Renzi. E’ un quarto polo che Pisapia valuta attorno al 3 per cento dei voti, il cui unico o principale obiettivo è di concorrere alla sconfitta, appunto, di Renzi. Senza l’aiuto e il concorso del quale, invece, secondo l’ex sindaco di Milano sarebbe letteralmente impossibile costruire prima e ancor più dopo le elezioni una coalizione di centrosinistra.

Ma questa realistica valutazione di Pisapia, per quanto curiosamente accompagnata per tutta l’estate dalla promessa o proposta dello stesso Pisapia di un centrosinistra comunque “diverso” e persino “alternativo” a quello tentato, voluto o immaginato da Renzi, viene liquidata da D’Alema e compagni come la prova di una mezza tresca fra gli ex sindaci di Milano e di Firenze. Manca solo che alla prossima occasione D’Alema dica, o faccia dire da Speranza, che Dio li fa e poi li accoppia, come nel referendum del 4 dicembre  dell’anno scorso sulla riforma costituzionale, che vide Renzi e Pisapia schierati sullo stesso fronte del sì. D’Alema naturalmente era su quello del no.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Perché D’Alema e Pisapia non stanno più insieme

La breccia del “bersagliere” Nunzio Galantino all’Avvenire

Il Gesù di Sergio Staino nella sua seconda domenica sulla seconda pagina di Avvenire sente alla fine come una fortuna essere nato più di duemila anni fa, anche se a quei tempi, come gli ricorda Bobo, “nulla era tranquillo soprattutto intorno alla Palestina”, dove appunto Maria partorì in una stalla: “tiranni, oppressione romana, lotte intestine, briganti…”. Ma sempre meglio di oggi, vista la polveriera che è il Medio Oriente.

Per la seconda striscia della “domenica di Staino” titolata “Hello. Jesus”, il direttore di Avvenire si è però risparmiato il richiamo in prima pagina dell’altra volta. Non ce n’era forse bisogno per i lettori del giornale cattolico, viste le polemiche provocate fra gli stessi lettori e fuori dalla testata dei vescovi italiani dall’esordio del famoso vignettista di sinistra sulla stampa ch’egli definisce cristiana. La sua collaborazione ha ottenuto la notorietà che merita. Peccato però che si avverta, a torto o a ragione, lo zampino di monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, di cui lo stesso direttore del giornale ha onestamente, anzi coraggiosamente raccontato ai lettori una certa animata protesta contro la collaborazione dell’ultimo direttore dell’Unità.

Le vignette sono fortunatamente sopravvissute alle proteste, critiche, dissenso -come volete- del potente monsignor Galantino. Che però una certa breccia all’Avvenire ritiene di essere riuscito a procurarla, come i bersaglieri a Porta Pia, risparmiandosi la domenica almeno il richiamo di Staino in prima pagina.

Beh, tutto sommato, a pensarci bene, è stato ed è un compromesso onorevole. Il lettore di Avvenire sa bene dove e come trovare il regalo che gli ha fatto, in piena e lodevole autonomia, il direttore Marco Tarquinio.

Scalfari stacca un altro assegno a Renzi

Eugenio Scalfari è decisamente più ottimista di Sergio Staino, che in una vignetta disegnata  per Il Dubbio mentre era ancora in corso venerdì la direzione del Pd sulla riforma elettorale all’esame della Camera, si chiedeva se Matteo Renzi avesse aperto ai suoi avversari di sinistra davvero o “per errore”.

Il fondatore di Repubblica, dopo un bel po’ di articoli domenicali dedicati  a problemi internazionali e filosofici è tornato a volgere lo sguardo alle vicende della politica italiana per garantire ai suoi lettori che il segretario del Pd “ha aperto non uno spiraglio ma una porta” alla sinistra interna ed esterna al suo partito per costruire il famoso centrosinistra più largo. O “più incisivo e coraggioso”, come nel 1968 -ma Scalfari non lo ha ricordato- fece nella Dc l’allora segretario Mariano Rumor per convincere gli alleati socialisti a scaricare il democristiano che aveva realizzato il primo governo organico di coalizione con loro: Aldo Moro, quello della maggioranza “delimitata”, con i confini ben visibili, che escludeva i liberali e i comunisti.

