La carica -si fa per dire- di 6000 candidati a 600 seggi parlamentari

I principali partiti concorrenti

Sulla carta, molto sulla carta, di cui in fondo sono fatte le schede distribuite nelle 61.500 sezioni in cui si vota per il rinnovo anticipato delle Camere, ci sono circa 6.000 candidati a 600 seggi. Ma chi riuscirà o vorrà andare alle urne entro le 23 di questa sera fra i 51 milioni circa degli aventi diritto al voto non dovrà scomodarsi a scrivere nessuno di quei nomi. Sono tutti belli che  stampati sulle schede, da soli -uno nei collegi uninominali  per ogni partito o polo, o a gruppi negli altri, in cui però non c’è preferenza alcuna da esprimere. Pertanto i candidati vengono eletti nell’ordine in cui i rispettivi partiti li hanno nessi in lista. Un’orgia insomma per i partiti, dei quali si capisce bene l’interesse che tutti -proprio tutti, nessuno escluso, a cominciare da quelli che più hanno alzato la voce per protestare- non hanno  avuto a cambiare questa maledetta legge elettorale. L’unica cosa che essi sono stati capaci di fare è stata quella di diminuire di un terzo i seggi parlamentari. Ma si vedrà fra poco -statemi a sentire- con quali altri effetti negativi essendosi nel frattempo dimenticati i partiti di aggiornare il regolamento della Camera, per garantirne il funzionamento nella nuova dimensione. O di modificare la Costituzione per aggiornare le maggioranze qualificate con le quali oggi vengono elette, per esempio, le cariche di cosiddetta garanzia: dai giudici costituzionali ai consiglieri superiori della magistratura e al presidente della Repubblica. Alla cui elezione, in particolare, continueranno a concorrere la cinquantina di delegati regionali stabiliti dalla Costituzione per un Parlamento di 635 fra senatori e deputati, non 400. 

Sì, lo so. Il centrodestra che ha viaggiato in campagna elettorale col vento in poppa ha già  prenotato la riforma per fare eleggere direttamente il presidente della Repubblica dal popolo. Ma non sarà una passeggiata. Vedrete anche questo, tanto più che anche all’interno del centrodestra e dintorni c’è la tentazione di fare eleggere alla fine direttamente dal popolo non il capo dello Stato ma il presidente del Consiglio dei Ministri: il cosiddetto sindaco d’Italia. Che non sarebbe certamente la stessa cosa. 

La vignetta di Sergio Stajno sulla Stampa
La vignetta di Altan su Repubblica

Allo stato delle cose, con tutti i numeri che ho dato all’inizio, cui vanno aggiunti 180 mila scrutatori, la maggiore incertezza riguarda la percentuale finale degli astenuti. o di chi non avrà neppure saputo per chi astenersi, come ha scritto Francesco Tullio Altan nella sua dissacrante vignetta sulla prima pagina di Repubblica. Tutto, ma proprio tutto, e da tutti, è stato fatto -diciamo anche questo- per allontanare gli elettori dalle urne, sulla cui diserzione sentiremo naturalmente versare domani le solite lacrime di coccodrillo. Le prime sono giù arrivate stamane sul Fatto Quotidiano, dove non sono bastati i segni di una “rimonta” di Giuseppe Conte al Sud per addolcire la vittoria festeggiata dal centrodestra nei comizi di chiusura. “Addormentarsi -ha scritto leopardianamente Marco Travaglio nel suo editoriale- pensando che è fico astenersi perché tanto sono tutti uguali e, al  risveglio, scoprire che era molto meglio se vincevano i diversi”.

Dall’interno del Fatto Quotidiano
Dall’editoriale del Fatto Quotidiano

Ma il secondo pensiero di Travaglio prima di addormentarsi è andato all’uomo che sembra avere preso il posto dell’odiato Silvio Berlusconi negli incubi notturni: il presidente del Consiglio uscente, ma non ancora uscito. “Addormentarsi pensando che Draghi in America è lo statista dell’anno e, al risveglio, scoprire che è lo stagista”, ha scritto. Ma, distratto dalla sua ossessione, ripeto, è sfuggito all’attenzione del direttore del Fatto Quotidiano un articolo non di congetture ma di cronaca sistemato all’interno con questo titolo: “Dossier e scadenze: il ruolo di Draghi nel cambio a Chigi”. Non proprio da “stagista” con le nuove forniture urgenti d’armi all’Ucraina, ma soprattutto con la preparazione della nuova legge di bilancio da presentare il 20 ottobre, prima che materialmente possa essere nato un nuovo governo. 

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Gorgia Meloni incrocia le dita ed Enrico Letta i piedi in attesa del voto

In attesa ormai solo dei risultati delle elezioni di domani, nel silenzio finalmente caduto nelle piazze e nei salotti televisivi che ne sono stati un pò le succursali in una estate singolarissima, Giorgia Meloni incrocia le dita ed Enrico Letta i piedi. 

