Dopo avere subìto una scissione da sinistra, perdendo personalità come Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, è normale che Matteo Renzi abbia voluto coprirsi in quella direzione prenotando la nuova vice segreteria unica del Pd per il ministro Maurizio Martina, proveniente dai Ds, riscoprendo il fascino del termine “compagno” e proiettandosi verso il recupero di un’alleanza di governo di centrosinistra, pur senza “replicare i modelli del passato”.
Questa proiezione verso il centrosinistra, pur in “modelli” nuovi, ha provocato infastidite reazioni fra gli attuali alleati di governo del Pd. “Non li rincorriamo”, ha detto Maurizio Lupi, presidente del gruppo della Camera di un partito che proprio per accorciare le distanze dal Pd aveva messo in cantiere il cambiamento del proprio nome: da Nuovo Centro Destra a non si sa ancora cosa. “Non andiamo col piattino in mano”, ha detto Pier Ferdinando Casini.
Non è neppure casuale, forse, che in coincidenza col raduno renzista svoltosi al Lingotto Silvio Berlusconi abbia in qualche modo frenato sulla strada dello scontro o dei dispetti con la Lega e il suo ambizioso segretario Matteo Salvini, assicurando che l’accordo con lui sul programma di un nuovo centrodestra è fatto “al 90 per cento”. Così egli ha anche preceduto le perplessità, a dir poco, espresse sul Corriere della Sera da Angelo Panebianco su un’alleanza post-elettorale fra il Pd e Forza Italia. Che sarebbe “fra tutte le coalizioni, la più balsana”.
La linea di Renzi al Lingotto collide tuttavia con la riproposizione del doppio incarico di segretario del partito e di presidente del Consiglio. Che, contestata con nettezza dal concorrente Andrea Orlando, sarà pure conforme allo statuto del partito, che infatti il guardasigilli si è impegnato a modificare nel caso pur improbabile in cui dovesse vincere la corsa alla quale partecipa, ma non è più conforme al quadro politico, e persino istituzionale, uscito dal referendum del 4 dicembre scorso.
In una Repubblica rinsaldatasi nella sua fisionomia parlamentare con la bocciatura della riforma targata Renzi, e nella prospettiva ormai inarrestabile di un ritorno al sistema elettorale proporzionale, appare francamente difficile che il segretario del partito di maggioranza relativa, o della minoranza più consistente, possa essere anche il capo di una coalizione di governo da cercare dopo le elezioni. E infatti nella prima cosiddetta Repubblica rigorosamente proporzionale, come si è già ricordato qui, sul Dubbio, gli unici segretari della Dc che vollero il doppio incarico -Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita, a distanza di una trentina d’anni l’uno dall’altro- lo persero rovinosamente.
A dispetto dell’abituale ottimismo ostentato da Renzi anche al Lingotto, si sono già delineate figure politiche più adatte di lui a ricucire sul piano del governo i rapporti con la sinistra appena uscita dal Pd e con le altre che l’aspettavano e costituiscono ormai una vera e propria galassia, comprensiva del “Campo progresssista”. Che è stato presentato nel teatro romano del Brancaccio da Giuliano Pisapia proprio mentre l’ex presidente del Consiglio era riunito a Torino con i suoi.
Di queste figure politiche adatte più di Renzi, per temperamento e per una serie di circostanze a loro favorevoli, a ricucire i rapporti a sinistra a livello di governo, una è stata già indicata qui in Orlando, sino a scandalizzare qualcuno che mi ha dato del “matto” per avere paragonato il giovane guardasigilli spezzino al Moro del 1963 nella Dc, ma ancor più significativamente al Moro del 1957, esordiente al governo come ministro della Giustizia al pari di quanto è accaduto ad Orlando. Che peraltro è in via Arenula già da più di tre anni. Altro che matto! Nel 1957 il povero Moro contava nella Dc meno, ma molto meno anche di quel poco che si vorrebbe oggi attribuire nel Pd ad Orlando.
Ma dopo l’assemblea tenutasi al Brancaccio pure Giuliano Pisapia, alla cui area del resto Renzi intende aprire le liste del Pd, può ben essere visto e indicato come un possibile presidente del Consiglio. Un Pisapia che potrebbe essere persino scambiato per quel “Prodi giovane” auspicato da Pier Luigi Bersani pima che se ne andasse via dal Pd, anche se l’ex sindaco di Milano è “solo” di 10 anni meno anziano del primo presidente del Consiglio dell’Ulivo, e poi dell’Unione. Un Pisapia, ancora, che prima di essere stato un ottimo sindaco a Milano, è stato un altrettanto ottimo presidente della Commissione Giustizia alla Camera. E sarebbe stato un eccellente ministro della Giustizia se i magistrati non avessero fermato Prodi mentre si accingeva a proporne la nomina al presidente della Repubblica. Egli era ed è troppo garantista per i gusti di lor signori in toga.
La prima, fra le figure istituzionali più in vista, ad accorrere accanto a Pisapia nella sua nuova avventura politica è stata la presidente della Camera Laura Boldrini. Potrebbe essere -si mormora nei corridoi di Montecitorio- la prima donna a guidare un governo in Italia, sempre che Renzi metta giudizio.
Pubblicato su Il Dubbio
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