L’analisi ottimistica di Scalfari, che si è naturalmente compiaciuto delle aperture di Renzi, decisosi a rinunciare a fare tutto da solo per circondarsi  finalmente di una “corte di dignitari”, alla maniera di un Palmiro Togliatti ricostruito dal fondatore di Repubblica,  sembra confermata dall’atteggiamento della sinistra interna al Pd, che ha votato con la maggioranza alla fine della riunione della direzione di venerdì. Ma la sinistra esterna, cioè la parte uscita dal Pd al seguito di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, è rimasta sorda sia alle aperture di Renzi sia alle valutazioni di Scalfari, ritenendo che l’ex presidente del Consiglio non meriti credito alcuno, volendo solo imbrogliare ed eliminare i suoi interlocutori portando avanti una riforma elettorale studiata apposta a questo scopo.

In coerenza con questa valutazione, gli scissionisti stanno ormai rompendo con Giuliano Pisapia, al quale pure si erano rivolti perché assumesse la leadership di un centrosinistra “alternativo”, e non solo diverso da quello immaginato da Renzi nella presunzione, che essi contestano, di essere un uomo di sinistra, e non un berlusconide infiltratosi nel partito fondato dieci anni fa da Walter Veltroni assumendone la segreteria.

Non credo proprio che a far cambiare idea a Bersani, D’Alema e compagni sarà, oltre all’ottimismo di Scalfari, e a qualche telefonata dei giorni scorsi  fra Renzi e Romano Prodi, la decisione proprio di Veltroni di accettare una stanza offertagli nella sede del Pd dal segretario del partito. Da stanza nasce stanza, deve aver pensato non se più Renzi o Veltroni.

Se sono rose fioriranno. E pungeranno. Certo è, però, che francamente si stenta a seguire Scalfari nei suoi ragionamenti filosofici e storici finalizzati a conciliare l’oligarchia, realizzabile con un Renzi circondato da saggi vogliosi di aiutarlo, e la democrazia. Che peraltro il fondatore di Repubblica ritiene sia praticabile solo con i referendum, di cui però sconsiglia l’uso perché i problemi sono diventati troppo complicati per farli risolvere da un elettorato che tanto più è vasto tanto meno è competente.

Il brindisi sfrontato e vergognoso di Battisi

Scusate se insisto, ma è proprio il caso di farsi consegnare dal Brasile questo provocatore che sta brindando alla faccia nostra dopo avere ottenuto l’ennesima scarcerazione da un giudice desideroso di evitargli l’estradizione? Su cui il governo italiano sta trattando con l’impegno di tramutargli gli ergastoli procuratisi da noi come rapinatore e terrorista in una trentina d’anni di carcere, naturalmente gratuito, e magari ulteriormente scontabili. A me pare uno spreco, una follia, anche se il personaggio si chiama per uno spiacevole capriccio anagrafico Cesare Battisti.

Sapete che vi dico? Il Brasile si tenga pure il suo Cesare Battisti

Sarà per stanchezza, anzi sfinimento, o per cinismo, che prima o poi avverti come tentazione in questo mondo alla rovescia che non è solo quello italiano, è da tempo che non riesco più a interessarmi più di tanto alla vicenda di quel campione del disonore nazionale che è il Cesare Battisti in fuga da anni per scampare agli ergastoli guadagnatisi dalle nostre parti come terrorista. Che lui ha continuato ad essere nella testa, come concezione di vita e di rapporti col prossimo, anche dopo che il terrorismo -almeno quello italiano- è finito lasciandolo orfano  o disoccupato. E al posto delle pistole e dei mitra  egli ha cominciato ad usare il computer come arma-giocattolo, con cui scrive addirittura libri che sono riusciti a trovare persino lettori e acquirenti, a dimostrazione del rovescio del mondo cui accennavo all’inizio.

Mi spiace sinceramente per gli scampati alle sue imprese sanguinarie, sani o malandati che siano, e per i parenti dei morti che ha collezionato nella sua sciagurata esistenza, ma di questo Cesare Battisti non me ne frega più assolutamente nulla. Se lo tengano pure in Brasile, dove un giudice ne ha appena ordinato la scarcerazione, su istanza naturalmente dei suoi avvocati, giusto per fottere il governo che si apprestava ad espatriarlo in Italia in cambio dell’impegno assunto -francamente non so come e dove, e con quali modalità- di uno sconto di pena che gli permettesse di non morire in carcere, come vorrebbero gli ergastoli comminatigli a suo tempo dai nostri tribunali, ma non previsti dalle leggi brasiliane.

