La corsa a Palazzo Chigi per il dopo-elezioni

Sarà per la crescente confusione politica, che rende più rischiosa la postazione di Palazzo Chigi nella prossima legislatura, sarà per tattica congressuale, sarà per i consigli di Eugenio Scalfari, dal quale si lascia indicare anche i libri da leggere, e su cui riferire nell’incontro successivo, come un diligente allievo col professore, Matteo Renzi si è corretto sul problema del doppio incarico di segretario del partito e di presidente del Consiglio.

“Certamente desidero vincere il congresso -ha confessato proprio a Scalfari, che ne ha riferito ai lettori di Repubblica da scrupoloso cronista- ma non è detto che voglia ridiventare presidente del Consiglio. Forse sarebbe meglio che restassi alla guida del partito e della sinistra in Italia, e soprattutto in Europa. Vedrò “.

A parte l’ambizione al solito altissima di guidare la sinistra addirittura in Europa, peraltro mentre in Germania Schulz cerca di contendere davvero il cancellierato alla Merkel, il Renzi di Scalfari non è certamente quello pur recentissimo del Lingotto, a Torino. Che rivendicò il doppio incarico perché “così si fa in Europa”. E che aveva sostenuto, alla vigilia dello stesso Lingotto, di avere a suo tempo ottenuto a Bruxelles maggiore flessibilità nell’esame dei conti italiani per la stabilità politica e istituzionale dell’Italia da lui garantita come presidente del Consiglio e insieme segretario del maggiore partito, peraltro anche della sinistra europea. Cosa, quest’ultima, che spiega forse l’ambizione confessata a Scalfari di guidarla, anche dopo avere subito la scissione che persino il suo amico Graziano Delrio in un fuori onda galeotto gli ha rimproverato di non aver voluto evitare davvero, bastando forse che facesse solo qualche telefonata in più.

Di quel rimprovero poi Delrio ha cercato di scusarsi e farsi perdonare sino ad amplificare l’altro ieri, in una curiosa intervista a Repubblica, il dissenso attribuito da indiscrezioni di stampa a Renzi per i 19 senatori piddini, dei quali 15 attribuibili peraltro all’area renziana del partito, che giovedì scorso hanno votato in modo palese contro la decadenza del forzista Augusto Minzolini, usando della “libertà di coscienza” concessa dal capogruppo Luigi Zanda. E salvandolo dall’applicazione retroattiva della controversa legge Severino, già costata nel 2013 il seggio a Silvio Berlusconi per essere stato condannato tre mesi prima in via definitiva per frode fiscale. Per Minzolini invece la condanna, 17 mesi fa, è stata per peculato alla Rai con l’uso della carta aziendale assegnatagli come direttore del Tg1.

Ma torniamo, dopo questo inciso che pure ha una sua valenza politica, alla questione del doppio incarico di segretario del partito e di presidente del Consiglio, dopo che Renzi non ha escluso di potervi rinunciare. Ciò riapre o rafforza obiettivamente la corsa quanto meno mediatica a Palazzo Chigi per il dopo ritorno dello stesso Renzi alla guida del Pd e soprattutto per il dopo-elezioni.

Tutto dipenderà naturalmente dalle alleanze che nel nuovo Parlamento il Pd sceglierà per garantire un governo al Paese, nel presupposto o nella presunzione che il voto col sistema elettorale proporzionale non farà uscire dalle urne nessun governo o nessuna combinazione precostituita, né a destra né a sinistra, e neppure dalle parti dei grillini, a dispetto della loro speranza di poter vincere e fare tutto da soli, nonostante i problemi che hanno anche loro in casa.

Se per vocazione, come gli addebitano a torto o a ragione gli avversari interni ed esterni, o per necessità Renzi dovesse rivolgersi al centro, spingendosi sino a Berlusconi, il candidato a Palazzo Chigi potrebbe diventare il presidente uscente del Consiglio Paolo Gentiloni. Per il quale i forzisti non hanno certamente nascosto le loro simpatie, apprezzandone lo “stile” diverso dal suo predecessore e la sensibilità “patriottica” mostrata nella difesa di Mediaset dalla scalata borsistica dei francesi di Vivendi.

Se invece Renzi volesse o dovesse cercare i suoi interlocutori di governo a sinistra, l’uomo che potrebbe aiutarlo come candidato a Palazzo Chigi sarebbe il concorrente attuale alla segreteria, e già partecipe della maggioranza interna di partito, Andrea Orlando.

In verità, per un centrosinistra “aperto”, secondo l’aggettivo auspicato da Giuliano Pisapia nella presentazione del suo “Campo progressista”, si era pensato che potesse essere speso per la guida del governo lo stesso ex sindaco di Milano. Ma l’ipotesi era nata nel contesto di una sua presenza, per quanto autonoma, nelle liste elettorali del Pd, offertagli personalmente da Renzi, secondo indiscrezioni sinora non smentite. È però sopraggiunto un incontro fra Pisapia e Pier Luigi Bersani che ha complicato disponibilità o previsioni.

Se ne potrà parlare più concretamente, con tutta evidenza, solo dopo le primarie congressuali del Pd, in base anche alla consistenza della prevista vittoria di Renzi, salvo clamorose sorprese. O dopo le elezioni amministrative di giugno, che saranno un test importante per tante cose.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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