La campagna elettorale scende negli scantinati degli insulti e delle minacce

Come si sta facendo con i marchigiani per proteggerli dopo il tributo di morti già pagato in questi giorni alla rivolta della natura contro gli scempi al territorio, si dovrebbe consigliare ai politici in quest’ultima settimana di campagna elettorale di salire nei piani alti per non affogare tra insulti e insensatezze negli scantinati dove sono finiti a furia di scendere. 

Giorgia Meloni
Michele Emiliano

Penso, per esempio, al sangue e altro ancora che il governatore piddino della Puglia Michele Emiliano, proprio alla vigilia di un comizio di Giorgia Meloni a Bari, si è proposto di fare “sputare” al centrodestra nella sua regione. Dove di sangue ed altro lo stesso Eniliano ne procurerà però anche al suo partito avendo raccomandato il voto pure ai grillini, rimasti nella sua giunta e maggioranza dopo la rottura dei rapporti intervenuti a livello nazionale tra Enrico Letta e Giuseppe Conte. 

Titolo della Stampa

Quest’ultimo, dal canto suo, ha sfidato Matteo Renzi ad affacciarsi al Sud “senza scorta” per provare quanto poco sia gradita la sua presenza in territori dove è molto diffuso il cosiddetto reddito pentastellato di cittadinanza osteggiato dal  cosiddetto terzo polo ancor più del centrodestra. L’ex presidente del Consiglio gli ha immediatamente risposto dandogli del “mezzo uomo”. Ma un consanguineo politico di Renzi, il senatore Matteo (pure lui) Richetti, è alle prese sulle prime pagine dei giornali con una donna che lo accusa di averla importunata sessualmente rimediando la contro-accusa di essere stata lei piuttosto la molestatrice. 

L’editoriale del Fatto Quotidiano

Un altro Matteo ancora, Salvini, si è allenato al raduno odierno della sua Lega sui prati di Pontida facendo concorrenza all’antidraghismo di Conte e del Fatto Quotidiano. Il cui editoriale in edicola annuncia: “Draghi non esiste”. 

Della conferenza stampa del presidente del Consiglio ancora fresca d’inchiostro, diciamo così, per la vasta eco giornalistica che ha avuto con l’allusione ai “pupazzi prezzolati” di Putin anche in Italia, il leader della Lega si è vantato di non avere avuto la curiosità di sentire una parola. Ed ha sbrigativamente replicato, essendosi evidentemente riconosciuto in quella generica allusione, invitando il presidente del Consiglio a cercare “non i pupazzi ma i soldi” -molti di più di quelli stanziati sinora- per proteggere gli italiani dalle bollette della luce e del gas aumentate anche per le reazioni di Putin alle sanzioni, cui partecipiamo pure noi, per la guerra all’Ucraina. 

Ormai al repertorio di Salvini contro Draghi, col quale pure egli era riuscito nei mesi scorsi a concordare una consultazione settimanale che aveva ingelosito Giuseppe Conte nella maggioranza, manca solo una riedizione del “calcio in culo” promesso ad Alcide De Gasperi nelle elezioni del 1948 da Palmiro Togliatti. 

L’intervista di Silvio Berlusconi al Giornale di famiglia

Un ulteriore segnale di insofferenza di Silvio Berlusconi, nel centrodestra, per toni e contenuti di questo scontro progressivo con Draghi è arrivato dall’ennesima intervista dell’ex presidente del Consiglio al direttore del Giornale di famiglia. Il titolo è stato centrato sull’ultima che gli alleati del Cavaliere hanno fatto all’Europarlamento votando contro la risoluzione passata a larga maggioranza per mettere in mora nell’Unione l’Ungheria di Viktor Orban. “La mostra Europa -dice il titolo-  non è quella di Orban”, ormai fuori peraltro dal Partito Popolare del vecchio continente col quale l’ex presidente del Consiglio si è impegnato a vigilare perché il “suo” centrodestra fili dritto lungo la linea dell’europeismo e dell’atlantismo. 

Questo impegno di Berlusconi appare tuttavia contraddetto nell’intervista al Giornale dal passaggio in cui il Cavaliere assicura anche i suoi alleati in Italia che “ognuno di essi è indispensabile”. Indispensabile significa, sino a prova contraria, non poterne fare a meno. 

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Quel no di Draghi ad una conferma che ha forse fatto notizia più del dovuto

Il laconico, secco rifiuto opposto da Mario Draghi a chi gli chiedeva se fosse disponibile ad un secondo mandato a Palazzo Chigi ha fatto sognare quanti sono davvero contrari: a sinistra come il partito di Giuseppe Conte nella sua nuova veste di Masaniello, e il giornale che più ne riflette umori o quant’altro, cioè Il Fatto Quotidiano, e a destra i sostenitori di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini. Che si ritrovano nelle impostazioni, cronache, allusioni di Libero e della Verità diretti, rispettivamente, da Alessandro Sallusti e da Maurizio Belpietro. 

Titolo del Fatto Quotidiano

“Ma niente bis”, ha strillato Il Fatto di Marco Travaglio perdonando a Draghi con quel “ma” la colpa di avere partecipato a suo modo alla campagna elettorale con allusioni a Conte quando ha denunciato la contraddizione fra il compiacimento della controffensiva degli ucraini aggrediti dalla Russia e l’opposizione ad altri aiuti militari a Kiev. Come se fosse stato e fosse ancora possibile agli ucraini difendersi “a mani nude”, ha  osservato il presidente del Consiglio. 