Vedo che il Brasile è messo, quanto ad amministrazione della giustizia, rigorosamente al minuscolo, e a situazione politica, peggio dell’Italia. Il che un po’ mi consola.

Sapete che vi dico? A questo punto, visto anche il pasticcio nel quale stava maturando l’estradizione, almeno dalle notizie circolate fra Brasile e Italia, mi auguro -ripeto- che i brasiliani finiscano per trattenersi il loro, ormai, Battisti e per mantenerselo, nelle carceri dove è destinato anche lì ad entrare di tanto in  tanto un po’ per la sua condotta e un po’ per la precarietà delle istituzioni di quel Paese. I cui rappresentanti possono concedere, ritirare, modificare come pare loro permessi, rifugi e quant’altro a malviventi o simili che passano da quelle parti.

Noi in Italia possiamo pure continuare a tenerci ben strette le targhe e i monumenti guadagnatisi da un altro Cesare Battisti: il campione e martire dell’irredentismo impiccato dagli austriaci a Trento il 12 luglio 1916, durante la prima guerra mondiale o ultima, come preferite, del Risorgimento italiano.

Fra le colpe che addebito e non potrò mai perdonare al Battisti ospite dei brasiliani c’è anche quella di averci condannato a trovare il suo nome nelle banche dati, o come diavolo volete chiamarle,  ogni volta che cerchiamo di rinfrescarci la memoria col Cesare Battisti patriota.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Sapete che vi dico? Il Brasile si tenga pure il suo Cesare Battisti

Avvenire difende Sergio Staino dal potente Nunzio Galantino

Quella di domani sarà la seconda domenica d’incontro fra il pubblico fedele di Avvenire – fedele sotto tutti i punti di vista- e le vignette di Sergio Staino, della serie Hello Jesus.

         Monsignor Nunzio Galantino, che come segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana potrebbe essere equiparato all’editore del notissimo e autorevole giornale cattolico, se ne farà, o se n’è già fatta una ragione dopo il dissenso espresso per la coraggiosa scelta del direttore Marco Tarquinio di accettare la collaborazione offertagli altrettanto coraggiosamente dal celebre vignettista della sinistra italiana, peraltro ultimo e generoso direttore dell’Unità purtroppo mancata ancora una volta alle edicole: unità, questa volta in minuscolo, da ancor più tempo mancante alla sinistra nel mercato politico.

         A rivelare il dissenso espressogli “con schiettezza e calore” da Galantino è stato, rispondendo ad alcuni lettori, lo stesso direttore Tarquinio. Che per la sua scelta non è stato rimosso dalla guida della testata cattolica, come sarebbe forse avvenuto in altri tempi. E come avverrebbe probabilmente anche oggi nella stampa cosiddetta laica, che a dispetto del suo laicismo, appunto, soffre spesso di militarizzazione, a sinistra come a destra. E’ una stampa dove -ha giustamente rilevato proprio Staino in una intervista di presentazione ai lettori di Avvenire pubblicata all’esordio della sua collaborazione- ci si sveglia la mattina ponendosi solo il problema di individuare il nemico di giornata da combattere.

         Monsignor Galantino, che quell’intervista forse non l’ha letta, stordito dalla sorpresa fattagli da Tarquinio in controtendenza rispetto a tanta voglia di chiudersi ciascuno nel proprio recinto, con l’illusione di difendersi dalle paure suscitate dalle cronache e dalle speculazioni politiche cui si prestano i fatti, si ritroverà spesso -ne sono sicuro- nel Gesù visto e disegnato da Staino. Che peraltro conobbe Gesù a suo modo, nell’oratorio dove la madre assai credente lo mandò da bambino sperando che dalla curiosità di quel figliolo già così vivace potesse nascere anche la fede. Essa invece non arrivò, sino al punto che Staino é ancora presidente, o qualcosa del genere, dell’Unione degli atei e agnostici razionalisti, come qualche lettore ha rinfacciato al direttore di Avvenire chiedendosi con Galantino quale “valore aggiunto possa venire al giornale dalle strisce” domenicali del vignettista. Il quale ha così trovato felicemente il modo di impegnarsi anche di sabato, visto che Il Dubbio, onorato dalla sua collaborazione, non esce di domenica.