Silvio Berlusconi

La Meloni sente davvero a portata di mano la vittoria, liberata da altri rischi di gaffe di quello che -pensate un pò- si era offerto in Italia e all’estero come garante dell’europeismo, atlantismo, antiputinismo e quant’altro del suo centrodestra a trazione femminile. Lui, arrivato a sostenere, anzi a rivelare come in uno scoop che il suo amico di Mosca non voleva poi fare del male all’Ucraina invadendola a febbraio. Voleva solo sostituire Zelensky e i ministri di Kiev con “persone per bene”. Tutti a chiedersi, sgomenti, a destra e a sinistra, a ovest e ad est di Arcore, perché mai il Cavaliere non abbia più amici in grado di dargli buoni consigli. Nessuno che si ricordi dell’abitudine di Berlusconi di circondarsi più di cortigiani che di amici veri. 

Con quell’uscita francamente incredibile sulle “persone per bene” con le quali si poteva o doveva sostituire il governo ucraino nell’operazione di “denazificazione” proclamata a Mosca viene quasi la voglia di dire che per fortuna il centrodestra, sfumata anche la trazione leghista, è finito nelle mani della Meloni.

E i piedi di Enrico Letta? Sono quelli che, a leggere certe cronache del comizio di chiusura nella piazza romana del Popolo, già traballavano sul palco agli occhi degli amici di partito pronti a sfilargli la segreteria, come nel 2014 gli avevano sfilato, o avevano permesso a Matteo Renzi di sfilargli Palazzo Chigi. Magari, questa volta gli concederanno l’onore -o disonore, secondo le preferenze- di un congresso, ordinario a marzo o anticipato di qualche mese, nella previsione assai diffusa di una sconfitta in quella che poi è stata una corsa non alla vittoria, pur invocata a parole, ma ad un contenuto insuccesso.

Nicola Zingaretti

Per essere sincero, tuttavia, il segretario del Pd non mi sembra quel mezzo o intero deficiente rappresentato da critici ed avversari. Egli paga gli effetti, prima ancora dei suoi errori, dell’eredità lasciatagli da Nicola Zingaretti, fuggendo praticamente dal Nazareno, con l’inopinata promozione di Giuseppe Conte al “punto più alto di riferimento dei progressisti”. Al quale giustamente, anche a costo di compromettere la cosiddetta competitività col centrodestra  di Giorgia Meloni,     lui non ha voluto perdonare la rottura con Mario Draghi. Nè ha voluto mettersi pavidamente in fila per riagganciare il professore, avvocato eccetera eccetera dopo le elezioni, dalle quali sembra che, riesumando al Sud la buonanima di Achille Lauro,  il presidente pentastellato stia uscendo un pò meglio di quando vi è entrato con la spinta verso lo scioglimento anticipato delle Camere. Non gli sono tremati né polsi né palpebre all’annuncio della indisponibilità di Conte a riprendere rapporti col Pd prima che i vari Goffredo Bettini, Andrea Orlando, forse persino Dario Franceschini non ne cambino “il gruppo dirigente”, come se costoro peraltro non ne avessero o non ne facessero parte.

Mario Draghi a New York
Il banchetto di Conte nel 2021

Ospite abbastanza tranquillo ieri sera di Enrico Mentana,, seduto sulla sua poltroncina non come su un trespolo, Letta ha voluto difendere Draghi dagli assalti e dai disprezzi di Conte, che non ne ha mai digerito l’arrivo a Palazzo Chigi, al suo posto. Egli aveva fatto solo finta di esservisi rassegnato improvvisando quel banco in piazza, fra lo stesso Palazzo Chigi e Montecitorio, per un gesto di disponibilità a sostenerne il governo anomalo, da salute pubblica, chiesto dal presidente della Repubblica nella impossibilità, in quel momento, di sciogliere le Camere con una pandemia ancora virulenta. Di Draghi -ha ammonito Enrico Letta, come aveva fatto qualche giorno prima il vecchio Henry Kissinger parlandone a New York a livello internazionale- è prematuro pensare che sia davvero un uomo uscito di scena. 

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Persino Matteo Renzi si affaccia alla via giudiziaria alla politica….

Dal Foglio di ieri
Titolo del Dubbio

Immagino il godimento procurato a Matteo Renzi dalla monografia del “camaleontico” Giuseppe Conte scritta a nove mani, fra autori e coordinatori, per la Repubblica di ieri e quella più solitaria ma ugualmente urticante di Giuliano Ferrara sul Foglio. Che però si è tolta alla fine –in cauda venenum, come dicevano nell’antica Roma- la soddisfazione di ricordare al suo ex “royal baby” dei primi tempi declinanti di Silvio Berlusconi la permanente insidia anche per i “liberalriformisti” del cosiddetto terzo polo costituita dall’ultima versione molto di sinistra del presidente del MoVimento 5 Stelle. “L’uomo di Volturara Appula, ridente paesino dell’Italia autentica”, ha chiosato il fondatore del Foglio trattenendo per sé il segreto addirittura di Google su quella terra pugliese una volta infestata di avvoltoi. 

