Un pipistrello importuno al Lingotto di Torino

Quell’impertinente di Francesco Merlo, inviato da Repubblica a Torino per seguire e commentare ha fatto un curioso scoop. Attardatosi nel Lingotto dopo che ne era uscito il pubblico, forse per mettere in ordine i suoi appunti e finire di stendere l’articolo, ha potuto vedere l’arrivo e lo svolazzo di un pipistrello.

Caspita. Spero che Renzi non sia superstizioso. O che io sbagli a considerare di cattivo augurio l’incursione di quell’uccello. E che a  portarlo lì e a liberarlo in tempo perché qualcuno potesse vederlo e riferirne non sia stato qualche compagno ed estimatore di Massimo D’Alema. Il quale fra tutti gli avversari di Renzi è quello più tosto, che ha più lucidamente e ostinatamente anticipato la scissione minacciandola in un raduno a Roma di tutti i comitati del no alla riforma costituzionale, da lui stesso promossi  e usciti stravincenti dal referendum del 4 dicembre. Fu un   raduno voluto  perché quel no fosse esteso anche ad un partito incapace di liberarsi, e presto, del suo segretario.

E pensare che D’Alema, sempre lui, non un sosia, quando già era sicuro di vincere il referendum costituzionale, si era impegnato a “soccorrere” Renzi, dopo la sconfitta, da quelli che, troppo numerosi, lo avrebbero abbandonato e attaccato: una generosità insolita per “Baffino”. Che tuttavia, a dire la verità, aveva fatto capire bene quanto inattendibile fosse il suo annuncio, avendo aggiunto che il soccorso a Renzi sarebbe stato uguale a quello prestato a suo tempo a Bettino Craxi: un altro avversario politico combattuto con sinistra ostinazione dal dirigente comunista.

Il povero Craxi, proprio mentre D’Alema sedeva a Palazzo Chigi, non riuscì a tornare in Italia libero neppure per morire, essendo ormai la sua vita agli sgoccioli dopo un intervento chirurgico nell’ospedale militare di Tunisi. Per rimuovere ogni ostacolo sarebbe bastato il coraggio dell’allora presidente del Consiglio di deplorare con una dichiarazione pubblica il proposito della Procura di Milano di fare piantonare Craxi come un detenuto in qualsiasi ospedale, clinica privata e altro posto dove avesse deciso di farsi curare.

Anche nel Tribunale di Milano in quei giorni di più di 17 anni fa era riuscito forse a svolazzare di notte qualche pipistrello.

La matrioska delle sfide di Renzi

Anche del discorso di Matteo Renzi al Lingotto per riproporsi alla segreteria del Pd si potrebbe dire ciò che osservammo su formiche.net quando l’allora presidente del Consiglio affrontò il referendum sulla riforma costituzionale annunciando che avrebbe considerato chiusa la sua esperienza politica se avesse perso. Ci chiedemmo allora se egli fosse più coraggioso o imprudente, avvertendo che solo i fatti avrebbero potuto dare la risposta. Fu imprudente, vista non solo la sconfitta del 4 dicembre, ma anche la sua dimensione. Quella ventina di punti di distacco fra i no e i si fu un’enormità superiore anche alle previsioni dei vincitori.

Ciò nonostante, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella offrì a Renzi una rete di sicurezza: il rinvio alle Camere dopo le dimissioni da presidente del Consiglio, ma non anche da segretario del partito, per ottenere col rinnovo scontato della fiducia la legittimazione ammaccata dalla disfatta referendaria. Ma lui rifiutò commettendo forse un altro errore, rimproveratogli su Repubblica da Eugenio Scalfari, che aveva condiviso, se non addirittura consigliato, la linea del capo dello Stato.

Renzi preferì un orgoglioso ritiro da Palazzo Chigi scommettendo su un ritorno a breve, legittimato da un Parlamento non in scadenza ma nuovo di zecca, magari eletto anche in anticipo. E fu un’altra sfida, tradottasi dentro il suo partito in uno scontro col grosso della sinistra e nella scissione.

Come in una matrioska, le scommesse o sfide di Renzi non sono una dopo l’altra, ma una dentro l’altra. Quella che lui ha lanciato dal Lingotto è la sfida del doppio incarico, cioè la somma dei mandati di segretario del partito e di presidente del Consiglio. E il conseguente rifiuto della proposta dei due concorrenti -Michele Emiliano e Andrea Orlando, in ordine rigorosamente alfabetico- di separare le due cose.

 

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Il doppio incarico, che Renzi ha già esercitato nei mille e più giorni del suo primo governo, sta -è vero- nello statuto del Pd, concepito però nel contesto, che è invece cambiato, di un sistema elettorale maggioritario e di coalizioni formate prima del voto, per essere confermate e premiate con un supplemento di seggi parlamentari a chi vince. Un sistema -aggiungo- che Renzi con la riforma costituzionale e la prima versione dell’Italicum, in quello che fu chiamato il “combinato disposto”, voleva rafforzare. A questo infatti miravano la fiducia al governo riservata alla sola Camera, il ridimensionamento del Senato e il premio di maggioranza comunque garantito alla lista più votata: o già al primo turno, con almeno il 40 per cento dei consensi, o al ballottaggio fra le prime due classificate.

Ebbene, questo scenario maggioritario è stato letteralmente spazzato via prima dalla bocciatura referendaria della riforma costituzionale, che ha quindi confermato l’impianto proporzionale -diciamo la verità- della Costituzione approvata alla fine del 1947, e poi dalla sforbiciata della Corte Costituzionale al ballottaggio dell’Italicum, per cui il premio di maggioranza a turno unico col 40 per cento dei voti alla lista più votata è nelle condizioni attuali della politica italiana, e dei suoi partiti, una semplice chimera. Se ne renderanno anche i grillini che spavaldamente vi puntano.