Ci sono state allusioni polemiche di Draghi anche a Giorgia Meloni, solidale con il presidente ungherese e filoputiniano Viktor Orban ormai in rotta di collisione con l’Unione Europea, e richiami espliciti a Salvini sulla delega fiscale. Ma al giornale di Travaglio della Meloni e di Salvini interessa poco o niente, magari condividendone sotto sotto le posizioni contestate invece dal presidente del Consiglio, almeno per la parte riconducibile -nel caso della Meloni- agli interessi di Putin nello scontro in corso, attraverso l’Ucraina, con l’Occidente.

Il titolo di Libero

Il no di Draghi ad un secondo mandato a Palazzo Chigi è piaciuto a Libero perché “disereda Calenda e Renzi”, che ne sostengono, sognano e quant’altro una conferma, immediata o meno, scommettendo su sorprese elettorali o post-elettorali a danno, rispettivamente, dei numeri e della compattezza del centrodestra. E ciò specie dopo l’avvertimento di Silvio Berlusconi agli alleati di non contare sulla partecipazione del suo partito al governo se non saranno sufficientemente europeisti e atlantisti.

Il titolo della Verità

“Un bel siluro al duo Renzi-Calenda”, si è compiaciuta la Verità di Belpietro, che peraltro ancora non ha perdonato a Renzi di avergli fatto perdere a suo tempo, quando era presidente del Consiglio, la direzione di Libero perché schieratosi contro la sua riforma costituzionale nella preparazione del referendum confermativo, che si risolse invece in una bocciatura. 

La conferenza stampa alla Presidenza del Consiglio

Ma è sicuro che quel no ad un secondo mandato a Palazzo Chigi, in risposta ad una domanda specifica, sia stato il dato saliente della conferenza stampa tenuta da Draghi dopo il Consiglio dei Ministri per il nuovo decreto di aiuti a famiglie e imprese colpite dal “carovita”, come lo stesso Draghi ha voluto precisare andando oltre le bollette della luce e del gas? O non ha forse avuto ragione Calenda a dire che la risposta negativa del presidente del Consiglio era più dovuta che autentica, più d’ufficio che altro, visto anche -aggiungo io- l’uso impietoso che si fece, nella corsa  di dicembre e gennaio scorsi al Quirinale, della trasparenza con la quale lo stesso Draghi si rese disponibile alla successione ad un Mattarella allora contrario ad una conferma?

Mattia Feltri sulla prima pagina della Stampa sotto il titolo “Puapazzi gratuiti”
Titolo di Repubblica

Non mi sembrano domande peregrine, che si sono forse posti anche nella redazione di Repubblica, dove hanno preferito titolare in prima pagina non sul no a un secondo mandato ma su quei “pupazzi prezzolati da Mosca” denunciati da Draghi pur dopo l’assicurazione ricevuta personalmente dal Segretario di Stato americano agli esteri sull’assenza di partiti e leader italiani fra i destinatari dei 300 milioni di dollari spesi da Putin in otto anni per arruolare amici e sostenitori in una ventina di paesi. Pupazzi a volte neppure prezzolati, ha osservato sulla Stampa Mattia Feltri chiamando in causa Salvini e precisando di ritenere questa non un’attenuante ma una “terribile aggravante”. 

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La “bomba” di Silvio Berlusconi sugli alleati di centrodestra

Il titolo del Riformista

Non sarà stata la “bomba atomica” enfatizzata con un certo compiacimento dal Riformista, ma è stata certamente una sorpresa quella che Silvio Berlusconi ha riservato a Giorgia Meloni e a Matteo Salvini avvisandoli pubblicamente che il suo partito non entrerà nel nuovo o ne uscirà se non ne sarà chiara la linea europeista e atlantista. Il “padre”, quale egli ha recentemente dichiarato di sentirsi rispetto ai suoi alleati parlandone con un misto di affetto e di fiducia, ha giù riassunto le vesti del partner determinante dell’alleanza, pronto a vanificarne anche la vittoria nelle elezioni del 25 settembre se  i soci si volessero prendere troppa libertà in politica estera.

Ursula von der Leyen

Magari, nel rompere con fratelli d’Italia e leghisti, o solo con gli uni o con gli altri, Berlusconi  potrebbe anche riaprire i giochi -se ne dovessero esistere i numeri- per quella “maggioranza Ursula” che ogni tanto riecheggia nel dibattito politico: Ursula dal nome naturalmente della presidente della Commissione dell’Unione Europea von der Leyen e dallo schieramento che la sostiene nel Parlamento di Strasburgo. Dove leghisti e fratelli d’Italia invece si sono appena ritrovati insieme fra i 123 che hanno difeso l’Ungheria del filoputiniano Viktor Orban dalle accuse di illiberalità dei 433 che hanno chiesto censure e sanzioni alla Commissione esecutiva. 

Berlusconi non se l’è sentita di girare la testa dall’altra parte fingendo di non avere visto, sentito e capito. Non se l’è sentita soprattutto nella contingenza creatasi col sospetto allungato, volenti o nolenti, dagli americani anche su destinazioni italiane -escluse solo “per ora”, secondo il presidente del comitato parlamentare della sicurezza della Repubblica, Adolfo Urso- dei 300 milioni di dollari spesi dalla Russia dal 2014 per procurarsi appoggi politici all’estero. 

Già in difficoltà di suo per i passati rapporti di forte amicizia personale con Putin, tanto da correre da lui nel 2015 in Crimea per compiacersi dell’annessione di quella terra alla Russia, Berlusconi non può comprensibilmente abbassare più la guardia sul terreno dell’atlantismo e dell’europeismo mentre il Cremlino non attenua ma  aumenta l’aggressività esplosa con la guerra all’Ucraina. 