Giuseppe Conte

Più contesti o deprezzi Conte più fai felice Renzi, che non si lascia scappare occasione per vantarsi di averlo salvato nel 2019 da un turno anticipato di elezioni reclamato da Matteo Salvini sulle spiagge della Romagna per ottenere i famosi e imprudenti “pieni poteri”, ma di averlo poi disarcionato da Palazzo Ghigi per farvi arrivare il per niente stanco e abulico Mario Draghi immaginato, descritto e quant’altro dagli estimatori del professore e “avvocato d’affari”, si diceva prima ch’egli stesso si scoprisse “avvocato del popolo”. Ora addirittura delle plebi, soprattutto meridionali. 

L’ultimo libro di Renzi

Spavaldo sino alla provocazione, più ancora dello stesso Conte, tanto da compiacersi nell’ultimo libro ancora fresco di stampa dell’antipatico o del “mostro” che gli danno gli avversari, Matteo Renzi ha in qualche modo concluso la sua campagna elettorale annunciando di avere querelato per diffamazione il Camaleonte, che lo aveva appena sfidato a comiziare al Sud, “senza scorta”, contro il cosiddetto reddito…grillino di cittadinanza: una fortuna simile alle scarpe e agli spaghetti della buonanima di Achille Lauro. Ah, Renzi, Renzi. Pure tu scommetti sulla via giudiziaria alla politica….

Pubblicato sul Dubbio

La campagna elettorale finisce a carte bollate, con una querela di Renzi a Conte

Dal Fatto Quotidiano
Titolo del Foglio

Meno male che questa sera, con gli ultimi comizi di piazza e appelli televisivi, finirà questa campagna elettorale curiosamente benedetta dagli amici del Foglio con quel titolo già nostalgico in rosso: “Avercene così”, con “avversari che dialogano, poche demonizzazioni, tentativi (anche se goffi) di mostrarsi affidabili”. E con la domanda: “Sicuri che sia stata una campagna bruttissima?”. Addirittura “spassosa” l’ha trovata sul Fatto Quotidiano il fondatore e mio amico Antonio Padellaro. 

Pur se ignorato da tutti i giornali nelle prime pagine,  quell’annuncio televisivo di Matteo Renzi a Barbara Palombelli -sulla quarta rete berlusconiana- di avere querelato per diffamazione Giuseppe Conte è un pò la notizia emblematica non dello spasso ma della tragedia della politica italiana. Che da tempo accetta che a praticarla siano più i tribunali che i partiti.

Dalla prima pagina di Repubblica

Eppure Renzi è di quelli che, anche sulla sua pelle, dovrebbe avere imparato qualcosa in materia. Il camaleontismo dell’ex presidente del Consiglio, ora fortunatamente solo presidente di quel ch’è rimasto del MoVimento 5 Stelle del 2018 -un camaleontismo di cui proprio oggi si occupano su Repubblica ben otto firme- è tutta roba, o robaccia politica, non giudiziaria. Quella sfida che Conte gli ha fatto di andare ad attaccare il reddito grillino di cittadinanza nelle piazze del Sud ,“senza scorta”, è stata tutta politica. E se il reddito di cittadinanza ha preso il posto delle scarpe e degli spaghetti dei lontani tempi di Achille Lauro, prima che nascesse il reato del voto di scambio, anche questo è un fatto dannatamente politico. Che peraltro fu rimproverato pure a Renzi quando raccoglieva voti da presidente del Consiglio, prima dell’infortunio referendario sulla riforma costituzionale, con quegli ottanta euro in più  -se non ricordo male- infilate nelle buste paga del pubblico impiego. 

Titolo del Fatto Quotidiano

Il senatore di Scandicci va ancora oggi orgoglioso di quegli ottanta euro, dichiaratamente o spavaldamente incurante dell’antipatia riservatagli dagli avversari per la disinvoltura con la quale è riuscito nella legislatura ormai alle nostre spalle a montare e smontare governi e maggioranze, sino a fare arrivare a Palazzo Chigi più di un anno e mezzo fa Mario Draghi. Del quale Conte ha ancora una paura da morire per il peso che potrà avere sui partiti italiani anche dopo che è riuscito a farlo dimettere, senza tuttavia liberarsi del suo fantasma, appena rientrato dagli Stati Uniti con un altro bel po’ di prestigio internazionale addosso. Che è stato vanamente sbeffeggiato con le immagini dell’aula dell’assemblea delle Nazioni Unite poco frequentata all’ora in cui gli è capitato di poter parlare. 

I discorsi, le situazioni, le congiunture non si giudicano dal numero degli spettatori. Piazze piene e urne vuote, gridò nel lontano 1948 Pietro Nenni commentando il flop elettorale del “fronte popolare” che lui aveva avuto la sventura di comporre con i comunisti regalando loro, fra l’altro, nella sconfitta il sorpasso sui socialisti. 