In un sistema elettorale proporzionale verso il quale stiamo tornando- salvo improbabili risvegli maggioritari del Parlamento in via di scadenza modificando, come chiede il capo dello Stato, le due leggi, uscite entrambe dalla sartoria della Consulta, che disciplinano diversamente l’elezione dei deputati e dei senatori- il doppio incarico può essere un intralcio, se non addirittura un elemento ostativo alla formazione di governi di coalizione da negoziare fra il partito più votato e altri disposti ad allearvisi dopo le elezioni.

Nella cosiddetta, lunga prima Repubblica il doppio incarico non a caso fu politicamente fatale ad entrambi e unici segretari del partito più votato, la Dc, che vollero tentarne l’avventura: prima Amintore Fanfani, rovesciato nel 1959, e poi Ciriaco De Mita, rovesciato nel 1989.

 

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Renzi ha detto che nei suoi mille e più giorni del suo governo egli ha strappato all’Unione Europea una certa flessibilità nella gestione dei conti per la garanzia di stabilità che gli derivava dalla guida del partito, il più votato peraltro nella famiglia del Partito Socialista Europeo. Storie, diciamo la verità. Anche perché non sappiamo quale sarà lo scenario politico dell’Europa dopo le elezioni in programma entro un anno in Francia, Olanda, Germania e infine proprio in Italia. Non mi pare proprio che il vento soffi sulle vele della sinistra: tutt’altro, specie se consideriamo gli effetti del trumpismo proveniente dall’Atlantico.

L’ambizioso progetto renziano del doppio incarico dopo le elezioni dovrà fare i conti a destra, o al centro, come preferite, con l’antirenzismo di Silvio Berlusconi seguito alla rottura del famoso Patto del Nazareno, e a sinistra con l’antirenzismo non certo domato dei fuoriusciti dal Pd e dai compagni che li aspettavano per adottare come sigla del loro nuovo partito il rovescio, in tutti i sensi, di quello di Renzi: Dp.

A Berlusconi riuscirebbe forse più digeribile un governo guidato da Paolo Gentiloni, che ne ha difeso le aziende dalla scalata di Vivendi e si accinge a difenderne il ministro Luca Lotti al Senato dall’assalto grilloleghista. Alla sinistra esterna al Pd potrebbe risultare più congeniale un governo guidato, per esempio, dal concorrente di Renzi alla segreteria Andrea Orlando. Di Michele Emiliano neppure parlo, almeno sino a quando non si deciderà a scegliere fra magistratura e politica.

In un sistema elettorale proporzionale il segretario del partito di maggioranza rappresenta e difende l’identità del partito, il presidente del Consiglio provvede a raccordare i rapporti di governo con gli alleati di turno. Renzi, si sa, è portato a forzare e accentrare le cose, ma non gli è andata sempre bene. Direi, anzi, che dopo una partenza a razzo gli è andata abbastanza male.

 

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Che botte di carta a destra !

Intervistato dal Dubbio, il direttore editoriale di Libero Vittorio Feltri è stato forse troppo ottimista nel parlare ancora di Maurizio Belpietro, direttore della Verità, come di un amico e nel prevedere che continueranno a salutarsi come se nulla fosse, o quasi, dopo essersele dette o scritte di tutti i colori in questi giorni. Vittorio accusando Maurizio di avere tra i finanziatori, anzi fra i soci, tramite la Fondazione Magna Magna Carta di Gaetano Quagliariello, quell’Alfredo Romeo arrestato per gli appalti della Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione. Maurizio accusando Vittorio di avere come padrone quell’Antonio Angelucci che usa i suoi giornali per fare affari nel campo della sanità, imprescindibili da buoni rapporti col potere di turno o di luogo, per via delle convenzioni necessarie come il pane alle sue cliniche, laboratori, case per anziani e quant’altro.

Se le polemiche fra i due giornalisti pugnaci della destra si fossero limitate a questo, forse Vittorio potrebbe anche sperare ancora nell’amicizia di Maurizio, professionalmente cresciuto d’altronde alla sua scuola, essendosi l’uno “portato appresso”   l’altro -parola di Vittorio- nei vari giornali che ha diretto o dove ha comandato, da Bergamo a Milano. Sino a quando Maurizio non si è liberato del guinzaglio, per quanto metaforico, e non si è messo a dirigere giornali pure lui, ma compromettendone la sopravvivenza, secondo Vittorio, con perdite di copie che poi lo stesso Vittorio assicura di essere stato chiamato dall’editore di turno a recuperare. E già qui la polemica è salita parecchio di tono, o -come preferite- è scaduta parecchio di stile e di colleganza.

Eppure non è finita. Vittorio ha voluto rimproverare a Maurizio di avere ottenuto dalla famiglia Angelucci, prima che rompessero a causa dei rapporti con Matteo Renzi, tutto quello che si poteva e non poteva: uno stipendio stratosferico mentre i redattori di Libero tiravano la cinghia con i contratti di cosiddetta solidarietà, e un megaprestito di due milioni e ottocentomila euro -più di cinque miliardi, credo, di vecchie lire- per un investimento immobiliare nel centro di Milano, restituendone uno in meno.

