Il papà di Renzi mette a rischio il congresso del Pd

L’allarme, pur smentito pure dallo stesso segretario dimissionario e dal vice segretario Lorenzo Guerini, è stato lanciato in prima pagina dalla Stampa: le primarie del Pd sono in forse per gli sviluppi delle indagini sugli appalti della Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione. Vi sono notoriamente coinvolti anche il padre di Matteo Renzi, Tiziano, e l’amico Luca Lotti, ministro dello sport, contro il quale i grillini si sono affrettati a promuovere una mozione di sfiducia.

Primarie del Pd “in forse” significano naturalmente congresso in forse: un congresso per la cui convocazione in tempi brevi -“cotto e mangiato”, secondo Pier Luigi Bersani, o “con rito abbreviato”, secondo Michele Emiliano, che vede tutto con le lenti e il linguaggio del magistrato, per quanto in aspettativa- Renzi ha subìto una scissione. O l’ha cercata, come gli rimproverano i fuoriusciti e gli avversari che sono rimasti nel Pd per fargli la guerra, prendendo il testimone dai compagni andati via. Alcuni dei quali, a cominciare dal più famoso e astioso, Massimo D’Alema, hanno prospettato la possibilità di tornare se mai la corsa alla segreteria del Pd fosse vinta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, proveniente -guarda caso- dalla storia del Pci, o della “ditta”, come la chiama Bersani. Par di capire che invece non cambierebbe nulla con una vittoria di Emiliano, considerato d’altronde da Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità, “non diverso da Renzi” per temperamento e improvvisazione.

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Ma a mettere “in forse” primarie e congresso del Pd, il cui percorso peraltro è intralciato anche da polemiche, inchieste e ricorsi sul tesseramento in territori non certamente nuovi a irregolarità,, come Napoli e la Sicilia, non sembrano essere gli ex o post-comunisti rimasti nel partito per proseguire la lotta dei compagni usciti forse troppo in fretta, secondo loro, ma gli ex o post-democristiani che sino a ieri sembravano più congeniali alla storia di Matteo Renzi.

Secondo la Stampa, sarebbero il ministro dei beni culturali Dario Franceschini “e i suoi” ad essere “pronti” a chiedere di bloccare l’orologio delle primarie. Sarebbero loro a temere un congresso ormai intossicato dalla vicenda giudiziaria del padre di Renzi, atteso proprio oggi negli uffici della Procura di Roma, e dalle strumentalizzazioni -a dir poco- cui si presta. Anzi, si è già prestata e potrebbe sempre più prestarsi nelle prossime ore e nei prossimi giorni.

Franceschini e i “suoi”, d’altronde, avevano già vacillato nelle scorse settimane nel sostegno a Renzi, tentati dal solito ruolo dei “pontieri”, di tradizione democristiana, con le opposizioni di turno, quando queste ultime sembravano più disposte, o meno indisponibili, come preferite, ad una mediazione. Ora potrebbe risultare persino comprensibile una tentazione dei franceschiniani di smarcarsi in qualche modo da quello che già è diventato sui giornali “il romanzo familiare” di Renzi o addirittura, “la festa del papà”, secondo il sarcastico titolo, al solito, del Manifesto: un anticipo della festa vera, che si celebrerà il 19 marzo, giorno di San Giuseppe.

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In verità, Franceschini essendo nato 17 anni prima di Matteo Renzi ha fatto in tempo a votare, e più volte, per le liste e il simbolo della Democrazia Cristiana. Matteo Renzi no.

L’ultima volta che lo scudo crociato partecipò come tale alle elezioni politiche, quelle del 1992, Matteo Renzi dovette starsene a casa o andare al mare avendo meno di 18 anni, compiuti solo l’11 gennaio del 1993.

Quella personale dell’ex presidente della provincia di Firenze, ex sindaco della stessa Firenze, ex presidente del Consiglio e ora anche ex segretario del Pd in corsa per la rielezione, non si può definirla una storia democristiana vera e propria. Lo è solo per provenienza familiare, per la militanza scudocrociata del padre, passata -a quanto pare- per varie correnti di quel partito, che ne aveva parecchie e perciò consentiva una certa mobilità. L’ultima collocazione correntizia di papà Renzi è stata rivelata proprio dal figlio come demitiana: cosa peraltro che non attenuò ma accentuò lo stupore e l’indignazione avvertita da Ciriaco De Mita nello scontro televisivo avuto con l’allora segretario del Pd nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale.