Matteo Renzi e Gorgia Meloni fra le impalcature
In Piazza del Popolo ieri a Roma

Pensate, per esempio, volendo fermarci alla Piazza romana del Popolo in cui ieri sera il centrodestra ha un pò anticipato la festa della vittoria ormai attribuitagli anche dagli avversari, costretti solo a sperare di contenerla all’ultimo momento, che tanta gente e tante bandiere valessero  di più di quella foto rubata -prima dell’arrivo in ritardo di Berlusconi- a Giorgia Meloni e a Matteo Renzi seduti a confabulare fra le inpalcature? A me personalmente ha incuriosito più quella foto che ogni altra della serata romana del centrodestra, e dei leader ripresi sul palco da soli o tutti insieme.

Dalla prima pagina della Stampa

Quei due appartati e da tanti considerati concorrenti più che alleati, uno più sospettoso dell’altro, mi hanno dato l’impressione che sotto sotto possano essere complici di chissà quale piano di difesa da Berlusconi e -lontano, a Bruxxelles- dalla sorveglianza appena annunciata dalla presidente in persona della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

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In Russia si scappa da Putin, in Italia dalle urne di domenica prossima

Titolo di apertura del Fatto Quotidiano

Le immagini televisive e stampate non consentono fughe dalla realtà. E ridicolizzano i tentativi di ridurne la portata, come si sono avventurati al Fatto Quotidiano. E dove sennò?  Da quelle parti  la fuga dei russi da Putin -dopo il richiamo di trecentomila riservisti e la minaccia di usare la bomba atomica per difendere l’annessione “referendaria”, come la chiama lui, dei territori ucraini occupati militarmente, o di ciò che ne rimane dopo tante distruzioni e stragi- sono diventate in un sommarietto di apertura “prime reazioni negative”. E ciò sotto un titolo che grida “la paura di Biden”: il presidente degli Stati Uniti d’America, naturalmente. Di cui tuttavia si lamenta nel già citato sommarietto, associando Usa e Nato, la decisione di “rilanciare il riarmo”, per cui “si fa più forte il rischio nucleare”. Bisognerebbe che nella redazione di Marco Travaglio ci mettessero un pò più di coerenza, o un pò meno di incoerenza, nella titolazione per rispetto, non foss’altro, dei lettori. E’ strana la paura di Biden raccontata così.

Il titolo del Giornale
Dalla prima pagina del Corriere della Sera

“I voli esauriti: via da Mosca”, ha preferito riferire il Corriere della Sera. “In fuga da Putin” hanno titolato quasi all’unisono il Giornale e Libero. “Il pugno di Mosca”, ha sovrapposto il manifesto alla foto di un dimostrante alle prese con la polizia russa. 

La prima pagina del manifesto

Se in Russia si fugge da Putin, a dispetto degli avvertimenti che dal primo giorno dell’attacco all’Ucraina si è scritto e detto, scomodando anche un discendente del grandissimo Tolstoi, sulla popolarità del presidente-zar nel  “profondo” di un paese che pure sta affamando, e al quale non osa rivelare quanti morti gli abbia già procurato in terra ucraina semplicemente occultandoli nelle fosse comuni o incenerendoli; se in Russia, dicevo, si fugge da Putin, in Italia si scappa dalle urne ancora a tre giorni dal voto per il rinnovo delle Camere. Tanto è stata evidentemente confusa, pasticciata e altro ancora di negativo la pur breve  e inusualmente estiva campagna elettorale. 

Sergio Stajno di recente sulla Stampa

Nessun partito può dolersene e prendersela con gli indecisi. Lo raccomandava già qualche settimana fa il vecchio Sergio Stajno in una vignetta sulla Stampa perché a dar loro degli “stupidi” se ne compromette un eventuale ripensamento. “Sono la nostra speranza”, diceva da sinistra naturalmente, l’ultimo direttore -se non ricordo male- o uno degli ultimi dell’Unità, chiusa nel 2017 e umiliata di recente  con un procedimento giudiziario di bancarotta. Meritava altro, francamente, il quotidiano comunista fondato da Antonio Gramsci nel 1924, quasi un secolo fa.

Romano Prodi ieri sera a Otto e mezzo

Agli ancora indecisi ha pensato anche Romano Prodi ieri sera, collegato da casa col salotto televisivo di Lilli Gruber, per augurare ad Enrico Letta il miracolo capitato a lui nel 2006, quando da perdente come lo davano tutti i sondaggi gli riuscì di sconfiggere di nuovo Silvio Berlusconi, come dieci anni prima. Ma senza riuscire, come già era accaduto la volta precedente, a durare poi a Palazzo Chigi più di un anno e mezzo, all’incirca. 