Savini recentemente a Venezia con la fidanzata

Dei due alleati interni del Cavaliere, anche se non mancano ogni tanto allusioni pure a Giorgia Meloni, il più esposto ai sospetti, timori e quant’altro sul materiale a disposizione degli americani, a torto o a ragione è Salvini. Che non a caso è quello che per primo ha minacciato querele a a difesa della onorabilità propria e del partito. Ma Salvini è anche quello – sempre fra i due alleati di centrodestra- con cui Berlusconi è sembrato andare più d’accordo, almeno sino all’altro ieri: tanto d’accordo da essere stato recentemente abbandonato per questo dai ministri ormai ex forzisti del governo Draghi, cioè Mara Carfagna, Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini. 

Titolo del Foglio

Proprio di Salvini si occupa oggi sul Foglio il fondatore Giuliano Ferrara, amico ed ex ministro e consigliere di Berlusconi, in un editoriale che un pò ne alleggerisce la posizione e un pò l’aggrava in una visione disincantata della politica, dove -ha ricordato Ferrara- non sono mai mancati aiuti esteri ai partiti. 

Giuliano Ferrara sul Foglio

“Il Salvini invotabile, pericoloso, spiazzato in modo grottesco dalla storia di questi anni -ha scritto il fondatore del Foglio- non è uno sconosciuto agente del KGB, non è un politico corrotto dai rubli, è il leader che ha scommesso apertamente su un modello insopportabile per il nostro modo di concepire la vita e l’esercizio dei diritti civili in un paese democratico. Il sapore quarantottesco di queste elezioni…..è tutto qui, in uno scandalo che sta altrove da dove lo si vuole ipocritamente vedere. Il puntinismo, che per Berlusconi è un’amicizia personale,….per Meloni una tentazione apparentemente rifiutata, per Salvini….è una seconda, macché una prima pelle”. 

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La rivincita di Draghi alla Camera contro i furbetti al Senato sui superstipendi pubblici

Sono naturalmente anch’io in attesa più  o meno ansiosa di sapere se “l’oro di Mosca” in qualche modo intercettato dai servizi segreti americani, e destinato dal 2024 a partiti di una ventina di paesi, non sia giunto davvero pure in Italia, e a vantaggio di chi in particolare, o non risulti “fino ad ora”. Come è stato precisato negli stessi Stati Uniti da Adolfo Urso, presente oltre Oceano non ho ben capito, francamente, se più in veste di presidente del Copasir -il comitato bicamerale di sicurezza della nostra Repubblica, vigilante sui servizi segreti- o di esponente del partito di Giorgia Meloni. Della quale di recente Il Foglio ha rilevato il non ancora chiaro o completo gradimento -diciamo così- dell’inquilino repubblicano della Casa Bianca come candidata a Palazzo Chigi. Per cui le pur ripetute professioni di atlantismo, di solidarietà e di appoggio all’Ucraina e di condivisione delle sanzioni contro la Russia che l’ha aggredita non basterebbero alla leader della destra italiana per rasserenare le “cancellerie” europee. Dove peraltro non hanno gradito il recente grido della Meloni in piazza, a Milano, contro “la pacchia” della prevalenza degli interessi tedeschi e francesi su quelli italiani a Bruxelles e dintorni. 

Titolo del Dubbio

In attesa -ripeto- di sapere e capire, e non solo di intuire o sperare, che davvero “l’oro di Mosca” non sia arrivato anche in Italia, mi permetto di consolarmi della bizzarra campagna elettorale con la nuova, ultima lezione data da Mario Draghi ai partiti. Ma chissà poi se davvero ultima, mancando ancora nove giorni alle elezioni e ancora di più all’insediamento delle nuove Camere, prima del quale le vecchie potrebbero in teoria riservare ancora al presidente del Consiglio altre occasioni d’intervento critico come quello appena avvenuto contro la deroga tentata dal Senato al tetto degli stipendi pubblici. Che è fissato nei 240 mila euro l’anno assegnati al presidente della Repubblica. 

Mario Draghi

La deroga, passata come una supposta nella conversione in legge di un decreto su aiuti a famiglie e imprese danneggiate dai rincari energetici, avrebbe potuto essere vanificata da Draghi evitando semplicemente di renderla esecutiva con un decreto contemplato dallo stesso provvedimento. Ma il presidente del Consiglio, volendo probabilmente precludere cattive tentazioni al successore ma ancor più -sospetto- volendo dare una lezione, appunto, a partiti troppo disinvolti, ha preferito fare ristabilire alla Camera l’integrità del tetto stipendiale. E  obbligare perciò il Senato nell’ultima settimana di campagna elettorale ad un imprevisto supplemento di lavoro per ratificare l’ulteriore modifica apportata a Montecitorio.

L’irritazione di Draghi per quanto accaduto a Palazzo Madama, lamentato anche dal capo dello Stato definendolo “inopportuno”,  è ancora più apprezzabile per il fatto che ha coinvolto, volente o nolente, il suo pur amico ministro dell’Economia Daniele Franco. Che aveva trovato 25 milioni di euro, pari ad una cinquantina di miliardi delle vecchie lire, tra le pieghe del bilancio per finanziare gli aumenti di retribuzione destinati a generali ed alti burocrati. Delle cui aspettative si era fatto portatore in Senato -secondo un racconto affidato dal parlamentare forzista Marco Perosino alla Stampa e pubblicato nella lontana pagina 15, senza una citazione sia pur minima in prima- il presidente della Commissione Finanze Luciano D’Alfonso, del Pd. “Loro ormai -ha detto Perosino parlando anche dei colleghi di partito di D’Alfonso- rappresentano la burocrazia italiana. Siano rimasti noi a parlare per le classi povere”. 

