“Questo Paese, per responsabilità diffuse anche della nostra parte politica, ha troppo spesso consentito alle polemiche giudiziarie di sostituirsi alla politica”. Sono parole del ministro dello sport Luca Lotti nell’aula di Palazzo Madama, prima che l’assemblea, condividendo la sua difesa, bocciasse l’altra sera a larghissima maggioranza, con 161 no, 52 si, 2 astensioni e un centinaio di assenze non certo casuali, la mozione di sfiducia “individuale” presentata dai grillini e illustrata con durezza da Taverna, intesa come senatrice del movimento 5 stelle. Secondo la quale sarebbe politicamente imperdonabile per un esponente del governo trovarsi indagato per violazione del segreto d’ufficio, o istruttorio, per quanto negata dall’interessato in un lungo interrogatorio da lui stesso richiesto, non appena informato dell’avviso di garanzia a mezzo stampa, in particolare dal Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. E da chi sennò?
Il passaggio del discorso di Lotti che ho selezionato per voi è brevissimo, ma preciso e abbastanza autocritico, lodevolmente e onestamente autocritico, anche se forse non così esplicito come si aspettava Piero Sansonetti. Che ieri si chiedeva qui, sul Dubbio, cosa aspettasse ancora Matteo Renzi per non ammettere l’errore di avere in qualche modo partecipato nel 2013 al linciaggio politico -parole mie- della ministra della Giustizia dell’allora governo di Enrico Letta, Annamaria Cancellieri. Della quale i giustizialisti di un tanto al chilo avevano reclamato le dimissioni per avere osato telefonare ad un’amica, disgraziatamente – per lei- convivente di Salvatore Ligresti, appena finito agli arresti domiciliari, interessandosi poi delle precarie condizioni di salute e del relativo trattamento di Giulia Ligresti, detenuta. Un interessamento analogo ad altri da lei effettuati al Ministero e passato indenne all’esame di un magistrato insospettabile per severità: l’allora capo della Procura di Torino Gian Carlo Caselli.
Ma il linciaggio, o quasi, della Cancellieri, peraltro prefetto della Repubblica, non è il solo al quale è capitato di partecipare a Renzi nella purtroppo lunga fase del suo garantismo discontinuo, selezionato. Alla Cancellieri hanno poi fatto compagnia, per non andare più indietro di lei, ministri come Nunzia De Girolamo, Maurizio Lupi e Federica Guidi, non trattenuti, anzi incoraggiati alle dimissioni da Renzi, senza che fossero stati neppure scomodati, o non ancora, da un avviso di garanzia.
Il segretario uscente e, credo, rientrante del Pd purtroppo ha avuto il vizietto di inseguire, anziché contrastare, il grillismo sulla strada già pericolosa di suo dell’antipolitica, ma che unita al giustizialismo diventa mortalmente tossica per la democrazia.
Anche nella sfortunata campagna referendaria sulla sua impegnativa riforma costituzionale l’allora presidente del Consiglio, inutilmente trattenuto o addirittura ammonito dagli autorevoli amici Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, decantò l’anno scorso più che la maggiore efficienza voluta per le istituzioni, i minori costi garantiti dalla riduzione del Senato ad un dopolavoro, o quasi, di cento “soltanto” fra consiglieri regionali e sindaci, tutti senza indennità.
Ancora di recente, prima di rassegnarsi, a quanto sembra, all’epilogo ordinario della legislatura, Renzi si è spinto ad auspicare le elezioni anticipate per evitare che i parlamentari di prima nomina maturassero in ottobre il diritto al cosiddetto vitalizio. Neppure i grillini, peraltro tutti di prima nomina in Parlamento, si erano spinti a tanto. A quel punto Napolitano è proprio sbottato con una dichiarazione liquidatrice della questione, attribuendo le elezioni prima della scadenza ordinaria ad un Paese addirittura anormale, pur avendovi dovuto ricorre anche lui, dal Quirinale, nel 2008.
