Addio Reichlin, grandissimo signore

Debbo ad Alfredo Reichlin, di cui rimpiango la cortesia e la cultura, il mio primo incontro con la vanità.

Erano i primi anni di vita del Giornale fondato e diretto da Indro Montanelli. Quel giorno era uscito uno dei miei primi editoriali, che riguardava i comunisti di Enrico Berlinguer: breve quanto bastava per rimanere tutto in un colonnino e mezzo di prima pagina, perché Montanelli odiava le girate.

Avevo spesso visto alla Camera Alfredo Reichlin ma non ci eravamo mai parlati. Nessuno me lo aveva presentato. Mi sorpresi pertanto quando mi si avvicinò, staccandosi da un gruppo di amici con cui si stava intrattenendo. E pensai che mi volesse fare qualche appunto. Invece voleva solo conoscermi e congratularsi per l’articolo, pur non condividendo buona parte di quello che avevo scritto del segretario del Pci e della sua pretesa di sentirsi sicuro sotto l’ombrello di una Nato di cui però il Pci non voleva il riarmo missilistico imposto dagli SS 20 sovietici puntati anche contro Roma.

Non avevo finito di ringraziarlo della cortesia che Reichlin mi somministrò un’altra dose di vanità dicendomi di avere trovato nei miei ragionamenti la razionalità addirittura del compianto Panfilo Gentile: un anticomunista di cui -mi raccontò- non si era mai perso un articolo fin quando ne aveva scritti.

Non mi montai la testa. Ma Reichlin da allora vi entrò dentro come un grandissimo signore, di cui non mi persi più un pezzo, pur condividendoli di rado.

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