In deroga tuttavia a questa rappresentanza praticamente esclusiva o prevalente delle “classi povere” assunta dai forzisti, Perosino  aveva firmato l’emendamento originario per derogare al tetto ben alto dei 240 mila euro di Mattarella, nella convinzione confessata che riguardasse quattro o cinque posizioni apicali, come si suol dire, della pubblica amministrazione. E perché mai questa generosità? Per amicizia -ha spiegato Perosino- non verso quelle quattro o cinque persone ma per il presidente della Commissione Finanze, che gli aveva chiesto il piacere di firmare la proposta. 

La vignetta con la quale Il Fatto Quotidiano ha cercato di rovesciare sul governo la responsabilità dell’accaduto al Senato

Qualcosa tuttavia lungo il percorso parlamentare della conversione del decreto non andò poi per il verso giusto perché l’emendamento risultò ritirato. Ma Perosino per primo se l’è infine ritrovato, non più a firma sua ma, più genericamente, delle “commissioni riunite”, in un elenco di modifiche elaborato in extremis, secondo lui, neppure dal povero ministro Franco strapazzato -temo- da Draghi, ma da “funzionari” convinti che la furbata passasse inosservata nel bailamme della fine di legislatura. Invece se ne sono accorti, fra gli altri, Mattarella e Draghi, sorpresi -a dir poco- anche dalla sostanziale unanimità dell’approvazione, fra voti favorevoli e astensioni. 

Per quanto curiosamente contenuta dall’informazione, questa brutta vicenda temo che non sfuggirà all’area del cosiddetto astensionismo, già saldamente in testa alla graduatoria dei partiti. 

Pubblicato sul Dubbio

Lo schiaffo di Draghi ai partiti per difendere il tetto alle retribuzioni pubbliche

Adolfo Urso negli Stati Uniti
Titolo del Corriere della Sera

Che vergogna! Ma non lo “scontro sui soldi da Mosca” con cui anche il Corriere della Sera ha ritenuto di aprire oggi riferendo delle polemiche sulle anticipazioni dei servizi segreti americani circa finanziamenti russi in corso dal 2014 a partiti di una ventina di paesi. Fra i quali non è compresa l’Italia almeno “per ora”, come ha voluto precisare il presidente del Copasir  -Comitato bicamerale per la sicurezza della Repubblica- casualmente in visita proprio in questi giorni negli Stati Uniti: Adolfo Urso, del partito di Giorgia Meloni. 

Titolo del Quotidiano del Sud

No. La vergogna, almeno per oggi, la vedo piuttosto nei giornaloni- chiamiamoli così- che hanno generalmente ignorato nelle loro prime pagine un evento più certo del cosiddetto “oro di Mosca”, come lo ha definito Il Quotidiano del Sud. E’ lo schiaffo, virtuale  ma ugualmente clamoroso, dato dal presidente del Consiglio uscente Mario Draghi ai partiti. Che tutti -proprio tutti, fra voti favorevoli e astensioni-avevano inserito al Senato come una supposta la costosissima deroga al tetto degli stipendi pubblici, per 25 milioni di euro in via immediata, nella conversione in legge di un decreto di aiuti alle famiglie e imprese danneggiate dalle bollette più care di luce e gas. 

Draghi, che avrebbe potuto limitarsi a non rendere esecutiva questa deroga rinunciando al decreto attuativo previsto dalla norma, ha opposto alla Camera un emendamento soppressivo che obbligherà il Senato nella prossima settimana a riunirsi daccapo , nonostante già congedato di fatto dalla presidente Maria Elisabetta Casellati, per ratificare l’abolizione. 

Titolo del Riformista

Non si sa bene quanti, fa generali e alti burocrati dello Stato, dovranno quindi rinunciare al sogno accarezzato per qualche ora di prendere  più dei 240 mila euro l’anno assegnati al Capo dello Stato. “Il tetto che scotta- Sull’aumento ai generali è duello tra i partiti e Draghi”, ha titolato in prima pagina, da solo e correttamente, il non giornalone Riformista, diretto da Piero Sansonetti. 

Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

Rovesciato è invece il quadro rappresentato  ai lettori dal Fatto Quotidiano. Che, sempre in prima pagina, ha parlato di “rapina dei Migliori”, intesi come “Draghi &C”, tentata al Senato e fatta rientrare alla Camera dal presidente della Repubblica Mattarella dopo avere definito “inopportuna” la deroga.  

Il senatore e presidente della Commissione Finanze Luciano D’Alfonso, del Pd
Il senatore Marco Perosino, di Forza Italia

La storia di questa deroga è stata raccontata alla Stampa, che l’ha relegata però a pagina 15 senza alcun richiamo in prima, dal senatore berlusconiano Marco Perosino. Al quale in commissione Finanze, sempre al Senato, il presidente piddino Luciano D’Alfonso aveva chiesto a suo tempo “la cortesia amichevole” di firmare un emendamento che doveva interessare i quel momento non più di quattro o cinque persone dell’alta burocrazia. Nel proseguimento del cammino parlamentare l’emendamento risultò ritirato, salvo ricomparire all’ultimo momento a firma di “commissioni riunite” in un elenco di norme coperte da tanto di stanziamenti finanziari elaborati dal Ministero dell’Economia. E fu approvato all’unanimità, fra voti favorevoli e astensioni. La “manina”, o manona, che l’aveva fatta ricomparire in forma ancora più ampia non è stata, secondo Perosino, neppure del ministro Daniele Franco in persona, col  quale se l’è presa il pur amico ed estimatore presidente del Consiglio, ma di “funzionari statali”  interessati, o complici, e convinti che “non se ne accorgesse nessuno” nel bailamme della fine della legislatura. 