La prima pagina del Fatto Quotidiano

Più ancora di Prodi ha scommesso sugli indecisi in questi pochissimi giorni di vigilia elettorale il già citato Fatto Quotidiano imbaldanzito da sondaggi riservati, e indiffondibili, che danno Giuseppe Conte in forte ripresa al Sud. Dove basterebbero una decina, meglio una quindicina di seggi sottratti al centrodestra al Senato non dico per evitarne la vittoria, ma almeno per ridurne la portata. E impedirgli di disporre nel nuovo Parlamento di una maggioranza così larga da potere da solo approvare una riforma costituzionale senza la verifica referendaria. “Conte rimonta al Sud e Meloni rischia grosso”, ha titolato il giornale di Travaglio ingigantendo forse un pò troppo le difficoltà della leader della destra italiana. La speranza, si sa, è sempre l’ultima a morire. 

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Verso la parità di genere al vertice delle istituzioni, almeno questo

Titolo del Dubbio

L’elezione di Silvana Sciarra alla presidenza della Corte Costituzionale apre, fra l’altro, la strada -al di là delle stesse intenzioni dei giudici della Consulta- ad una legislatura in cui potremmo avere una parità di genere al vertice delle istituzioni, o quanto meno avvicinarvici più di quanto sia mai avvenuto nella storia della Repubblica. 

Giorgia Meloni

Se Giorgia Meloni, risparmiandosi altri errori negli ultimissimi giorni di questa campagna elettorale dopo quelli su cui tornerò più avanti, riuscirà a diventare la prima donna alla guida di un governo in Italia potrà fare coppia almeno per un anno con la presidente Sciarra per una parità di genere ai vertici istituzionali, appunto, escludendo il capo dello Stato e immaginando due uomini alle presidenze delle Camere. 

Dario Franceschini

Se poi anche in Parlamento dovesse farcela una donna a tornare alla presidenza del Senato o della Camera, la parità di genere sarebbe completa, includendo anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Avremmo tre donne e tre uomini, tra Quirinale, la dirimpettaia Consulta, Palazzo Chigi e Camera o Senato. Non oso neppure ipotizzare un 4 a 3 a vantaggio delle donne, non foss’altro per non fare un torto al povero Dario Franceschini, che mi dicono punti a Montecitorio anche in caso di sconfitta del suo Pd alle elezioni scommettendo sul buon gusto del centrodestra di lasciare alle opposizioni almeno una delle presidenze delle Camere. 

Almeno sul piano -ripeto- della parità di genere la legislatura potrebbe quindi partire col piede giusto. Ma ce la farà, come anticipavo all’inizio, la Meloni a non compromettere una vittoria che anche lei avverte a portata di mano nella corsa a Palazzo Chigi? Me lo chiedo perché la giovane leader della destra italiana -“conservatrice” come le spetta di essere riconosciuta per il nome della formazione europea che presiede, o “post-fascista” come preferiscono definirla gli avversari che ha in Italia e all’estero, dove qualcuno le dà addirittura della fascista vera e propria- si è un pò lasciata prendere la mano negli ultimi tempi. 

Silvio Berlusconi

Per non risalire a quella “pacchia” gridata in piazza a Milano contro francesi, tedeschi e olandesi che farebbero i propri comodi nell’Unione Europea ai danni di un’Italia passiva; o a quel voto congiunto con i leghisti al Parlamento di Strasburgo a favore dell’Ungheria di Viktor Orbàn a rischio di sanzioni comunitarie per l’illiberalismo che pratica nel suo paese ritenendosi unto da Dio e dagli elettori; per non risalire, dicevo, a questi due brutti precedenti, che hanno indotto Silvio Berlusconi a minacciare di  non fare entrare nel suo governo i forzisti, o di farli uscire affondandolo, ho trovato francamente sbagliato l’appello che la Meloni ha fatto per una vittoria dei franchisti di Vox in Spagna sulla scia della sua in Italia. 

Dal manifesto di ieri

Benedetta “Giorgia”, come ormai la chiamano un pò tutti i giornali anche se il suo cognome è ancora più corto per i titolisti, perché abbassa tanto la guardia su un versante che è già così scivoloso a casa sua, e nostra? Mi pareva sinceramente che potesse bastare quel comizio, o comiziaccio recente a vene gonfie sul collo in Andalusia. Dovrebbe pur ricordare di essere nata dopo il franchismo, oltre che dopo il fascismo. 

Dalla Stampa di ieri

Per ultimo, se non si spazientisce contro un vecchio cronista politico, la signora Meloni, come ogni tanto la chiama anche il suo alleato e “padre” metaforico Berlusconi, ho trovato un’autentica autorete la sua invettiva contro la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese per i fischi e anche qualche gazzarra tentata contro i suoi comizi dai soliti dissidenti in una competizione democratica. 

Immagini da Palermo

Senza volere essere malizioso a tal punto da sospettare di eccesso voluto di zelo da parte di una ministra già nel mirino  dell’alleato e concorrente della Meloni nel centrodestra che è Matteo Salvini, suo predecessore al Viminale, non mi sembrano proprio un successo per la candidata a Palazzo Chigi le manganellate e simili della Polizia nel suo comizio a Palermo. Dio mio, signora, si e ci risparmi repliche in questi ultimi 3 -dico tre in lettere- giorni di campagna elettorale. Che poi sarebbero due considerando che già sabato non si potrà più comiziare, provocare ed essere provocati. 