E’ proprio la vicenda giudiziaria Consip , quella che rischia ora di inceppare la macchina congressuale piddina, a consegnare paradossalmente Matteo Renzi per via del “romanzo familiare” di cui si diceva alla storia della Dc. Dove si trova traccia di un altro “romanzo familiare”: quello dei Gava, papà Silvio e figlio Antonio, trapiantata in Campania dal Veneto e risultata di grande potenza nel partito.

Allora però i problemi non furono procurati dal padre al figlio ma dal figlio al padre, con tortuose vicende giudiziarie che costarono fra il 1994 e il 1995 sei mesi di arresti, fra carcere e domicilio, all’ormai ex ministro dell’Interno e capogruppo parlamentare della Dc, accusato di collusioni con la camorra. Poi “don Antonio” sarebbe stato assolto, e prescritto in un altro procedimento.

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La campagna anticasta a rischio suicidi

 

Il rifiuto coraggiosamente anticonformistico di Carlo Fusi di assecondare la campagna dei grillini e dei loro emuli -di destra, di sinistra e di centro- contro i vitalizi parlamentari, o come diavolo possono o debbono essere chiamati, mi ha riportato alla memoria un penoso, drammatico colloquio avuto, in un’altra ondata di queste squallide polemiche, con un anziano ex deputato della Dc. Non ne faccio il nome per evidenti ragioni di riserbo, come capirete leggendomi, ma sono pronto a farlo con i presidenti delle Camere, se riterranno di saperne di più nell’azione di contenimento di questa offensiva. Che non riguarda solo i vitalizi o le pensioni future, ma anche quelle in essere per i famosi e cosiddetti diritti acquisiti, diventati ormai parolacce nel dizionario dei demagoghi e cacciatori dell’oro altrui. Anche quando l’oro è di Bologna, inteso come fasullo.

Tutta la storia delle “pensioni d’oro” è cominciata d’altronde con una truffa mediatica, quando ne fu scoperta e denunciata al pubblico disprezzo e livore una di 90 mila euro lordi mensili, maturata da un telefonico. Da allora sono diventate d’oro, d’incanto, e sottoposte anch’esse al linciaggio, oltre ai cosiddetti e ricorrenti contributi di solidarietà, le pensioni di 90 mila euro lordi annui, su cui gravano trattenute fiscali, fra Irpef e addizionali, superiori al 50 per cento.

Ma torniamo all’ex parlamentare democristiano, vicino ai 90 anni, di cui quasi 40 trascorsi fra Camera e Senato, e al colloquio avuto con lui nella sala lettura di Montecitorio. L’uomo non gode di altri redditi, oltre al disonorevole -adesso- vitalizio. Possiede solo la casa in cui vive. La moglie è ammalata ed ha quindi bisogno di assistenza. Ha un figlio, con famiglia, che non se la passa molto bene e deve contare sull’aiuto generoso del padre. “In queste condizioni -mi ha detto- se mi dovessero ridurre il vitalizio, con questa storia del ricalcolo dei contributi, non mi resta che farla finita e uccidermi. Il Signore mi perdonerà”.

Vi assicuro che l’ex parlamentare diceva davvero. Ha trattenuto a stento le lacrime e mi ha salutato pregandomi di conservare di lui un buon ricordo: soprattutto di una persona perbene, perché se nella sua lunga attività politica, a capo di importanti organizzazioni, avesse voluto “profittarne”, come ormai si sospetta abitualmente di tutti quelli che hanno avuto e hanno potere, non si troverebbe adesso a temere così tanto di perdere o di vedersi ridurre il vitalizio di un terzo. Così gli hanno calcolato amici ed esperti nel caso in cui dovesse passare l’operazione auspicata dai cacciatori dell’oro “rubato” ai giovani e quant’altri.