Il senatore Perosino alla Stampa, pagina 15

Di questi “funzionari” è ravvisabile, secondo il senatore Perosino, la copertura politica di “tutto il Pd”, che “sapeva ed era d’accordo”, come dalla richiesta originaria di D’Alfonso all’amico forzista di firmare l’emendamento. “Loro ormai rappresentano la burocrazia italiana”, ha detto Perosino parlando dei parlamentari del partito di Enrico Letta e precisando di essersi inconsapevolmente, ma per fortuna, trovato nell’elenco dei risultati delle votazioni fra gli “astenuti”, e non tra i favorevoli del tutto. 

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I veleni nella coda della legislatura interrotta con la crisi del governo Draghi

Il veleno nella coda della diciottesima legislatura interrotta dalla crisi del governo di Mario Draghi non è quello della conversione in legge del decreto sugli aiuti a famiglie e imprese danneggiate dai rincari dell’energia ritardata al Senato dai grillini. Conversione sbloccata all’ultimo momento in una situazione così confusa che è passata tra le maglie del provvedimento una spuria deroga al tetto stipendiale dell’alta burocrazia sulla quale Draghi è praticamente sbottato anche contro il fedelissimo e stimatissimo ministro dell’Economia Daniele Franco. Il quale aveva trovato la necessaria copertura alla norma introdotta tra voti favorevoli e astensioni di praticamente tutti i partiti lasciatisi evidentemente convincere, a livello di esperti, da qualche furbacchione della pubblica amministrazione interessato a guadagnare più di 240 mila euro l’anno. 

Sta ora arrivando -tra la prossima e ultima settimana della campagna elettorale e quelle successive ma a Camere nuove non ancora insediate- un altro decreto interministeriale, il quinto della serie, sugli aiuti militari italiani all’Ucraina aggredita dalla Russia. 

Titolo del Fatto Quotidiano

Il più sensibile -o suscettibile, come preferite- al problema si è mostrato Il Fatto Quotidiano aprendovi la prima pagina in una chiave ostile analoga alla posizione assunta dal partito di Giuseppe Conte. Del quale il giornale diretto da Marco Travaglio non gradisce sentirsi definire “l’organo ufficiale”, come ha appena fatto il segretario del Pd procurandosi l’annuncio o la minaccia di una querela, ma casualmente -diciamo così- condivide spesso la linea. O a volte riesce persino ad anticiparla, com’è accaduto col rifiuto dei pentastellati di concedere l’ultimo dei 56 voti di fiducia chiesti in Parlamento da Draghi in circa un anno e mezzo di governo. 

Adolfo Urso

Tuttavia su questo passaggio delle armi all’Ucraina, ed anche dell’addestramento di militari di quel paese, Draghi non avrà certo da sbottare col ministro della Difesa Lorenzo Guerini, convinto come lui della necessità del sostegno appena confermato in una conversazione telefonica dal presidente del Consiglio al suo omologo a Kiev,  Volodymir Zelensky. Nè avrà da temere agguati nell’unica sede parlamentare dove potrebbero tentarne i pentastellati, che è il Copasir, cioè il comitato parlamentare di sicurezza della Repubblica abilitato ad esprimere un parere. Esso è presieduto per legge da un esponente dell’opposizione: in questo caso Adolfo Urso, del partito di Giorgia Meloni. Che però in materia di politica estera, e in particolare di guerra in Ucraina, è non schierato ma schieratissimo con Draghi. Casualmente è proprio Urso che si è appena recato in Ucraina a confermare, pure lui, gli impegni italiani ed è negli Stati Uniti per incontri di informazione con esponenti del governo americano.

In questa situazione che potremmo definire politicamente blindata per Draghi il veleno dell’azione di contrasto può ritorcersi solo contro Conte. Che senza nessun imbarazzo, nell’ennesima rappresentazione camaleontica della sua politica rimproveragli dagli avversari, si è detto “orgoglioso” della resistenza degli ucraini impegnati proprio in questi giorni in una controffensiva cocente per gli invasori russi, ma contrario ad ulteriori aiuti da un’Italia, secondo lui, ormai in recessione economica. 

Lucio Caracciolo al Riformista

Anche il non certamente grillino Lucio Caracciolo, un giornalista e docente esperto di geopolitica, ha convenuto in una intervista al Riformista che “l’Italia può reggere a fatica il prolungamento della guerra” in qualche modo insito proprio nella riuscita della controffensiva ucraina. “Il razionamento dell’energia, il prezzo del carburante, l’inflazione e l’instabilità dell’eurozona sono pesanti. La tenuta sociale è a rischio”, ha osservato Caracciolo. Che però, diversamente da Conte, non per questo ha auspicato la fine degli aiuti agli ucraini. Occorre piuttosto “cambiare il sistema informativo per preparare l’opinione pubblica a mesi futuri di sacrificio”, necessari per convincere Putin con le buone o le cattive ad una soluzione diplomatica della guerra da lui sconsideratamente aperta a febbraio nella convinzione di vincerla in un paio di settimane. L’inverno, a questo punto, è pericoloso pure per lui e non solo per Zelensky, per i russi e non solo per gli occidentali, anche se i russi vi sono più abituati. 

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I novanta minuti della partita fra Enrico Letta e Giorgia Meloni

Titolo del Corriere della Sera

Non so se avete assistito ai 90 minuti di gioco televisivo, anzi di “sfida”, tra Enrico Letta e Giorgia Meloni, come l’ha definita il Corriere della Sera che ha ospitato la strana coppia di questa campagna elettorale. 