Enrico Letta al Giornale di ieri

D’altronde -e chiudo- anche il segretario del Pd Enrico Letta, forse per rimediare a quello che considero l’incidente di Berlino, dove egli è andato a farsi sponsorizzare per una minore sconfitta possibile dai socialdemocratici impegnati a denunciare il pericolo del “post-fascismo” in Italia, le ha steso in qualche modo la mano rilasciando un’intervista al Giornale della famiglia Berlusconi titolata tra virgolette, cioè con le sue parole. così: “Governa chi vince, anche se è la Meloni”. Forse una telefonata di ringraziamento sarebbe dovuta a Letta nipote da quella che pure il segretario del Nazareno ha preferito in questa campagna elettorale come la principale, se non unica antagonista.

Publicato sul Dubbio

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La corte insistente degli americani a Mario Draghi per la guida della Nato

Draghi all’assemblea generale dell’Onu
Monica Guerzoni da New York sul Corriere della Sera

Il caso -un altro, direi, dei tanti che ne hanno contrassegnato la lunga e fortunata, oltre che meritata carriera pubblica- ha voluto che l’ennesima sfida di Putin nella guerra all’Ucraina, con l’annuncio dei referendum per l’annessione alla Russia delle terre occupate militarmente, coincidesse con l’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Dove Mario Draghi ha potuto aggiornare il suo già robusto intervento preparato all’arrivo per denunciare “un’ulteriore violazione del diritto internazionale che condanniamo con fermezza”. Un intervento, quello del presidente del Consiglio, su cui l’inviata del Corriere della Sera al seguito, Monica Guerzoni, ha riferito scrivendo di un Draghi che “scolpisce con forza la posizione geopolitica dell’Italia e allontana da sé l’ombra di un governo populista o sovranista che guardasse con indulgenza in direzione del Cremlino”. Ma forse -aggiungerei a tanta distanza dagli Stati Uniti- per allontanare quell’ombra non solo “da sé”, ma anche dal suo uditorio internazionale, in linea con la rappresentazione ottimistica delle prospettive elettorali italiane da lui avviata in estate a Rimini. Dove, ospite del raduno annuale dei ciellini, disse che l’Italia ce l’avrebbe fatta a superare le sue difficoltà, anche di politica estera, con “qualsiasi governo” grazie all’eredità che egli stesso stava lasciando con il suo. 

Il solito “omaggio” del Fatto Quotidiano a Draghi
Carlo Calenda al Foglio

Probabilmente il presidente del Consiglio avrà convinto di questo ottimistica previsione persino il vecchio e sempre autorevole Henri Kissinger. Che proprio a New York, partecipando alla premiazione dell’ospite come migliore statista dell’anno a livello mondiale, ne ha pubblicamente sottolineato ”una straordinaria capacità di analisi intellettuale che si è concentrata sul migliorare le cose, non solo su un punto particolare”. Ed ha previsto – sempre Kissinger- che Draghi “rimarrà a lungo con noi”, cioè sulla scena internazionale: un’allusione forse non tanto alla speranza, in Italia, ribadita da Carlo Calenda al Foglio di un suo bis a Palazzo Chigi in caso di un’altra emergenza politica, quanto alla corte che neppure tanto dietro le quinte gli americani stanno facendo al  nostro presidente uscente del Consiglio per la guida della Nato. E pazienza per il sarcasmo del Fatto Quotidiano e dintorni politici e mediatici, con quel fotomontaggio caricaturale in prima pagina di Draghi commediante col turbante a stelle (e strisce).

Mattia Feltri sulla Stampa nel suo Buongiorno quotidiano
Dal Corriere della Sera

Per quanti sforzi faccia ogni tanto lo stesso Draghi di defilarsi  -dicendo, per esempio, proprio a  New York a un gruppo di studenti veneti che avrà a breve “molto tempo libero” da poter dedicare all’invito rivoltogli a visitare la loro scuola-  egli ha conservato intatta autorevolezza e agibilità pubblica dopo gli sgambetti tesigli dai partiti in Italia. E’ forse prematuro, sotto questo aspetto, anche lo sfogo odierno di Mattia Feltri sulla Stampa con il suo buongiorno quotidiano, in cui ha scritto: “Sarò un’inconsolabile vedova, ma le mie vesti si sono tinte di lutto alle immagini di ieri, di Mario Draghi premiato a New York da Henry Kissinger come statista dell’anno”, e dei recenti apprezzamenti del presidente Biden forse scambiabili per “un elogio funebre a elogiato vivo”. “Mezzi morti -ha osservato Mattia Feltri- siamo noi, fenomeni che di quest’uomo non sappiamo che farcene, né a Palazzo Chigi né al Quirinale”. E giù botte di stampa meritatissime a Matteo Salvini e Giuseppe Conte, ritrovatisi insieme dopo l’esperienza, rispettivamente, di presidente del Consiglio e vice presidente e ministro dell’Interno, nell’attaccare, dileggiare e quant’altro Draghi in questa campagna elettorale fortunatamente arrivata a soli quattro giorni dal voto e tre dal silenzio. 