Mi chiedo se è anche questo scenario di morte che vuole mettere nel conto della offensiva grillina il giovane vice presidente della Camera Luigi Di Maio, affetto da congiuntivite e confusione, diciamo così, geopolitica per via di quel Pinochet attribuito al Venezuela con una disinvoltura di cui peraltro temo che non si sia scusato neppure con se stesso guardandosi nello specchio. Se poi lo avesse fatto, gliene darei atto molto volentieri.

Non vorrei che ai suicidi della falsa epopea di Mani pulite, la cui serie cominciò a livello parlamentare col colpo di fucile sparatosi alla gola il 2 settembre 1992 dal deputato socialista Sergio Moroni nella cantina della sua casa di Brescia, dopo una lettera di denuncia dello sciacallaggio politico inviata al presidente della Camera Giorgio Napolitano ponendo problemi rimasti tutti irrisolti, dovessimo ora aggiungerne altri di questa nuova e falsa epopea della lotta ai privilegi, alla casta e a quant’altro. Una lotta, poi, in cui ci sono caste che si definiscono sfacciatamente anticaste, come 25 anni fa inneggiavano agli eroi di Mani pulite, tra i fanatici dell’anticraxismo e di quell’anticipo del grillismo che fu il leghismo, fior di evasori fiscali e furbastri di ogni tipo, decisi a nascondere le loro debolezze o nefandezze sotto le magliette inneggianti a “Tonino”, cioè ad Antonio Di Pietro e colleghi.

Non so se l’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti si riferisse l’altro ieri allo stesso ex parlamentare democristiano da me incontrato a Montecitorio quando ha osato chiedere agli scalmanati crociati anticasta che cosa dovesse fare un novantenne provvisto del solo vitalizio. So però che Marco Travaglio – e chi sennò?- ha preso la palla al volo per fare la solita ironia e per calcolare seduta stante, collegato chissà a quale dei suoi terminali, che il poveretto potrebbe comunque contare su 5000 euro mensili, chissà se lordi o netti.

Non so neppure su quale specchio giudiziario si sia potuto arrampicare il direttore del Fatto Quotidiano per scrivere nella sua storia aggiornata di Mani pulite, come ha detto di recente in un salotto televisivo, che 25 anni fa “vi furono zero suicidi in carcere”. Non vorrei che Gabriele Cagliari gli risultasse morto a casa, dopo avere riottenuto la libertà che riteneva promessagli dall’inquirente o giudice di turno.

 

 

 

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Il congresso quaresimale di Renzi

 

Come 25 anni fa, ai tempi di Tangentopoli, allora in un Parlamento appena eletto ed entrato subito in crisi mediatica e rischio di scioglimento per le voci e le notizie provenienti dalla Procura di Milano, ora in una legislatura -la diciassettesima- abbarbicata con i presidenti di entrambe le Camere nella difesa dell’ultimo anno di mandato, la politica naviga a vista. A rischio di collisione e affondamento.

Basta l’arresto di qualche faccendiere o imprenditore che abbia avuto frequentazioni con i cosiddetti palazzi del potere nell’inseguimento di un buon affare o appalto, come nel nostro caso l’”avvocato” napoletano Alfredo Romeo, appena tornato in manette dopo un’analoga esperienza di nove anni fa, o l’intervista di qualcuno accreditato come persona bene informata dei fatti, come nel nostro caso quella del commercialista Alfredo Mazzei appena pubblicata da Repubblica, per far saltare i sismografi del Parlamento e delle forze politiche. Ma soprattutto del Pd, dove si sta svolgendo una partita congressuale decisiva per la sorte di Matteo Renzi, già indebolito dalla sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale e da una scissione appena consumatasi con la nascita di una sigla rovesciata: da Pd a Dp. Sembra un fastidioso scioglilingua, ma non lo è. E’ un rovescio davvero.