         Forse il segretario generale della Conferenza episcopale italiana avrà storto il muso alla definizione del “primo dei socialisti” data da Staino di Gesù, non cogliendo il garbo del vignettista di fermarsi ai socialisti, senza avventurarsi sino ai comunisti, ma non potrà negare che Gesù fu davvero “il primo a combattere per i poveri”. E tanto è bastato e basta a un ex o post-comunista come Staino per riconoscersi in lui, per parlarne come di “un personaggio bellissimo”, e per attualizzarlo ai nostri difficilissimi tempi con le sue vignette forse meglio di quanto non riescano a fare la domenica nelle Chiese i sacerdoti con le loro prediche che personalmente, e da credente, trovo troppo spesso ermetiche e astratte.

 

 

 

 

Pubblicato da Il Dubbio

                                                        

La botte di ferro in cui può sentirsi Piercamillo Davigo

Gli estimatori, pochi o molti che siano, del giudice Pier Camillo Davigo, ex presidente dell’associazione nazionale dei magistrati e presidente di sezione in carica alla Corte di Cassazione, possono stare tranquilli se ha procurato loro qualche angoscia la notizia di un possibile procedimento contro di lui davanti al Consiglio Superiore della Magistratura, ma forse anche altrove.

Una simile notizia si è diffusa, a torto o a ragione, dopo un’intervista dell’indignatissino presidente della settima commissione proprio del Consiglio Superiore della Magistratura, Claudio Galoppi. Che non vuole perdonare a Davigo di avere incontrato più volte Beppe Grillo, sino a ispirargli una proposta di modifica dei parlamentari pentastellati di precludere a vita al pregiudicato Silvio Berlusconi, condannato in via definitiva per frode fiscale, anche la qualifica e il ruolo di capo-partito, non dovendo bastare la incandidabilità temporanea che ora lo angustia.

Galoppi non vuole perdonare a Davigo nemmeno di avere detto recentemente in televisione che “deve vergognarsi” chi non rinuncia, in giudizio, alla prescrizione pur assicuratagli da una legge in vigore.

Per quanto riguarda gli incontri con Grillo, peraltro rimossosi da solo da capo del suo partito, o movimento, senza aspettare che una legge glielo imponesse per una vecchia condanna definitiva per omicidio colposo, lo stesso Grillo ha provveduto a smentire liberando Davigo da ogni sospetto o accusa. E pazienza se qualche malintenzionato sospetterà, anche dopo le querele annunciate dall’interessato, che il magistrato possa essersi limitato a parlare per telefono col comico di Genova, fra un impegno e l’altro dello stesso Grillo per l’acquisto di un teatro a Roma, dove si accinge a fare due o  tre spettacoli dei suoi, a pagamento, non foss’altro per verificare se gli incassi torneranno a salire dopo il suo passo di dietro o di lato compiuto passando la guida del movimento delle 5 stelle a Luigi Di Maio.

Per quanto riguarda invece la pur indubbiamente avventata pretesa della vergogna di chi non rinuncia alla prescrizione dei reati per i quali si trova sotto giudizio, Davigo potrà facilmente “sfiancarla”, per ripetere un termine da lui stesso usato quando parla di chi viene assolto o evita comunque la condanna, appellandosi ai precedenti. Che in Italia non mancano mai. E che, nel caso addebitato a Davigo, sono costituiti dalle reiterate dichiarazioni, interviste, lettere e quant’altro di Gian Carlo Caselli, già capo, fra le altre cose, della Procura della Repubblica di Roma all’epoca dell’incriminazione di Giulio Andreotti per mafia.