Le schermaglie precedenti, a distanza, avevano fatto temere troppa animosità, soprattutto per talune scivolate del segretario del Pd con l’uso della cipria pur metaforica contestato alla Meloni e con quell’”allarme” lanciato per la democrazia minacciata dalla riforma presidenzialista della Costituzione che si è prefissa  un centrodestra tanto in vantaggio ormai da potersela approvare da sola nel nuovo Parlamento. E senza neppure il passaggio della verifica referendaria prevista solo per le modifiche costituzionali apportate dalle Camere con una maggioranza inferiore ai due terzi. 

Titolo di Domani
Titolo della Stampa

Enrico Letta favorito dal temperamento e Giorgia Meloni dal fatto che uno studio televisivo non è una piazza, dalla quale lei si lascia spesso trascinare troppo, come in un’ansia da prestazione, hanno giocato una buona partita, per entrambi. Propendo personalmente più per il pareggio -“un pari senza squilli”- proposto sulla Stampa da Massimiliano Panarari che per la sconfitta di Letta annunciata su Domani dal direttore Stefano Feltri, convinto come il suo editore Carlo De Benedetti che il segretario del Pd abbia sbagliato tutto sin dalla preparazione della campagna elettorale: E si sia condannato a perdere miserevolmente. 

L’errore che si imputa ad Enrico Letta è di avere allestito un polo per niente “competitivo” con quello del centrodestra perché privo dell’apporto del “partito di Conte”, come Luigi Di Maio definisce ciò che è rimasto del MoVimento 5 Stelle spiegando così anche le ragioni della sua scissione. Ma, a parte il fatto che i dieci, diciamo pure quindici punti percentuali generosamente attribuiti dai sondaggi a Conte in versione Masaniello non sarebbero sufficienti a rovesciare le prospettive elettorali, tanto è il vantaggio ormai acquisito dal centrodestra, perché mai dovrebbe essere considerato un errore il rifiuto di Letta di allestire un’alleanza “solo elettorale”, come raccomandato proprio dall’editore di Domani? In realtà scombinata e inadatta a governare, ma anche a fare opposizione nella prospettiva di una successiva vittoria. 

La sfida televisiva tra Letta e Meloni gestita dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana

Anche il centrodestra -si dirà- è scombinato, con quella ossessione che la Meloni ha di Salvini e viceversa, e con Silvio Berlusconi che si propone di tenerli insieme come un padre. Ma chi ha detto che un bipolarismo scombinato in entrambe le sue componenti sia una buona soluzione dopo le prove date dalla cosiddetta seconda e terza Repubblica del bipolarismo targato Berlusconi e Prodi? Enrico Letta ha preferito perdere, pur fingendo di sperare in chissà quale recupero fra gli indecisi, e predisporre il suo partito ad un passaggio di opposizione piuttosto che condannarlo, nella migliore delle ipotesi, ad altre esperienze di governi tecnici, per quanto l’ultimo abbia avuto la fortuna di essere guidato da una persona autorevole come Mario Draghi, e di maggioranze di unità nazionale – diciamo la verità- per modo di dire. Che non hanno retto neppure -ripeto- con Draghi, cui è stato praticamente impedito persino di portare a termine una legislatura vicina, anzi vicinissima alla sua conclusione ordinaria e attraversata da emergenze come la guerra in Ucraina, la crisi energetica e una pandemia sempre in agguato. 

In questa logica di chiarezza credo sia condivisibile anche l’impegno che Enrico Letta e Giorgia Meloni hanno assunto nella loro “sfida” televisiva di non ritrovarsi insieme in un governo dopo le elezioni. Se poi questa scelta di chiarezza costerà a Letta la segreteria del partito, dove già si vedono e si sentono preparativi di resa dei conti, si vedrà. E sarà naturalmente un altro discorso. 

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La pacchia anti-Ue che Giorgia Meloni poteva risparmiarsi

Titolo del Dubbio

Quella “pacchia” gridata da Giorgia Meloni a Milano, in Piazza del Duomo, contro l’Unione Europea -dove i tedeschi farebbero ancora contare troppo i loro interessi, e noi italiani troppo poco i nostri, anche avendo avuto negli ultimi tempi un governo presieduto da un uomo autorevole come Mario Draghi- ha forse avuto un’amplificazione mediatica troppo negativa. E per niente in buona fede, essendo giunta da giornali che avevano appena riportato, mostrando di condividerle, le doglianze del presidente della Repubblica per i ritardi europei, appunto, nel contrasto alla crisi energetica aggravatasi con la guerra in Ucraina. 

Eppure quel grido della candidata  del centrodestra a Palazzo Chigi ormai in netto vantaggio nella corsa alla vittoria elettorale del 25 settembre è stato ugualmente un errore. E’ stata una brutta scivolata del piede sul pedale della frizione, diciamo così. Sarebbe bastato che con la dovuta accortezza, per non muoversi come un elefante in un deposito di cristallerie, che la leader della destra italiana si fosse richiamata proprio ai concetti e ai moniti espressi dal capo dello Stato. D’altronde Sergio Mattarella è anche il “suo” presidente della Repubblica, pur avendo lei preferito non votarne la conferma e protestato per il sì, invece, degli alleati di centrodestra. Non parliamo poi dell’inizio di questa fortunatamente esaurita legislatura, quando anche lei- come un Luigi Di Maio qualsiasi- voleva mandare Mattarella davanti alla Corte Costituzionale, per alto tradimento, avendo negato a Giuseppe Conte la nomina di un Paola Savona considerato troppo euroscettico a ministro dell’Economia. Eppure da quel governo il partito della Meloni era stato escluso prima che si dichiarasse orgogliosamente all’opposizione.