Mi fermo qui per rispetto di entrambi, con uno dei quali -Maurizio- mi è anche capitato di collaborare per un po’ al Giornale, donde ero uscito nel lontano 1983 con l’amico Enzo Bettiza per dissenso da Indro Montanelli, che preferendogli addirittura Ciriaco De Mita diffidava di Bettino Craxi: una specie di Matteo Renzi ante-litteram, anche se non vogliono sentirselo dire né Renzi né i figli di Bettino.

La solita baldanza di Renzi

Al solito, Matteo Renzi si è presentato al Lingotto, a Torino, con baldanza. Ha usato il plurale “noi” ma ha continuato a pensare al singolare. Ha, per esempio, ribadito la convinzione di sommare le cariche di segretario del partito e di presidente del Consiglio, nel caso in cui dovesse vincere primarie e congresso per tornare alla guida del Pd. E gli dovesse poi tornare, dopo le elezioni, il pallino del governo con l’incarico di presidente del Consiglio come leader della forza politica più votata. O della coalizione più votata, se si dovesse andare alle urne con una legge elettorale diversa da quella uscita dalla sartoria della Corte Costituzionale dopo la sforbiciata all’Italicum. Che prevede il premio della maggioranza alla lista che dovesse ottenere il 40 per cento dei voti. Diversamente, nessun premio di maggioranza a nessuno.

Ho la sensazione che l’ex presidente del Consiglio non si sia reso ancora conto dei cambiamenti intervenuti nel quadro politico e istituzionale dopo la sconfitta da lui subìta il 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale. E’ un quadro ancora più tripolare di prima, con i grillini che da soli potranno forse prendere anche più voti del Pd abbandonato nel frattempo da una parte della sinistra: quella facente capo a Massimo D’Alema e a Pier Luigi Bersani.

In un sistema elettorale proporzionale, per quanto aggiornato rispetto a quello della cosiddetta prima Repubblica, il segretario del partito di maggioranza relativa può scegliersi gli alleati, concordare un programma ma non imporsi come presidente del Consiglio. Nè a destra, se Silvio Berlusconi non dovesse cambiare idea su di lui dopo la rottura del Patto del Nazareno, né a sinistra, se i fuoriusciti dal Pd non rinunceranno all’antirenzismo che li ha portati alla scissione.

A Renzi, se gli dovesse riuscire di tornare al voltante del Pd, converrebbe forse tenersi di riserva l’opposizione interna che gli è rimasta per usarla sul piano del governo nelle trattative post-elettorali, se deciderà di rivolgersi a sinistra. O Paolo Gentiloni, se dovesse rivolgersi al centro berlusconiano, che ha stabilito col presidente del Consiglio in carica un buon rapporto, come dimostra il rifiuto, comunque motivato, di votare per la sfiducia al ministro Luca Lotti per le indagini targate Consip.

Il fascino un pò scaduto del Lingotto

 

“Ognuno fa il suo mestiere”, ha risposto Vudcuc, come si pronuncia in italiano il complicato cognome inglese del magistrato che indaga a Napoli sulla Consip e dintorni, commentando lo scetticismo ribadito dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi sulle troppe inchieste giudiziarie che in Italia non vanno a sentenze, o vi arrivano male e troppo tardi. Male, perché perdono per strada parecchi indagati, a volte persino tutti. Troppo tardi, perché si fermano al primo o al secondo grado, ma più spesso al primo, per la sopraggiunta prescrizione.

Vudcuc ha pure tentato un sorriso davanti agli operatori televisivi con l’aria di chi sa il fatto suo e non teme niente e nessuno. Com’è d’altronde giusto che faccia un magistrato, il quale peraltro risponde della sua produttività, chiamiamola così, non al primo che gli passa davanti, fosse pure il presidente del Consiglio in carica, ma agli organi di autogoverno delle toghe preposti alla sua carriera. Provate a sostituirvisi e vedetene gli effetti.

Lo si è avvertito, proprio poco prima che Lilli Guber passasse la linea al collega di rete Formigli, nello studio di Otto e mezzo. Dove la pur pugnace Annalisa Chirico, in competizione sul terreno degli scoop giudiziari con Marco Travaglio, in collegamento dal suo Fatto Quotidiano, ha detto di avere paura di parlare di Vudcuc attribuendogli l’abitudine -vedete come sto attento nell’uso delle parole ?- o di denunciarla o di “convocarla”. Che, ad occhio e croce, dovrebbe significare che Vudcuc o l’ha denunciata o l’ha chiamata per qualche indagine almeno come testimone.

Solo la buonanima di Francesco Cossiga, prima nella sua blindatissima posizione di presidente della Repubblica, ed anche del Consiglio Superiore della Magistratura, e poi con la copertura dell’immunità parlamentare spettatagli come senatore di diritto e a vita, potette permettersi il lusso, o il gusto, di parlare con una certa disinibizione di Vudcuc, sotto le cui lenti giudiziarie era finito anche qualche amico o collaboratore del “picconatore”.

 

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Grazie alla diversità dei loro mestieri, Renzi è corso al Lingotto, a Torino, per lanciare o rilanciare la sua nuova candidatura alla segreteria del Pd proprio nel luogo dove il partito nacque, meno di dieci anni fa, e fu battezzato laicamente da Walter Veltroni con un discorso tutto rivolto al futuro e alla cosiddetta vocazione maggioritaria. Che significava volontà di cercare e ottenere il consenso elettorale necessario a governare senza farsi condizionare, ma più spesso paralizzare, da alleati, organici o disorganici che fossero, capaci di gridare, reclamare, minacciare e ottenere in un ordine inversamente proporzionale alla loro consistenza parlamentare.