Per anni Caselli ha potuto contestare il diritto di Andreotti di potersi considerare davvero assolto dalla grave accusa di concorso sia pure esterno in associazione mafiosa per non avere rinunciato alla prescrizione dell’altro, pur meno grave, reato di associazione a delinquere contestatogli nel processo per fatti risalenti quando non c’era ancora il reato di associazione mafiosa. Anche nelle argomentazioni di Caselli c’era un giudizio morale su Andreotti fruitore della prescrizione simile a quello espresso sugli imputati o imputabili in vita da Davigo. Che potrebbe ben chiedere a questo punto perché mai lui debba rispondere al Consiglio Superiore della Magistratura di un abuso dialettico e moralistico che è stato a lungo permesso a Caselli, e alla stampa fiancheggiatrice naturalmente.

Così è (se vi pare), potremmo ripetere sconsolatamente con Luigi Pirandello, magari rinunciando anche alle parentesi.

La guerra dei Roses tradotta in politica

Nell’anno della caduta del muro di Berlino -il 1989- uscì un film di grande successo chiamato “la guerra dei Roses”, ricavato da un romanzo un po’ comico e un po’ tragico su una coppia di coniugi che finì di farsi dispetti e di odiarsi solo morendo  insieme, sotto il lampadario di casa al quale lei si era appesa dopo averne indebolito l’aggancio pensando che potesse cedere sotto il peso del marito.

Fu guerra dei Roses, a sinistra, fra Massimo D’Alema e Matteo Renzi, in ordine rigorosamente alfabetico, sino alla scissione del Pd.

Ora è guerra dei Roses fra Massimo D’Alema e Giuliano Pisapia, sempre in ordine alfabetico.

Il lampadario al quale entrambi, dopo sgambetti, dispetti e inviti reciproci a fare passi indietro e di lato, mai davanti, sembrano destinati ad appendersi per esserne entrambi travolti è l’appuntamento elettorale del prossimo anno per il rinnovo delle Camere.

A indebolire l’aggancio del lampadario non hanno però provveduto né D’Alema né Pisapia, sempre in ordine alfabetico. Vi ha provveduto Renzi col progetto di riforma elettorale fatto presentare alla Camera dal capogruppo del Pd Ettore Rosato. Il cui cognome tradotto in latino fa Rosatellum, in inglese Roses.

La sinistra italiana da Lotta a Scissione Continua

Francesco Boccia, il presidente della Commissione Bilancio della Camera, che pure fa parte della minoranza del Pd, ha “sconsolatamente” accollato alla scissione consumata nell’inverno scorso da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni anche il rifiuto del loro nuovo partito di votare la nota di aggiornamento del documento governativo di economia e finanza, e le contemporanee dimissioni del vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico. Le cui competenze non sono economiche, per cui il gesto va letto nel quadro di una più generale offensiva politica contro gli equilibri politici di questo convulso finale di legislatura.

Negli anni cosiddetti di piombo italiano impazzò a sinistra un movimento chiamato Lotta Continua, il cui giornale ogni mattina sovrapponeva al sangue delle pallottole il veleno dell’odio contro gli avversari della sinistra rivoluzionaria ancora in vita, qualche volta purtroppo anticipandone l’esecuzione. Ciò accadde, in particolare, contro il commissario di polizia Luigi Calabresi, ucciso come un cane sotto casa perché ritenuto -naturalmente a torto- responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, trattenuto in Questura a Milano dopo la strage nella sede ambrosiana della Banca Nazionale dell’Agricoltura.

A distanza di tanti anni il terrorismo da cui dobbiamo guardarci è, per fortuna sotto certi aspetti e per disgrazia sotto altri, di livello internazionale. Ma la politica è ugualmente attraversata da spinte distruttive, anzi autodistruttive. Tutti i partiti litigano fra di loro, e al proprio interno, anche quando perseguono, o dicono di perseguire intese più larghe di quelle che hanno appena distrutto, a sinistra e a destra. Al centro rimangono, secondo una recente e curiosa idea di Bersani, i grillini  per la loro pur cinica disponibilità ad aprirsi in ogni direzione. Ma costoro per ora sono presi solo dal bisogno o dalla vocazione a combattersi fra di loro. E sarà forse la volta buona per liberarsene.

Da Lotta Continua, tuttavia, a sinistra siamo passati a Scissione Continua, come potremmo chiamare, nella logica e nella realtà lamentate giustamente da Boccia, il nuovo partito creato da Bersani e D’Alema. Per fortuna non siamo nello scenario di sangue di più di 40 anni fa. Ma siamo pur sempre in uno scenario sciagurato: quello della ingovernabilità del Paese. Dove a sinistra si reclama  di distribuire di più la ricchezza con ricette però destinate a distribuire di più  la miseria allargandone l’area.