Sergio Mattarella

Ormai quella è acqua passata, dimostrata dai due incontri avuti il mese scorso dalla Meloni proprio col presidente della Repubblica per non parlare certo di bagni e fiori: incontri rivelati dal Fatto Quotidiano persino con pesanti allusioni a “inciuci” post-elettorali e non smentiti da un Quirinale pur attentissimo e forse persino permaloso in questi tempi. Ricordo solo la ruvida smentita rimediata dal buon Marzio Breda, del Corriere della Sera, per avere raccolto -presumo- sullo stesso Colle o dintorni spifferi, chiamiamoli così, sulle reazioni “stupite” di Mattarella all’ipotesi di un ‘automatico” conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio alla Meloni in caso di vittoria del centrodestra nel rinnovo delle Camere. 

Matteo Salvini

Il guaio per l’oratrice di Piazza del Duomo a Milano e, più in generale, per la coalizione ormai a sua trazione, come si disse di Matteo Salvini dopo le elezioni del 2018, contrassegnate dal sorpasso della Lega su Forza Italia di Silvio Berlusconi; il guaio, dicevo, per la Meloni è che la vivacità – a dir poco- delle sue sortite sui rapporti con l’Unione Europea, o solo sulla interpretazione dello stato di questi rapporti, appartiene al contesto di una gara che non sembra mai finita fra lei e Salvini sulla strada di Palazzo Chigi. Eppure -Dio mio- il sorpasso dell’una sull’altro può ben essere ormai ritenuto consolidato, per cui non occorrono francamente altri sforzi, altri strappi senza aumentare la confusione e alimentare un clima di precarietà capace di proiettarsi negativamente sulla stabilità e persino credibilità della maggioranza destinata a uscire dalle urne. 

Non vi è paura che tenga, per esempio, del raduno leghista di domenica prossima a Pontida, o di qualche altra visita e telefonata di Salvini a Berlusconi, con o senza l’appendice velenosa di un proposito di ridimensionamento della scomoda alleata dopo il responso elettorale, a poter giustificare errori come quello compiuto dalla Meloni a Milano. 

Del resto, anche comprendendone paure -ripeto- ed altri disagi, a Giorgia Meloni dovrebbe bastare e avanzare la difesa che ne fanno gli amici di partito, a cominciare dal più grosso e scaltro che mi sembra essere Guido Crosetto. Del quale mi permetto di sospettare, anche a costo di smentita e di amichevole scappellotto, con quelle mani così grandi, che abbia di Salvini nel rapporto con la Meloni, pur con tutte le differenze fisiche fra i due uomini, la stessa opinione appena espressa su Enrico Letta in una intervista alla Stampa: “E’ una maschera con gli occhi di tigre. Anche mia moglie ha un barboncino toy, ma è difficile spacciarlo per rottweiler”. 

Qui ormai la rottweiler nei riguardi di Salvini, contando i voti passati in questi anni dall’uno all’altra, è proprio la Meloni. E non vi è papà politico che, trattandoli da “figli”, come si è proposto di fare Berlusconi, possa cambiare la situazione.  

Pubblicato sul Dubbio

Gli ….scherzi a parte della campagna elettorale a 13 giorni dal voto

Beh, ironia a parte, Emilio Giannelli si è ispirato alla cronaca più ancora che alla sua fantasia rappresentando nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera di oggi Matteo Salvini ed Enrico Letta seduti ai punti opposti della solita panchina dei giardinetti politici entrambi rinfrancati, con giornale in mano, dal divieto dei sondaggi. Che in questa campagna elettorale hanno segnato la loro progressiva sconfitta: l’uno all’interno del centrodestra pur vincente per le distanze quasi siderali che lo separano, nella corsa a Palazzo Chigi, da Giorgia Meloni e l’altro all’interno e all’esterno del centrosinistra perdente per l’obiettivo ormai mancato di portare il Pd almeno in testa alla classifica dei partiti presi singolarmente. 

Titolo di Libero
Enrico Letta a corto di energia

Tutto ha miseramente o allegramente congiurato -secondo i gusti- contro il segretario piddino, lasciato per strada persino dal bus elettrico al quale aveva affidato i passaggi salienti del suo viaggio elettorale. Benedett’uomo. Viene quasi la voglia di consolarlo pedonalmente e di augurargli quanto meno di potersi sottrarre alla minaccia di Giuseppe Conte di reclamarne la testa per ristabilire col Pd qualche rapporto stando insieme all’opposizione nella nuova legislatura. Al Nazareno sono sempre più numerosi ed evidenti quelli che non aspettano altro per la solita resa finale dei conti, al plurale. 

Titolo di Reopubblica

A proposito di Salvini, e della sua sfortunata campagna elettorale nel fronte -ripeto- pur considerato ormai vincente, c’è da lettori o elettori l’imbarazzo di scegliere fra due rappresentazioni mediatiche dei guai in cui egli si trova a furia di cercare di procurarne alla concorrente Meloni tra i soliti abbracci ad uso e consumo dei fotografi. Riferendo di un incontro avuto da solo con Berlusconi ad Arcore, la Repubblica ha attribuito al capo della Lega, con tanto di titolo virgolettato, questa richiesta, raccomandazione o altro ancora nei riguardi della Meloni: “Dopo il 25 Giorgia va contenuta”. E a contenerla dovrebbe essere proprio Berlusconi da “padre” politico di entrambi, come lo stesso Cavaliere ama ormai proporsi sapendo comunque che dei due figli, sempre politici, è la femmina questa volta ad avere più carte per la partita di Palazzo Chigi. 