La svolta garantista ravvisabile nell’intervento del ministro Lotti al Senato, dove peraltro il fedelissimo di Renzi, in assenza di Paolo Gentiloni, trattenuto altrove da impegni internazionali, ha potuto parlare dalla postazione del premier, circondato solidalmente da 15 colleghi di governo, in uno scenario quindi che da solo rappresentava l’autorete dei grillini, è stata completata dalla successiva dichiarazione di voto del capogruppo del Pd Luigi Zanda. Che ha posto il problema di riesaminare l’espediente della mozione di sfiducia “individuale”, cui ricorrono sempre più di frequente i giustizialisti di turno proprio per mescolare prevalentemente vicende giudiziarie e politiche. Nei primi quattro dei cinque anni di questa disgraziata legislatura ne sono state presentate e votate, fra Camera e Senato, ben 36, ha rilevato Zanda.
Non contemplata dalla Costituzione, che prevede mozioni di fiducia o sfiducia solo al governo, nella sua collegialità, la mozione “individuale” fu inventata nel 1995 dal Pds-ex Pci, e bislaccamente ammessa dall’allora presidente del Senato Carlo Scognamiglio, forzista dissidente, per deporre il ministro della Giustizia, e magistrato in pensione, Filippo Mancuso. Che tentò inutilmente di resistervi con un ricorso alla Corte Costituzionale respinto con una celerità degna di miglior causa.
La colpa del supergarantista Mancuso, scaricato rapidamente dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che pur ne aveva voluto la nomina a guardasigilli, e dal presidente del Consiglio Lamberto Dini, era stata di avere mandato gli ispettori ministeriali al tribunale di Milano, fra le proteste della locale Procura. Si era gridato alla profanazione di un santuario.
Tra il discorso del ministro Lotti e le dichiarazioni di voto di Zanda è auspicabile che il Pd, rimasto anche dopo la scissione il maggiore partito della sinistra, o “di centrosinistra”, come ha preferito definirlo qualche giorno fa a Porta a Porta il ministro Maurizio Martina, vice segretario unico e in pectore di Renzi una volta tornato al Nazareno, abbia svoltato davvero in direzione garantista, senza lasciarsi più tentare dalla prima, dannata occasione di usare la scorciatoia giudiziaria nella lotta politica. O senza lasciarsi intimidire dai soliti malintenzionati, come sta accadendo mentre scrivo con le proteste dei grillini contro il voto libero “di coscienza”, come lo ha giustamente definito Zanda, espresso da alcuni parlamentari del gruppo a favore del senatore forzista, ed ex direttore del Tg 1, Augusto Minzolini. Di cui la competente giunta di Palazzo Madama aveva chiesto la decadenza da parlamentare, in applicazione retroattiva della famosa e controversa legge Severino, dopo una condanna definitiva per peculato emessa con una sentenza che alla maggioranza del Senato è apparsa fatta apposta per lui, su misura. E quindi rifiutata.
Non si era mai visto, francamente, un peculato per spese di albergo e di ristorante di un direttore di testata della Rai contestato dopo che l’interessato aveva pagato di tasca sua all’azienda le spese contestategli, peraltro contraddittoriamente, dall’amministrazione dell’azienda. E dopo che un giudice, non il suo commercialista o quello della Rai, aveva disposto la restituzione dell’intera cifra al giornalista perché non dovuta.
Questo reclamato dai grillini, e che si spera non sia più scambiato per tale da una sinistra degna del nome che porta, non è uno Stato di diritto ma un mostro.
Se il Pd di cui Renzi sta tentando di riconquistare la guida non dissiperà anche questa occasione e renderà quindi definitiva la svolta garantista, avrà realizzato la più grande e vera riforma di cui ha bisogno l’Italia, restituendo alla politica il primato che le spetta. E al quale tante volte la stessa politica ha rinunciato volontariamente e dannatamente, perché Piero Sansonetti non ha torto quando scrive che i magistrati hanno spesso ottenuto più spazio di quanto non avessero voluto o cercato.
Pubblicato su Il Dubbio
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