Di quel modo allucinante di guidare il Paese aveva già fatto le spese Romano Prodi col suo famoso governo dell’Ulivo nel 1998, cadendo dopo poco più di due anni dall’esordio. E ne stava rifacendo le spese in quel 2007 lo stesso Prodi con il governo dell’Unione, edizione aggiornata e non meno sfortunata dell’Ulivo.

Infatti dopo sette mesi circa dalla nascita del Pd il professore emiliano rotolò di nuovo e si portò appresso le Camere, sciolte in anticipo dallo sconsolato presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che giurò a se stesso di non sciogliere più nulla in vita sua, anche a costo di ricorrere nell’autunno del 2011, caduto l’ultimo governo di centrodestra di Silvio Berlusconi, ad uno squadrone di tecnici guidato in loden da un Mario Monti promosso contemporaneamente anche senatore a vita, avendogli Napolitano riconosciuto, a suo insindacabile giudizio, di avere “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, secondo la formulazione dell’articolo 59 della Costituzione.

Escluse -credo di poter dire- performance artistiche o letterarie, Monti si guadagnò evidentemente il ben remunerato laticlavio sul terreno sociale e/o scientifico, negli anni vissuti a Bruxelles come commissario europeo o in quelli ben più numerosi dell’insegnamento universitario.

Della vocazione “maggioritaria” del Lingotto del 2007 è rimasto ormai ben poco. Anzi, non è rimasto nulla. L’irruzione parlamentare dei grillini, la conseguente fine del bipolarismo, sia pure all’italiana, il recupero del sistema proporzionale, con cui sembra che si finirà per votare la prossima volta, condannano ormai i partiti a vocazioni, direi, più minoritarie che maggioritarie. Si torneranno a fare le coalizioni di governo, con i piccoli capaci di condizionare i grandi, dopo le elezioni e non prima.

Ma va detto che lo stesso Veltroni -il mio carissimo amico Walter- diede una bella mazzata alla sua vocazione maggioritaria apparentandosi nel 2008, alle elezioni politiche anticipate, col partito dell’Italia dei Valori, bollati, di Antonio Di Pietro. Che condizionò il Pd all’opposizione, su una linea giustizialista, non meno di quanto non avesse già condizionato nella maggioranza il secondo ed ultimo governo Prodi.

 

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Grazie, dicevo, ai loro diversi mestieri, Renzi è andato a Lingotto per cercare di riconquistare la segreteria del Pd e Vudcuc continua a indagare sulla Consip e dintorni cercando di trovare i riscontri necessari a fare quadrare tutti i sospetti, compresi quelli che hanno già portato ad un lungo interrogatorio, di magistrati napoletani e romani, il papà di Renzi, Tiziano. Che è accusato di traffico di influenze illecite anche perché l’iniziale del suo nome -T- è stata trovata, scritta dall’arrestato Alfredo Romeo, in un pizzino accanto alla cifra di 30 mila euro mensili : un pizzino strappato ma recuperato fra le immondizie e ricomposto dai Carabinieri del nucleo operativo ecologico, prima che il capo della Procura di Roma decidesse di rivolgersi nelle indagini ad altri Carabinieri per fermare le troppe fughe di notizie.

Ora è chiaro che quel pizzino, accompagnato peraltro dalla smentita di Romeo di avere mai incontrato il padre di Renzi, richiede quanto meno di sapere se quella T appartiene davvero al Tiziano di Rignano sull’Arno e se quei soldi gli sono stati dati davvero, o ne fosse stato disposto l’accredito o la consegna. O sbaglio, dottor Vudcuc ?

 

 

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Come Orlando, anche Moro esordì alla Giustizia

Scontata a favore di Matteo Renzi, secondo il pur non entusiasta Stefano Folli su Repubblica, la partita congressuale del Pd, per la quale l’ex segretario si spende oggi nella sede fascinosa ed evocativa del Lingotto, dove dieci anni fa Walter Veltroni tracciò la fisionomia del nuovo partito, è invece “aperta, apertissima” anche per il concorrente Andrea Orlando, secondo Paolo Mieli. Che ne ha scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera in un editoriale affiancato -credo, non casualmente- ad una intervista di Aldo Cazzullo al guardasigilli.

Per quanto divisi sul pronostico, Mieli e Folli, ma si può forse dire anche Corriere e Repubblica, al netto naturalmente della pluralità delle voci nelle due testate, e dentro Repubblica al netto persino degli umori e/o simpatie del fondatore Eugenio Scalfari, sono critici verso Renzi.

In particolare, al giovane di Rignano sull’Arno il buon Mieli rimprovera di essersi candidato alla rielezione a segretario del Pd per spirito di “rivincita”, più che altro: uno spirito al quale egli avrebbe sacrificato non solo l’unità del partito ma anche una più completa disamina della pesante sconfitta, anzi strasconfitta, da lui stesso ammessa nel referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, con tutti gli effetti che ne sono derivati. Fra i quali vanno annoverati anche i punti che il sistema elettorale proporzionale ha guadagnato sul sistema maggioritario, già indebolito di suo con l’arrivo dei grillini in Parlamento nel 2013 e la fine della fase pur tutta particolare del bipolarismo all’italiana, troppo pieno di contraddizioni per realizzare governi davvero stabili.