Come se non bastassero i rivali che gli sono rimasti nel Pd, soprattutto il governatore pugliese e magistrato in aspettativa Michele Emiliano e il ministro della Giustizia Andrea Orlando, entrambi candidati alla segreteria, Matteo Renzi rischia di essere ulteriormente danneggiato, se non travolto, dai problemi giudiziari del padre Tiziano. Che è accusato di traffico d’influenze dai pubblici ministeri di Roma impegnati nelle indagini sugli appalti della Consip, la centrale d’acquisti della pubblica amministrazione. E che hanno appena disposto l’arresto di Romeo, la cui notizia è arrivata a Montecitorio dopo una mattinata in cui si erano accavallate voci sull’arresto, invece o anche di Tiziano Renzi.

 

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L’interrogatorio del padre dell’ex presidente del Consiglio in programma per domani, 3 marzo, alla Procura di Roma è stato preceduto dall’intervista a Repubblica del commercialista e amico di Romeo, Alfredo Mazzei, di dichiarata militanza piddina e di altrettanto dichiarata ma passata simpatia renziana. Egli ha parlato, fra l’altro, di una cena riservata svoltasi a suo tempo in una “bettola” di Napoli fra lo stesso Romeo, l’imprenditore Carlo Russo, anche lui indagato per gli appalti della Consip, e il padre appunto di Matteo Renzi. La cui iniziale T è stata trovata affiancata alla cifra di 30.000, presumibilmente euro, in un “pizzino” di Romeo strappato ma recuperato dai Carabinieri fra i rifiuti e ricomposto.

Alle sdegnate smentite fatte dall’avvocato di Tiziano Renzi ai giornalisti seguiranno naturalmente domani quelle dell’interessato agli inquirenti. Ma ormai, come sempre accade del resto in queste cose, pur tra le solite proteste degli addetti ai lavori non condivise da un pubblico smanioso di notizie, o da politici smaniosi di strumentalizzare ogni occasione contro l’avversario di turno, i processi giudiziari e mediatici non si svolgono alla pari, su piani paralleli. Il processo mediatico prevale su quello giudiziario, facendo più rumore e danni dell’altro, pur non disponendo i giornali fortunatamente delle manette cui possono invece ricorrere i magistrati. Se poi il processo mediatico risulterà smentito dai tre gradi del processo giudiziario, o da un’archiviazione senza neppure arrivare al rinvio a giudizio, com’è già accaduto tante altre volte, pazienza. Chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto, dice un vecchio adagio popolare, per quanto allucinante, se qualcuno intanto ha perduto la reputazione, posto, carriera e vita.

Prima di lasciarsi intervistare da Repubblica il commercialista Mazzei, in verità, è stato interrogato -forse anche più volte- dagli inquirenti. Lo ha detto lui stesso, spiegando così anche la ragioni per le quali ha tenuto ancora per sè, e per i pubblici ministeri, alcune delle cose a sue conoscenza a proposito degli appalti della Consip e degli affari o rapporti di Romeo: non si sa se anche dei rapporti suoi non con il papà di Renzi ma con il figlio in persona. Alla domanda sui motivi per i quali, deluso, ha smesso ad un certo punto di essere renziano il commercialista ha infatti risposto: “Lasciamo stare”.

 

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L’intervista di Alfredo Mazzei a Repubblica fa il paio con quella, nella scorsa settimana, di Michele Emiliano al Fatto Quotidiano. Cui il governatore pugliese e -ripeto- concorrente di Renzi alla segreteria del Pd, aveva raccontato di avere conservato nel suo telefonino, o simile, messaggini scambiati nel 2014 con l’allora sottosegretario di Renzi a Palazzo Chigi Luca Lotti a proposito di Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi, tutti indagati ora per gli affari Consip.

Di quei messaggini naturalmente si sono incuriositi gli inquirenti, che hanno chiesto ad Emiliano di trovare il tempo fra i suoi impegni di governatore regionale e di candidato alla segreteria del Pd per deporre come testimone. Cosa che sarebbe già dovuta accadere ma è stata rinviata al 6 marzo, forse per iniziativa degli stessi inquirenti, visto il gran daffare che hanno.

Sui tempi di azione e di esternazione di Emiliano debbo fare una precisazione ai lettori. Ho attribuito ieri alla ministra dei rapporti col Parlamento Anna Finocchiaro anziché al ministro della Giustizia Andrea Orlando il disappunto, il rammarico, il rilievo -chiamatelo come volete- per la decisione del governatore pugliese di avere parlato della sua riserva di messaggini telefonici al Fatto Quotidiano prima o anziché agli inquirenti, se li riteneva, non foss’altro per la sua esperienza di magistrato, di una certa rilevanza “penale”.