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Scomodo forse per lo stesso Enrico Letta l’endorsement raccolto a Berlino

Titolo di Repubblica
Titolo del Corriere della Sera

Entrambi i giornali più diffusi in Italia –Corriere della Sera e la Repubblica- hanno in qualche modo trasferito a Berlino la campagna elettorale di casa nostra, peraltro a 5 giorni dal voto, considerando come l’avvenimento principale delle ultime 24 ore l’incontro assai cordiale del segretario del Pd Enrico Letta nella capitale tedesca col cancelliere socialdemocratico Olaf Sholz. “Caso Berlino sulle elezioni”, ha titolato il Corriere. “Berlino: no ai postfascisti”, ha spiegato la Repubblica riferendo non tanto sull’incontro fra Letta e Sholz quanto sulla contemporanea -e certamente non casuale- preoccupazione espressa dal presidente del partito del cancelliere per una vittoria della destra di Giorgia Meloni. 

Francamente, il segretario del Pd avrebbe potuto fare a meno di questo tipo di endorsement, un pò eccessivo pur considerando le difficoltà nelle quali egli si trova con quella distanza ormai incolmabile fra il suo polo, alquanto striminzito dopo la rottura con Giuseppe Conte a sinistra e con Carlo Calenda e Matteo Renzi al centro, e il centrodestra a trazione, questa volta, meloniana. 

Paolo Meli a Otto e mezzo

Con quel tipo di endorsement Enrico Letta ha messo nei guai dopo qualche ora in Italia persino il suo amico -e, credo, anche elettore- Paolo Mieli. Che, ospite del salotto televisivo di Lilli Gruber, ha sorpreso anche la padrona di casa riconoscendo al segretario del Pd il merito di non avere abusato dell’antifascismo -anzi, di non avervi proprio fatto ricorso- per contrastare Giorgia Meloni, sino a rendere questa campagna elettorale “più all’acqua di rosa di tutte” , testualmente. 

Giorgia Meloni a Quarta Repubblica

La Meloni, dal canto suo, ospite di Nicola Porro alla “Quarta Repubblica” della quasi omonima rete della televisione berlusconiana, non si è lasciata scappare l’occasione per chiedere furbescamente a distanza ad Enrico Letta se nell’incontro con Sholz avesse perorato la causa del tetto al prezzo del gas sostenuta per l’Italia da Mario Draghi nell’Unione Europea. Cui i tedeschi sembravano avere in qualche modo aperto ripiegando però successivamente sulla difesa dei propri interessi, diversi dai nostri perché i prezzi praticati dai russi alla Germania sono più bassi. E così la giovane candidata a Palazzo Chigi, oltre che ad allinearsi a Draghi più di Letta, ha potuto riproporre, pur senza ripetere la storia della “pacchia finita” se lei dovesse arrivare alla guida del governo, la sua rappresentazione dell’Unione Europea. Dove la difesa degli interessi nazionali è permessa a tedeschi, francesi, olandesi ma non all’Italia, che pure è tra i paesi fondatori e non certo ultimo per estensione, popolazione e produzione industriale. 

Temo, per Letta nipote, rispetto allo zio Gianni che ad Arcore è di casa, che Silvio Berlusconi ascoltando la Meloni si sia forse un pò pentito di avere commentato negativamente quella “pacchia finita” scappatole di bocca nella piazza milanese del Duomo. E, sotto sotto, pur con tutto il suo apprezzamento dell’Unione Europea, qualche riflessione “il caso Berlino” evocato nel titolo del Corriere della Sera deve averla suggerita anche a Mario Draghi oltre Oceano. Dove il presidente del Consiglio è andato a raccogliere premi e altri riconoscimenti meritatissimi ai margini dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. 

Mario Monti

I tedeschi, come lo stesso Draghi ha sperimentato negli anni della presidenza della Banca Centrale europea, non hanno molte simpatie per gli italiani, considerati troppo pasticcioni e indebitati, forse con una sola eccezione. Che non è quella di Draghi ma di Mario Monti, di cui in Germania fu salutato dai giornali d’oltralpe l’arrivo a Palazzo Chigi, nel 2011, scoprendolo come il genero sognato da molte mamme teutoniche. Ma neppure i tedeschi -diciamola tutta- sono molto popolari in Italia. 