D’altronde, per restare a Mieli e al giornale da lui diretto per ben due volte, dalle parti di via Solferino, a Milano, Renzi non è mai piaciuto granché, neppure quando era oggettivamente forte con quel 40 per cento dei voti raccolto nelle elezioni del 2014 per il rinnovo del Parlamento europeo, pochi mesi dopo il suo urticante arrivo a Palazzo Chigi: urticante per quel famoso e obiettivamente infelice #staisereno all’amico e collega di partito Enrico Letta. È rimasto altrettanto celebre quel “maleducato di talento” dato all’allora presidente del Consiglio Renzi dal direttore uscente del Corriere Ferrucio de Bortoli, dopo avere avvertito e denunciato odore o sapore massonico attorno al giglio più o meno magico.

Ne’ Renzi riusci’ a sperare in una stabile correzione di linea politica in via Solferino con l’allontanamento di Ferrucio, tornato subito a scrivere editoriali sul più diffuso giornale italiano senza pagare pegno, ciò senza cambiare idea sul “maleducato”, per quanto talentuoso.

Folli, su Repubblica, come Mieli sul Corriere, non è arrivato all’asprezza dei giudizi di stile di de Bortoli, ma ha da poco rivolto a Renzi critiche politicamente non meno dure. Gli ha, per esempio, rimproverato di poter anche contare a ragione di riprendere la guida del Pd, ma isolandolo da quelli che dovrebbero pur essere i suoi interlocutori o alleati post-elettorali per garantire un governo al Paese. E con un partito isolato ci sarebbe ben poco da costruire, per sé e per il Paese.

In effetti, se uno guarda a destra, ammesso che Renzi preferisca questa direzione per governare, con Silvio Berlusconi rimangono problemi, anche se il presidente di Forza Italia, fedele al suo garantismo, e anche a costo di aggiungere altri mattoni al muro della diffidenza e degli sgambetti che lo separa dalla Lega di Matteo Salvini, si è rifiutato di usare contro l’ex presidente del Consiglio l’inchiesta Consip nella quale è coinvolto il padre. E ha praticamente garantito al renzianissimo ministro Luca Lotti di uscire indenne la settimana prossima dalle Idi di marzo promosse al Senato dai grillini con l’aiuto appunto dei leghisti e dei fratelli italiani di Giorgia Meloni.

Berlusconi, in fondo, non ha mai perdonato davvero a Renzi di avere stracciato, secondo lui, il famoso Patto del Nazareno mandando al Quirinale due anni fa, senza averne concordato con lui la candidatura, proprio quel Sergio Mattarella pubblicamente elogiato per la “coerenza” con la quale nel lontano 1990 si era dimesso da ministro del governo di Giulio Andreotti contro la legittimazione delle tre reti televisive del Biscione. Poi, in verità, Berlusconi ha trovato il modo e il tempo di apprezzare il nuovo presidente della Repubblica, ma senza con questo rinunciare al risentimento politico e personale verso Renzi, sino a contrastarne personalmente la riforma costituzionale nella campagna referendaria, resistendo a tutti gli appelli a favore giuntigli dagli amici del Foglio. Del resto, va riconosciuto a Berlusconi il diritto di nutrire qualche preoccupazione di accreditare troppo nella propria area elettorale Renzi, specie dopo che lo hanno lasciato esponenti orgogliosamente provenienti dal Pci come Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani.

            Comunque, più naturale e realistico, secondo Folli, sarebbe un’alleanza o un’intesa di governo dopo le elezioni fra il Pd e la sinistra, visto peraltro che è stato proprio Renzi ad accasarlo nel Partito Socialista Europeo, mostrando più coraggio dei predecessori che pure lo hanno ora abbandonato considerandolo di destra, o quasi.

Ma a sinistra, già inviso prima, Renzi è ancora più indigesto adesso che ha subìto o non ha voluto evitare la scissione, come gli ha contestato, candidandosi alla segreteria contro di lui, l’ex socio di maggioranza Orlando. Il quale sapientemente non ha voluto lasciare il ruolo di minoranza, che deve essere anche di stimolo e di possibile alternativa, ad una personalità così singolare, e così contigua con i grillini, come il governatore pugliese Michele Emiliano: uno che, guarda caso, nel Pd è stato un po’ il solo, o il più rumoroso a cavalcare contro Renzi anche il processo mediatico apertosi, come al solito, con l’esplosione dell’inchiesta giudiziaria di turno, enfatizzata per giunta con il coinvolgimento già ricordato del papà Tiziano e dell’amico Lotti.

Come possa Renzi rimediare da segretario del partito alla incomunicabilità personale con la sinistra, ostativa alla formazione di un governo dopo le elezioni, Folli non lo ha scritto. O non lo ha scritto ancora. Ma è ragionevole supporre ch’egli pensi, sotto traccia, con l’esperienza che ha di analista anche della cosiddetta prima Repubblica, quando simili operazioni erano ordinarie, ad un Renzi disposto, anzi interessato ad investire al meglio l’energia di Orlando, fortunatamente rimastagli dopo la scissione, e da lui stesso incoraggiata a restare nella lunga e convulsa vigilia della convocazione del congresso.

Ai tempi per niente ingloriosi delle elezioni col sistema proporzionale, prima del passaggio non solo al maggioritario, ma anche dalle Procure della Repubblica alla Repubbica delle Procure, che non è decisamente un bel modello repubblicano, i partiti difendevano le loro identità ma perseguivano le necessarie mediazioni per governare rivolgendosi a candidati a Palazzo Chigi adatti a questo scopo.

Fu Aldo Moro nella Dc a coprire questo ruolo, quando fu realizzato il primo governo “organico” di centrosinistra, anzi di centro-sinistra, cioè col trattino. Andrea Orlando, anche se di formazione culturale e politica certamente diversa, somiglia un po’ a Moro per stile e modo di ragionare e di proporsi. Ne ha anche, guarda caso, ripetuto la prima esperienza al Ministero della Giustizia. Dove Moro approdò nel 1955. Poi passò alla Pubblica Istruzione, prima di diventare segretario del partito e infine presidente del Consiglio.