Credo tuttavia di non avere procurato danni o dispiaceri alla ministra Finocchiaro. Che probabilmente, magistrata in aspettativa anche lei, come Emiliano, non ha avuto difficoltà a riconoscersi nelle osservazioni del guardasigilli, peraltro da lei dichiaratamente preferito a Renzi nella corsa alla segreteria del Pd.

 

 

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La Camera torna indietro di 25 anni

 

Va bene che siamo appena entrati nella Quaresima e proseguono tuttavia i festeggiamenti per le nozze d’argento dell’inchiesta Mani pulite col popolo insaziabile dei corrotti da trangugiare, in attesa dei processi e, spesso, delle assoluzioni. Ma quella vissuta ieri a Montecitorio sembrava proprio una mattinata di 25 anni fa.

Nel Parlamento appena eletto il 18 aprile di quel fatidico 1992 si rincorrevano notizie e voci, in un intreccio da brividi, provenienti allora dalla Procura di Milano e tutte minacciose per la sorte di parecchi politici. Questa volta la Procura di provenienza è stata quella di Roma, dove venerdì è atteso l’interrogatorio del padre di Matteo Renzi, Tiziano, indagato per traffico d’influenze nell’ambito degli affari della Consip, la centrale di spesa della pubblica amministrazione.

Ad un certo punto si è sparsa la voce che l’interrogatorio di Tiziano Renzi fosse stato preceduto da una perquisizione e addirittura dall’arresto dell’interessato. E si è anche collegato a questa presunta svolta nelle indagini il rinvio dell’ascolto, in Procura, del governatore pugliese Michele Emiliano, spostato al 6 marzo. Un interrogatorio chiesto dagli inquirenti dopo avere appreso dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio di alcuni messaggini telefonici del 2014, conservati da Emiliano, in cui l’allora sottosegretario di Renzi, Luca Lotti, gli raccomandava l’amico imprenditore Carlo Russo, a sua volta amico di papà Renzi, a sua volta interessato pure lui a incontrare l’attuale governatore pugliese, e concorrente alla segreteria del Pd: Lotti, Russo e Tiziano Renzi, tutti coinvolti adesso a vario titolo, guarda caso, nelle indagini Consip.

Mentre le voci si accavallavano, nei corridoi della Camera s’incrociavano ieri volti renziani lunghi così e volti sorridenti di antirenziani, come se gli appena costituiti gruppi parlamentari degli ex piddini, con la sigla Pd rovesciata in DP, si stessero gonfiando.

Verso l’ora di pranzo però tutto si è un po’ disteso. Si è saputo che un arresto in effetti c’era stato, ma di Alfredo Romeo, sempre per le indagini Consip. E con storie, come nel 1992, di mazzette per le pulizie in un ospedale: allora a Milano, nel Pio Albergo Trivulzio gestito da Mario Chiesa, adesso a Napoli, al Ceccarelli.

Domani sarà un altro giorno, sospirava qualcuno alla maniera della mitica Rossella O’Hara in Via Col Vento. Non ditelo, per favore, a Bruno Vespa perché c’improvvisa subito una puntata del suo Porta a Porta.

 

 

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La politica inciampa nelle toghe

Critico o diffidente perché sfiancato, lo confesso, dalla produttività di Renato Brunetta, uno stacanovista dell’opposizione, anche quando gli capita casualmente di stare nella maggioranza, come avveniva ai tempi dei governi di Mario Monti e di Enrico Letta, da lui bistrattati ben prima che perdessero la fiducia di Silvio Berlusconi, debbo questa volta riconoscere al capogruppo di Forza Italia alla Camera di avere saputo infilzare a dovere l’imprudente omologo del Pd Ettore Rosato. Che gli aveva contestato il diritto di protestare contro la magistrata in aspettativa e presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Donatella Ferranti, eletta nelle liste del Pd e insorta contro la disinvoltura con la quale il governatore pugliese Michele Emiliano -altra toga in aspettativa- mescola giustizia e politica, ma dimentica di tenere bloccata da anni alla Camera una legge già approvata dal Senato per mettere più ordine nella materia.