Dall’interno del Foglio
Dalla prima pagina del Foglio

Di lettura più lunga, ed anche saporita, è invece la storia di copertina dedicata nell’edizione riflessiva del Foglio di lunedì alla “fregatura” alla fine rifilata da Giorgia Meloni ad un Matteo Salvini che dall’ormai lontano 2016 aveva pensato di averla sottomessa all’interno del centrodestra. “Giorgia che fregò Matteo”, é il titolo appunto di prima pagina. All’interno se ne possono leggere altri come “Meloni s’infilò le scarpe di Salvini”, ma soprattutto rivelazioni -se non saranno smentite dagli interessati- di trancianti giudizi espressi dalla leader della destra nei riguardi del suo alleato parlandone, per esempio, con Enrico Letta. Al quale, sospettando chissà quale “piano segreto”  del leader leghista  durante la convulsa edizione ultima della corsa al Quirinale, la Meloni disse: “Quello un piano non ce l’ha mai”. 

Ezio Mauro sulla prima pagina di Repubblica

A commento non del tutto ingiustificato della campagna elettorale nel centrodestra, ormai lanciato verso il successo per la mancata competitività degli avversari, Ezio Mauro si è chiesto oggi sulla prima pagina di Repubblica: “Si può andare al governo divisi sulla questione più rilevante del momento, vale a dire la guerra dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la contesa tra il Cremlino e l’Occidente, la risposta dell’Unione Europea con le sanzioni a Mosca, gli aiuti dell’Italia alla resistenza di Kiev?”: una resistenza peraltro che si sta rivelando di successo. “Incredibilmente, si può”, si è risposto da solo l’ex direttore di Repubblica. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Ah, gli svarioni anche di Calenda, e di Renzi, in questa campagna elettorale

Antonio Polito ieri sul Corriere della Sera

Onore al merito di una polemica giornalistica che è riuscita, una volta tanto, e per giunta in campagna elettorale, a cogliere in fallo un politico e a costringerlo ad una retromarcia, o a qualcosa che in un certo modo le assomiglia. E’ il caso di Antonio Polito, che sul Corriere della Sera di ieri aveva denunciato il contributo appena dato da Carlo Calenda a quello “scetticismo programmatico su qualsiasi proposta, col dileggio che ne deriva per un sistema parlamentare ritenuto ormai incapace di fare alcunché”. E senza rendersi conto -aveva avvertito l’editorialista, peraltro ex parlamentare- che “alla fine l’impotenza della politica rischia di travolgere anche chi la denuncia”.

Antonio Polito

        Lo “scetticismo” di Calenda contestato da Polito era quello espresso sulla riforma presidenzialista della Costituzione proposta da Giorgia Meloni. Che avrebbe minori possibilità di riuscita di un viaggio dello stesso Calenda verso Marte. In questa prospettiva il ricorso all’ennesima commissione bicamerale prospettata dalla Meloni per coinvolgere il maggior numero possibile di forze politiche, al di là dei confini fra maggioranza e opposizioni, sulla strada di una modifica così importante del sistema istituzionale, sarebbe una soluzione “buona” sì, ma “purtroppo” inutile. 

Eh no, aveva obiettato Polito. Questo lo lasci dire Calenda a noi giornalisti. Se la soluzione è buona, lui come politico deve impegnarsi a favorirla. Se “purtroppo” è inutile, lui deve impegnarsi a non far perdere tempo, e quindi a contrastarla. 

Dal Corriere della Sera di oggi

Hai ragione, ha replicato Calenda tuittando. La soluzione è buona e merita un impegno a favorirne il percorso se mai si dovesse riuscire a imboccarlo. E io lo assumo, ha aggiunto il leader del cosiddetto terzo polo. Che ha anche avvertito il dovere di dare “una spiegazione” al suo scetticismo. Essa starebbe nella convinzione che la Meloni ed Enrico Letta si stiano scontrando sulla riforma presidenzialista -peraltro condivisa negli anni passati, aggiungo io, anche da esponenti almeno allora autorevoli del Pd e della sinistra più in generale, come Massimo D’Alema al vertice proprio di una commissione bicamerale- per “polarizzare” la campagna elettorale attorno a loro, e non di più. 

La vignetta di Riccardo Mannelli sul Fatto Quotidiano

Non mi sembra, in verità, una grandissima o soltanto grande spiegazione, perché se il centrodestra dovesse davvero vincere, anzi stravincere le elezioni, come da sondaggi pur adesso preclusi alla diffusione, non si potrebbe ragionevolmente prevedere la rinuncia della Meloni e dei suoi alleati a tentare la riforma con la forza di cui disporrebbero in Parlamento. Dove addirittura  potrebbero sfuggire anche alla verifica referendaria prevista dalla Costituzione solo se le modifiche dovessero essere apportate con una maggioranza soltanto assoluta, inferiore ai due terzi di ciascuna delle due Camere. Ma accontentiamoci del riconoscimento almeno avvertito di un dovere di “spiegazione” per non unirci del tutto al sarcasmo della vignetta dedicata in prima pagina proprio ad un Calenda scomposto, a dir poco, da Riccardo Mannelli sul Fatto Quotidiano. Una vignetta che temo invece meritata per il contributo che Calenda ha improvvisamente deciso di dare ad una campagna sostenuta anche dal giornale di Marco Travaglio, nella solita assonanza con i grillini, per un cosiddetto sforamento ulteriore del bilancio per finanziare i soccorsi a famiglie e imprese colpite dal caro-bollette di luce e gas. 

Per uno come Calenda e il suo alleato Matteo Renzi, orgogliosamente fedeli all’”agenda”, “metodo” e quant’altro di Mario Draghi, che non intende finanziare questi soccorsi aumentando il debito pubblico, specie ora che il suo governo è di sola transizione verso il nuovo destinato ad uscire dalle urne, questo cambiamento di posizione  impone spiegazioni possibilmente migliori di quelle appena fornite a Polito sulla commissione bicamerale “purtroppo” inutile. O no?

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