Renzi forse non sbaglierebbe a fare un pensierino su Orlando come mediatore di governo con la sinistra esterna al Pd, anche a costo di deludere Paolo Gentiloni, chiamato dai leghisti Renziloni, come ho sentito seguendo l’altro ieri al Senato il dibattito sui temi europei.

 

Pubblicato su Il Dubbio

Tre ore di ordinaria follia a Roma

 

         Sono stato partecipe involontario di tre ore di ordinaria follia a Roma la sera della cosiddetta festa della donna: cosiddetta perché con me, in quelle tre ore, sono rimaste imbottigliate nel traffico, fra tangenziale, olimpica, lungotevere, Muro Torto, Stazione Termini, Porta Maggiore, San Giovanni, eccetera più donne che uomini. Almeno a vedere all’ingrosso dentro alle auto accanto alle quali mi è capitato di restare bloccato o, una volta riuscito a percorrere qualche decina di metri, ad affrontare la disgrazia di un incrocio o di una rotatoria.

         Non vi dico, se non vi è capitata la stessa disavventura, lo spettacolo nei tunnel, sottovia, sottopassi: chiamateli come volete. Erano budelli di gas tossici ai quali non si poteva materialmente sottrarsi, neppure abbandonando l’auto e proseguendo a piedi.

         Le imprecazioni in tutte le tonalità possibili e immaginabili, interrotte dalle paradossali sirene delle autoambulanze, i cui conducenti avevano la ridicola pretesa di poter essere presi sul serio, erano prevalentemente dirette contro i sindacati per il modo col quale hanno voluto celebrare la festa della donna al rovescio, negandole o complicandole la possibilità di muoversi con uno sciopero dei trasporti pubblici che ha naturalmente moltiplicato il traffico privato.

         I sindacati, piccoli e grandi, e le associazioni più o meno improvvisate che indicono cortei e manifestazioni di protesta o di giubilo, che non sono mancate naturalmente nelle tre ore di ordinaria follia dell’8 marzo romano, sono ormai specialisti nel tafazzismo. Non appena ne avvertono l’occasione, vi si infilano. Non se ne lasciano scappare una. Sono attrattati non dalla popolarità ma dall’opposto. Quanto più riescono a diventare invisi, più si sentano realizzati e godono.

         Al secondo posto nella graduatoria delle imprecazioni si è collocata la sindaca grillina della città, Virginia Raggi, della quale molti invocavano la presenza per gridarle in faccia, come un grido di ritorno, i vaffanculo -scusate la parolaccia- che il suo capo o “garante”, Beppe Grillo, manda abitualmente a tutti e a tutto: anche ai Fori Imperiali quando vi si affaccia dalle finestre dell’albergo capitolino non so a quante stelle, se più o meno delle 5 del suo movimento, dove risiede durante le frequenti ispezioni che dalla sua Liguria viene a fare al Campidoglio e dintorni.

         A me, più modestamente e meno politicamente, è venuta invece solo la voglia, repressa a stento, di gridare il mio vaffanculo -scusate di nuovo- ai vigili urbani: a piedi, in motocicletta, in auto, seduti, in piedi, uomini, donne, froci, giovani, anziani, di mezza età, magri, grassi, insomma di tutte le specie. Ne avessi visto uno, dico uno, a tentare in un incrocio, in una rotonda, ad un semaforo, di dare una mano agli automobilisti in gabbia nelle loro scatole, ormai, di plastica. Qualcuno dei pizzardoni, come una volta si chiamavano simpaticamente i vigili a Roma, stava facendo magari la contravvenzione a qualche auto in sosta vietata, o con l’ora del parcheggio scaduta. Che vergogna!

Le innocue idi di marzo del ministro Luca Lotti

Il D-day del ministro dello sport Luca Lotti, toscano di Empoli, 33 anni da compiere il 20 giugno, già sottosegretario dell’amico Matteo Renzi alla presidenza del Consiglio per mille e più giorni, è stato quindi fissato per mercoledì 15 marzo. Che nell’antica Roma era il primo giorno di primavera. Un giorno quindi festoso, funestato però nel 44 avanti Cristo, e perciò passato tragicamente alla storia, dall’uccisione di Giulio Cesare.

Anche Lotti dovrà andare mercoledì prossimo al Senato, dove i grillini sono riusciti a “calendarizzare” la loro mozione di sfiducia personale per il suo coinvolgimento nelle indagini sugli appalti della Consip. Egli è infatti sospettato di avere passato -in verità non da solo, ma insieme con due generaloni dell’Arma dei Carabinieri- l’informazione giusta ai vertici della centrale degli acquisti della pubblica amministrazione per rimuovere dai loro uffici le microspie fatte installare dalla Procura di Napoli, assistita dai Carabinieri del nucleo operativo ecologico.

A questi ultimi, scelti in particolare dal sostituto procuratore Henry John Woodcoock, Vudcoc per gli ignorantoni, il capo della Procura di Roma, titolare di un troncone di quell’inchiesta, ha poi tolto l’incarico, e la fiducia, per le troppe fughe di notizie, cioè violazioni del segreto, giunte ai giornali. E per la conseguente intossicazione, fra l’altro, del dibattito politico, a cominciare dalle primarie e dal congresso del Pd. Dove il principale aspirante alla carica di segretario è non solo amico di Lotti ma anche, diciamo pure soprattuto, il figlio di Tiziano Renzi, anche lui indagato, ma per il reato di traffico di influenze illecite.