Rosato, anziché prendere le iniziative necessarie per rimuovere questo blocco, che nuoce sia alla magistratura sia alla politica, ha cercato di dividere la responsabilità del ritardo con lo stesso Brunetta rimproverandogli di non avere mai usato il tempo messo a disposizione delle opposizioni dal regolamento della Camera per portare in aula finalmente quella benedetta legge. Che forse non riuscirà ad eliminare la brutta abitudine dei magistrati di restare in aspettativa per decine d’anni facendo politica attiva, come ha appena rivendicato di poter e voler fare ancora la ministra Anna Finocchiaro, sempre del Pd, ma potrebbe quanto meno scoraggiarla.

Ebbene, a Brunetta non è parso vero di poter tirare fuori dal cassetto e sbandierare le ben 25 lettere -venticinque- da lui mandate dal 2014 alla presidenza della Camera per inserire quella legge fra le priorità della sua parte politica. Che figuraccia, per Rosato.

Ne è uscito meglio, si fa per dire, il piddino Walter Verini. Che, ricordandosi di essere stato nominato relatore di quella legge dalla presidente della commissione Giustizia, si è detto pronto a riferire in aula. Dove, fra uno svolgimento e l’altro di interrogazioni e interpellanze più o meno urgenti, diventate ormai il piatto preferito del menù parlamentare, si potrebbe ben trovare il tempo per discutere anche di come disciplinare i rapporti fra magistrati e politica.

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Michele Emiliano intanto continua la sua corsa alla segreteria del Pd nel doppio e singolare ruolo di candidato e di testimone nelle indagini giudiziarie in corso a Roma per l’affare Consip, in cui è coinvolto non il suo antagonista Matteo Renzi, di certo, ma il padre Tiziano, che ne porta pur sempre -diciamo- il cognome e potrebbe in qualche modo disturbare l’aspirazione del figlio a riprendere la guida del partito. E questo per non parlare di altri renziani coinvolti nelle indagini sugli appalti per gli acquisiti delle pubbliche amministrazioni: il ministro Luca Lotti e l’imprenditore Carlo Russo, che si ritrovano direttamente o indirettamente in vecchi messaggini telefonici ricevuti tre anni fa da Emiliano, da questo rivelati al Fatto Quotidiano e e giunti così a conoscenza degli inquirenti, interessati naturalmente a saperne di più.

La testimonianza di Emiliano in Procura, a Roma, era stata annunciata per oggi ma all’ultimo momento è slittata, non si sa di quanto. E non si sa nemmeno per iniziativa di chi: della Procura, dove certamente il lavoro non manca, o di Emiliano, troppo preso dalla sua corsa alla segreteria del partito, ma anche da un procedimento in corso su di lui nella commissione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Dove si fatica a considerare ancora “indipendente” e prestato alla politica uno che , oltre a guidare il governo della sua regione, dopo avere fatto il sindaco di Bari e l’assessore non ricordo più in quale città, è stato anche il presidente regionale del partito e ora aspira alla segreteria nazionale, essendone ovviamente un iscritto, almeno per obbligo statutario.

Quello in cui si trova Emiliano mi sembra quanto meno un pasticcio, dal quale sono personalmente curioso di vedere se il capo della Procura di Torino Armando Spataro, dal quale Emiliano si fa difendere, riuscirà a tirarlo fuori nella competente commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, che intanto ha spostato al 3 aprile l’udienza che sembrava imminente.

In questo intreccio di procedimenti e di rinvii la ministra Finocchiaro ha ritenuto di dover e poter criticare il suo collega Emiliano solo per avere parlato dei vecchi messaggini telefonici di cui dispone ad un giornale prima che ai magistrati ai quali possono interessare per le già ricordate indagini in cui sono coinvolti il padre e amici di Matteo Renzi.