Bartolo Ciccardini manda a chiedere di votare Renzi

Ricordato a tre anni e più dalla morte nella sede dell’Istituto Luigi Sturzo, a pochi passi da Piazza Navona, dove sono soliti incontrarsi i democristiani di ogni tendenza, o corrente, sopravvissuti a tutti i marosi politici cominciati con la fine giudiziaria della cosiddetta Prima Repubblica, Bartolo Ciccardini è riuscito per interposta persona a inserirsi con la foga che lo aveva sempre contraddistinto in vita nelle polemiche attuali su Matteo Renzi. E quindi anche sulle prospettive, dopo la scissione a sinistra, consumata da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni, del Partito Democratico. Di cui è parlamentare alla Camera  la ex segretaria generale dell’Istituto Sturzo, nonché figlia dell’ex segretario della Dc Flaminio Piccoli, Flavia Nardelli.

Alla fine della commemorazione -dopo che avevano parlato il presidente dell’Istituto Nicola Antonietti, Mario Segni, Gerardo Bianco, la figlia di Piccoli, lo storico Francesco Malgeri e Alessandro Forlani dicendo tutto il bene possibile, e meritato, di Bartolo Ciccardini, protagonista e anticipatore nella Dc di tante battaglie modernissime come l’elezione diretta del segretario del partito, dei sindaci e, in prospettiva, anche dei Presidenti della Repubblica, che invece continuano ad uscire dalle trattative segretissime e per niente trasparenti fra i partiti con la ratifica del voto parlamentare- un signore rimasto ahimè sconosciuto a molti perché si è dimenticato di presentarsi, ma che si chiama Aldo Bernabei, ha fatto letteralmente irruzione sulla pedana degli oratori. E ha voluto raccontare con toni e parole chiaramente condivisive la grande simpatia per Renzi dichiaratagli e motivatagli da Ciccardini quasi in punto di morte, pur nella consapevolezza del carattere un po’ troppo debordante, anche per i suoi gusti, dell’allora presidente del Consiglio, oltre che segretario del Pd. E ciò l’amico dello scomparso ha riferito con l’aria di voler fare un appello elettorale in nome e per conto dell’estinto, in vista delle elezioni prossime venture, di ogni livello.

Non ho dubbi sul reale entusiasmo dell’anticomunista Ciccardini per Renzi, che non a caso viene considerato dalla sinistra di origine, cultura, stampo marxista, come preferite, un intruso in odio al quale quella parte politica si sta dibattendo proprio in questi giorni, e in queste ore, nelle solite battaglie oltranziste e autodistruttive, stavolta attorno al documento di politica economica e finanziaria del governo Gentiloni. Dalla cui maggioranza il nuovo partito di Bersani e D’Alema  ha ormai un piede e mezzo fuori, trattenendone il resto per le prossime settimane o occasioni.

Ciccardini peraltro ebbe la fortuna, dal suo punto di vista politico, di morire poco dopo la vittoria di Renzi alle elezioni europee del 2014 col 40 per cento e più di voti, come ai tempi migliori della Dc. Si risparmiò così di assistere al successivo logoramento dell’ex sindaco di Firenze, un po’ procuratosi da solo con scelte e comportamenti che si poteva risparmiare, ma un po’, anzi ancor di più, per l’ostinato sabotaggio condotto dalla minoranza rabbiosa del suo partito, giunta a mobilitarsi contro di lui nel referendum sulla riforma costituzionale promettendo con faccia tosta di poterne improvvisare un’altra approvabile -disse Massimo D’Alema- in pochi mesi. Si è visto infatti dove siamo finiti, senza neppure uno straccio di legge elettorale diversa da quelle prodotte non dal Parlamento ma dalla sartoria della Corte Costituzionale.

Ostinato com’era anche lui, Ciccardini continuerebbe forse a tifare per Renzi se fosse vivo, come ha mostrato di credere l’amico che ne ha voluto così impetuosamente e sorprendentemente chiudere la commemorazione a più di tre anni dalla morte. Ma, appunto, se il morto fosse vivo.

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