Il padre dell’ex presidente del Consiglio ha invitato gli inquirenti, nelle 4 ore di interrogatorio subìto di recente, di tradurre più semplicemente quel reato, nel suo caso, in “abuso di cognome”: un abuso, però, compiuto non da lui, ma dagli amici che, a sua insaputa, lo hanno speso per procacciarsi appalti, commesse e quant’altro. Si vedrà se gli inquirenti gli crederanno, chiedendo l’archiviazione del caso, o no.

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Diversamente da Cesare, il ben più modesto Lotti da Empoli non correrà al Senato la settimana prossima rischi fisici. I pugnali dei suoi avversari politici sono solo voti per promuoverne la fine o interruzione dell’esperienza ministeriale. E tra i parlamentari della maggioranza che sostiene il governo non si vede il Bruto di turno, visto che il governatore pugliese Michele Emiliano, concorrente pure lui alla segreteria del Pd e convinto che l’amico di Renzi debba dimettersi per “generosità” verso il partito, non è un senatore della Repubblica.

D’altronde il capogruppo piddino a Palazzo Madama, Luigi Zanda, uomo prudente che sa fare i conti in queste circostanze, ha già scommesso pubblicamente sul fatto che la mozione grillina, per quanto votata anche dai leghisti, dalla destra post-fininiana di Giorgia Meloni e da brandelli della sinistra che è riuscita ultimamente a dividersi in ben cinque partiti con la scissione del Pd, sarà respinta “con i soli voti della maggioranza”, al netto quindi dell’aiuto a Lotti già annunciato dai senatori di Forza Italia e altri esponenti di quella che formalmente è l’opposizione.

Ma se questa è la situazione, e questi sono i numeri, perché i grillini e i loro occasionali alleati hanno insistito tanto nell’offensiva contro Lotti e, più in generale, almeno nelle loro intenzioni, contro il governo? E’ chiaro: per motivi di propaganda, di palcoscenico, di teatro, così congeniale d’altronde al capo del movimento 5 Stelle: un grandissimo comico, da audience e incassi eccellenti, prestatosi alla politica per fare ciò che è stato per vent’anni il sogno di qualche magistrato di rivoltare l’Italia come un calzino. La forma dello stivale, del resto, il Paese già ce l’ha di suo, per decisione della natura.

Nel loro assalto alla politica, agli altri partiti, alle “caste”, alle stesse istituzioni, sui cui tetti salgono per protestare la loro diversità e non rimanere intossicati dall’aria che respirano quando sono dentro, non all’aperto, i grillini sono riusciti a conquistare quella che, forse senza esagerare, Angelo Panebianco ha appena definito sul Corriere della Sera una “egemonia culturale”. E ciò purtroppo -ha osservato non a torto l’editorialista del primo giornale italiano, con la complicità di quanti a destra, a sinistra e al centro, compreso -aggiungo io- lo stesso Renzi in tante occasioni che avrebbe potuto risparmiarsi, hanno avuto l’illusione di contrastare i grilli inseguendoli sullo stesso terreno. Eppure è arcinoto che alle copie di solito si preferisce l’originale.

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Va infine detto che, per quanto possa essere importante l’autosufficienza della maggioranza sulla quale ha scommesso il capogruppo del Pd al Senato, con la sfiducia al ministro Lotti tentata da grillini e amici o compagni – che dicono, come nel caso della Lega, di correre loro dietro per provocare la crisi, e con la crisi le elezioni anticipate- il governo in questo D-day di Luca da Empoli non corre nessun rischio.

La sfiducia è “personale” e non si porta appresso il governo di turno. Vi è un precedente che forse i grillini, nella loro abituale improvvisazione, non conoscono. E’ la sfiducia votata proprio al Senato nell’autunno del 1995 contro l’allora ministro della Giustizia e magistrato in pensione Filippo Mancuso, che aveva osato mandare gli ispettori del suo dicastero in quel santuario che era considerato il Tribunale, più in particolare la Procura della Repubblica di Milano. Dove si cercava, come si è già accennato, di rivoltare il Paese con le mani pulite degli inquirenti alle prese con Tangentopoli, come fu chiamato il fenomeno diffusissimo del finanziamento illegale della politica e della corruzione che, secondo l’accusa, lo accompagnava sistematicamente nella presunta consapevolezza dei segretari dei partiti. O almeno di quelli maggiormente presi di mira con una selezione degli obiettivi su cui nessuno ha voluto poi fare accertamenti seri: né giudiziari né politici, visto il fallimento di tutti i tentativi di istituire una commissione d’inchiesta parlamentare.

La legittimità della vicenda Mancuso, intesa come possibilità di sfiduciare un ministro senza coinvolgerne il governo, fu peraltro sancita dalla Corte Costituzionale, alla quale il guardasigilli deposto aveva fatto inutilmente ricorso.

Diffuso in rete da http://www.formiche.net

Belpietro incalza Feltri per gli Angelucci di Libero

Maurizio Belpietro ha reagito con la prontezza e il piglio abituali al rimprovero fattogli dal collega Vittorio Feltri di essere stato finanziato, sia pure inconsapevolmente, anche da Alfredo Romeo – l’imprenditore arrestato per le indagini sugli appalti della Consip- nell’avventura editoriale della Verità. Che è il quotidiano fondato dallo stesso Belpietro l’anno scorso, dopo essere stato clamorosamente allontanato dalla direzione di Libero per una dose di antirenzismo non condivisa dall’editore Antonio Angelucci, deputato del centrodestra e imprenditore del settore ospedaliero: costretto per mestiere, diciamo così, a dipendere dalle convenzioni e, più in generale, dai rapporti con la pubblica amministrazione.