Per fortuna, debbo dire, la signora Finocchiaro non ha scelto di sostenere Emiliano nella corsa alla segreteria del Pd. Ma neppure Renzi, pur avendone condiviso e gestito al Senato la riforma costituzionale bocciata dal referendum del 4 dicembre. Il candidato che la ministra ha deciso di sostenere è invece il ministro della Giustizia Alfredo Orlando, pure lui proveniente dall’esperienza del Pci, come la signora, e appoggiato neppure dietro le quinte anche da altre personalità di quel partito come Giorgio Napolitano e Ugo Sposetti, il mitico tesoriere dell’altrettanto mitico e ambito patrimonio immobiliare, mobiliare e artistico del vecchio partito comunista.

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E’ una curiosa notizia anche quella appena data su Repubblica da Massimo Giannini. Che si è sentito confessare per telefono da Matteo Renzi, testualmente: “A naso, direi che a questo punto si andrà a votare nel 2018. Quindi il governo non ha più alibi. Deve governare e governare bene”.

In quell’”alibi” si avverte qualcosa di nuovo, e di polemico naturalmente, rispetto all’immagine alla quale ci aveva abituato una certa letteratura degli avversari dell’ex presidente del Consiglio. L’immagine cioè di un governo Gentiloni fotocopia, a tutti gli effetti, di quello di Renzi.

Se sono rose fioriranno, con le loro spine naturalmente.

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Il vizietto di Berlusconi d’intromettersi nella Lega

 

Eppure Silvio Berlusconi, benedett’uomo, alla fine del 2000 aveva promesso al ritrovato amico Umberto Bossi di non farlo più. Cioè, di non intromettersi nelle vicende interne della Lega, come aveva fatto incautamente sei anni prima perdendo la presidenza del Consiglio, conquistata appena sei mesi prima con la clamorosa vittoria elettorale di esordio della cosiddetta seconda Repubblica. Invece, eccolo ricaduto nella vecchia tentazione con la sostanziale offerta della pur virtuale premiership di un nuovo centrodestra, in pendenza di una propria incandidabilità ,al governatore leghista del Veneto Luca Zaia.

Ora alla guida della Lega non c’è più Bossi, peraltro da tempo in aperta polemica col successore Matteo Salvini, ma la reazione del giovane nuovo segretario del Carroccio è assomigliata molto a quella del suo predecessore. Egli ha accusato senza mezzi termini Berlusconi di voler “seminare zizzania” fra i leghisti e ha moltiplicato dubbi e resistenze all’ipotesi avanzata da Giorgia Meloni di provare quanto meno a Genova, nelle elezioni amministrative della prossima primavera, liste unitarie di quello che fu il centrodestra.

Zaia, dal canto suo, si è rapidamente tirato fuori dalla partita liquidando come “una manfrina” quella di Berlusconi. E ripetendo ciò che aveva detto di fronte alle prime voci circolate sul l’idea del presidente del Consiglio di sponsorizzarlo per Palazzo Chigi: “Noi leghisti un candidato già lo abbiamo”. È naturalmente Salvini, smanioso da tempo di far provare al centrodestra, e di vincere, la pratica delle primarie adottata dalla sinistra. Una pratica della quale Berlusconi invece non vuole neppure sentir parlare perché- dice e fa dire ai suoi- andrebbe disciplinata per legge per evitare gli inconvenienti e i pasticci avvertiti a sinistra ogni volta che vi si ricorre e si contano cinesi, filippini e africani in fila davanti ai gazebo, ma in in realtà perché, o anche perché gli dà fastidio la sola idea di doversi contare al di fuori dei seggi elettorali delle politiche. Dai quali peraltro egli è tenuto lontano dal 2013 per l’incandidabilità procuratagli per sei anni dalla cosiddetta legge Severino, la guardasigilli del governo tecnico di Mario Monti, dopo la condanna definitiva per frode fiscale, costatagli anche il seggio del Senato conquistato proprio nel 2013.

Da questa condizione indubbiamente scomoda, che ne limita l’agibilità politica, come si dice in gergo tecnico, l’ex Cavaliere -ex per effetto sempre di quella disgraziata condanna- potrebbe uscire prima se la Corte dei diritti umani a Strasburgo accettasse un suo ormai vecchio ricorso, motivato anche con l’applicazione retroattiva di una legge che lo ha privato di un diritto così importante come quello del cosiddetto elettorato passivo con una sanzione che viene curiosamente considerata soltanto “amministrativa”.