La prima cosa che Belpietro non ha perdonato a Feltri è di avere adoperato la sigla L per firmare il suo attacco, rigorosamente in prima pagina su Libero, dove lo stesso Feltri è tornato -sempre l’anno scorso- per sostituire proprio l’ormai ex amico Maurizio, sia pure con le funzioni di direttore editoriale, meno rischiose del direttore responsabile.

Costretto pertanto a pendersela con “l’Anonimo”, pur avendo cognizione precisa del suo interlocutore, Belpietro ha avuto gioco sin troppo facile a rimproverare a Feltri di non avere letto con la dovuta attenzione le mille e più pagine -pensate un pò- uscite da tempo, legalmente o illegalmente, dagli uffici giudiziari. Fra le quali egli ha trovato notizia dei soldi arrivati alla Verità da Alfredo Romeo tramite una Fondazione culturale individuata dal suo consulente Italo Bocchino, già deputato fedelissimo di Gianfranco Fini.

Se avesse voluto, gli ha praticamente rinfacciato Belpietro, il direttore editoriale di Libero avrebbe potuto trovare anche notizie utili a farsi un’idea precisa del proprio editore, impegnato in un settore -ripeto- in cui non può fare a meno di fare i conti con i governi nazionali o regionali del momento.

La differenza di cui, sotto sotto, ma neppure tanto, Belpietro si è vantato rispetto a Feltri è che alla Verità egli ha potuto dalla mattina alla sera intimare all’amico della Fondazione usata da Adolfo Romeo di uscire dalla combinazione editoriale senza subire danni, data l’esiguità della partecipazione, valutata attorno ai 50 mila euro. Vittorio Feltri a Libero non potrebbe invece fare a meno degli amici Angelucci per lavorare. E soprattutto -aggiungo io, all’età che ha, con la pensione che percepisce e con i soldi che ha potuto mettere da parte in una lunga e ben remunerata carriera- per divertirsi a scrivere ciò che scrive, a volte sfidando anche il conformismo universale., se non vogliano parlare di buon gusto. Come il direttore editoriale di Libero ha fatto di recente con quella storia della “patata bollente” infilata nel suo articolo, e sparata a caratteri di scatola sulla prima pagina del giornale, a proposito dei problemi non tutti politici e amministrativi della sindaca grillina di Roma Virginia Raggi.

Quello sollevato da Belpietro, al netto dei rapporti personali fra lui e il suo peraltro ex direttore, alla cui scuola si è formato, è un problema reale, di cui il nostro Paese è forse tra i ricettacoli maggiori. E’ il problema dei cosiddetti editori impuri. Che fondano o acquistano giornali, ma spesso li chiudono anche, non per guadagnare o campare solo di questi ma per usarli come veicoli sui quali percorrere altre strade, fare altri affari, scalare altre vette.

Ho lavorato anch’io in alcuni di questi giornali. E’ assai difficile trovarne di diversi. Potrei raccontarvi un’infinità di episodi, oltre a quello già riferitovi sul Dubbio della volta in cui Silvio Berlusconi mi telefonò terrorizzato per un attacco di bile e di minacce che Indro Montanelli aveva appena procurato all’allora segretario della Dc con uno dei suoi controcorrente. Non credo tuttavia che noi giornalisti possiamo cercare o sognare l’editore “puro” solo attaccandoci o addirittura insultandoci.

 

Pubblicato su Il Dubbio

La vocale che cerca Marchionne

         Diavolo di un uomo, Sergio Marchionne ha accompagnato l’annuncio del trasferimento della produzione della Panda da Pomigliano in Polonia -per destinare lo stabilimento campano dal 2020 a veicoli di alta gamma, cioè di più importante e complesso livello- con una promessa che ha scatenato la fantasia più pruriginosa.

         In particolare, l’amministratore della FCA ha promesso di aggiungere “una vocale” all’acronimo della sua azienda per renderne la pronuncia più facile, più lineare, com’era una volta la FIAT.

         Intenzione eccellente, ma per vedere l’effetto che fa proviamo ad applicare una qualsiasi delle cinque vocali a disposizione di Marchionne, se non ne troverà o inventerà altre con l’aiuto di Beppe Grillo, che naviga notoriamente fra le stelle.

         Con la vocale A la FCA diventerebbe FACA. Mah, che ne pensate?

         Con la E la FCA diventerebbe FECA. Forse non è il caso, almeno in Italia.

         Con la I la FCA diventerebbe FICA. Sarebbe un botto, almeno in Italia, anche ai fini promozionali, ma anche un po’ troppo imbarazzante o audace, per quanto ormai il linguaggio comune è diventato volgarotto.

         Con la O la FCA diventerebbe FOCA: beh, sarebbe migliore, e più sobria della precedente, ma la parola assomiglierebbe più a un modello che a una marca d’automobile.

         Con la U, infine, la FCA diventerebbe FUCA. Ma è il nome delle note fave lassative: non certamente il massimo per chi vuole acquistare un’auto per viaggiare, e non per andare di corpo. Sarebbe una variante di FECA.

           E poi, quella C diventerebbe rischiosa per la facilità con la quale potrebbe essere scambiata per G. Si leggerebbe FUGA. Il Maurizio Landini di turno potrebbe gridare alla prova della volontà recondita di Marchionne e della sua azienda di voler fuggire dall’Italia. Magari solo per fuggire da lui, lo stesso Landini.

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