Già di per pesante, il contenzioso politico di Berlusconi con Salvini, o viceversa, si è aggravato il mese scorso anche con le voci diffusesi, a torto o a ragione, sull’offerta di una candidatura da indipendente a Umberto Bossi nelle liste di Forza Italia nelle prossime elezioni politiche, se Salvini volesse davvero lasciarlo a casa per ragioni di ricambio generazionale, utili a coprire il dissenso politico esistente tra il fondatore del movimento e il giovane segretario. Di cui i soliti retroscenisti maliziosi dicono che sia infastidito anche per le frequenti puntate conviviali di Bossi ad Arcore.

Certo, viene da sorridere pensando al 1994. Quando Bossi già in campagna elettorale mordeva il freno chiamando l’alleato Berluscaz e poi, ad elezioni vinte dall’editore del Biscione, resisteva a stento alle sollecitazioni di Eugenio Scalfari e persino dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a negare l’assenso al conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio all’uomo di Arcore.

A governo finalmente fatto, nel mese di maggio, Bossi non tardò a creare problemi a Berlusconi. Già a luglio lo costrinse ad arrendersi, praticamente, alla rivolta della Procura di Milano contro un decreto legge, firmato anche dal ministro leghista dell’Interno Roberto Maroni e controfirmato dal pur esigentissimo capo dello Stato, per limitare il ricorso alle manette nelle indagini preliminari. Il presidente del Consiglio dovette lasciar decadere il decreto, rinunciando alla cosiddetta conversione. I pubblici ministeri ambrosiani avevano chiesto al loro capo, Francesco Saverio Borrelli, di essere destinati ad altri incarichi per non applicare una legge a loro avviso iniqua, che avrebbe indebolito la lotta alla corruzione. Maroni si giustificò penosamente dicendo o di non avere capito il contenuto del decreto predisposto dal ministro forzista della Giustizia Alfredo Biondi, o di avere firmato un testo diverso da quello poi letto sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. In realtà, la Lega era prigioniera del giustizialismo cavalcato in campagna elettorale.

Seguì la torrida estate di Bossi in canottiera sulle spiagge della Sardegna, a due passi dalla lussuosa villa del presidente del Consiglio. Che faceva finta di non vedere e di non sentire le ruvide minacce dell’alleato, fino a quando Bossi in autunno non si rivoltò, insieme con la Cgil, contro la riforma restrittiva delle pensioni predisposta da Dini al Ministero del Tesoro per allineare i conti, già allora, ai parametri dell’Unione Europea.

Fu allora che, con la prospettiva o la minaccia di elezioni anticipate, escluse però da Scalfaro a Bossi, ricevuto molto calorosamente al Quirinale, sino ad essere salutato come “liberatore”, con la scusa di ironizzare sulla sua pretesa di liberare la Padania, Berlusconi cominciò a corteggiare politicamente alcuni parlamentari leghisti in funzione antbossiana, a cominciare da Maroni. Che rilasciò dichiarazioni contro i rischi di una crisi. Ma le cose anziché fermarsi, precipitarono per le durissime reazioni del segretario leghista a quella che definì “una campagna acquisti” del presidente del Consiglio nei gruppi parlamentari del Carroccio.

Seguirono l’annuncio della sfiducia parlamentare dopo un dibattito spietato, la crisi e la formazione del governo tecnico di Dini, anziché le elezioni anticipate. Che erano state inutilmente reclamate al Quirinale da Berlusconi, calendario alla mano. Esse arrivarono invece dopo più di un anno, nel 1996, quando il centrosinistra contrassegnato dall’Ulivo, costruito da D’Alema e guidato da Romano Prodi, fu in grado di vincere grazie alla perdurante rottura fra Berlusconi e Bossi.

Erano altri tempi. Verrebbe voglia di parlare di un’altra epoca, quando nessuno poteva immaginare, fra l’altro, l’irruzione sullo scenario politico italiano di un movimento improvvisato da un comico.

 

 

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