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Il no di Draghi un pò come quello di Mattarella al secondo mandato

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di ieri beffeggiando Matteo Renzi
Titolo del Dubbio

Ancora ieri su un giornale che non vuole sentirsi dare dell’”organo” del partito di Giuseppe Conte ma che ne riflette o anticipa spesso umori e cambiamenti di rotta si contestava all’odiato Matteo Renzi di avere proposto o previsto un Draghi bis rimediando “a stretto giro” una clamorosa e diretta smentita dell’interessato. Che in effetti in quella che potrebbe essere stata l’ultima conferenza stampa da presidente del Consiglio, almeno prima delle elezioni di domenica prossima, ha recentemente opposto un no secco all’ipotesi di una sua disponibilità per un “secondo mandato” a Palazzo Chigi. Dove ormai quasi avvertono l’ombra di Giorgia Meloni, dichiaratasi “pronta a governare” anche al Giornale della famiglia Berlusconi in una intervista titolata proprio così in prima pagina, con una perentorietà che potrebbe apparire persino in contrasto con la prudenza dello stesso Berlusconi. Del quale era apparsa qualche giorno fa addirittura “una bomba atomica” al Riformista di Piero Sansonetti l’avvertimento che Forza Italia non farà parte del governo, o ne uscirà in qualsiasi momento, se non ne risulterà chiara la linea europeista e atlantista. 

Matteo Savini domenica a Pontida

E’ una bomba, quella attribuita a Berlusconi, che Matteo Salvini dal palco di Pontida, davanti ai trentamila o quarantamila leghisti accorsi alla ripresa del raduno tradizionale, dopo l’interruzione da Covid, non ha scambiato neppure per un petardo. Sia che vada lui, come mostra ancora di credere  anticipandosi orgoglioso di una pur improbabile chiamata del presidente della Repubblica, sia che vada l’alleata, concorrente e amica leader della destra dichiaratamente conservatrice, Salvini si è detto convinto che Silvio, come lo chiama anche in pubblico quando ne parla, non costituirà un problema. La convergenza col fondatore di Forza Italia, e del centrodestra improvvisato nel 1994,   sarebbe addirittura al 99 per cento. Apparterrebbe quindi al residuo 1 per cento anche il dissenso pubblicamente espresso da Berlusconi nei riguardi del voto contrario  degli europarlamentari leghisti e meloniani alle sanzioni comunitarie in arrivo per l’Ungheria di Viktor Orbàn. Che non fa neppure più parte del Partito Popolare Europeo, di cui Berlusconi si considera il principale socio italiano.

Carlo Calenda

Ma torniamo al presunto sbugiardamento di Renzi da parte di Draghi col no opposto in conferenza stampa alla sua disponibilità per un secondo mandato a Palazzo Chigi. Un no interpretato invece da Carlo Calenda  -alleato di Renzi in un terzo polo elettorale pur non riconosciuto dalla Corte di Cassazione, secondo la quale ne esisterebbero solo due- come una risposta tanto obbligata quanto provvisoria, non essendosi ancora votato e tanto meno maturate le condizioni nelle quali potrebbe essere rigiocata la carta, appunto, di Draghi. 

In effetti, se si vuole essere minimamente obiettivi, o non prevenuti, come preferite, e fatte le debite differenze fra la Presidenza della Repubblica e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, quel no di Draghi è un pò parallelo a quello opposto -e a lungo- da Sergio Mattarella quando, ancor prima che cominciasse il cosiddetto semestre “bianco” e conclusivo del suo mandato, se ne prospettò e sollecitò anche nei teatri e nelle piazze il bis. Ricordate? Quasi per rafforzare il suo rifiuto Mattarella cominciò a cercare casa in affitto a Roma per trasferirvisi alla scadenza del settennato al Quirinale. E si lasciò sorprendere da fotografi e telecamere quando, individuatene una conforme per prezzo e dimensioni ai suoi bisogni, cominciarono i sopralluoghi personali e persino i trasferimenti di mobili anche dalla sua Palermo. Ricordate anche questo? 

Mattarella e Draghi

Draghi stesso -che pure in una cena al Quirinale, secondo indiscrezioni non smentite, lo aveva inutilmente sollecitato al bis, addirittura condizionando ad esso anche la sua disponibilità a proseguire il lavoro di presidente del Consiglio- finì per prendere tanto sul serio il rifiuto del capo dello Stato in scadenza da cadere in una mezza imboscata. Fu nella conferenza stampa di fine 2021, quando in risposta ad una domanda sulla sua disponibilità a succedere a Mattarella egli si definì “un nonno al servizio delle istituzioni”.  Bastò e avanzò perché la trasparenza del presidente del Consiglio fosse scambiata per ambizione smodata o, peggio, per qualcosa di simile a un mezzo colpo di Stato, con l’inedito passaggio diretto di un uomo da Palazzo Chigi al Quirinale. Ma quando più tentativi di una successione fallirono Mattarella si lasciò responsabilmente confermare. 

Volete che, alla luce di quanto accaduto allora, che segnò anche l’inizio di un certo logoramento del suo governo oltre la misura normale di un epilogo di legislatura, Draghi potesse commettere nei giorni scorsi l’errore, l’imprudenza, l’ingenuità -chiamatela come volete- di mettersi in corsa per un secondo mandato a Palazzo Chigi? No, non lo poteva fare. Si potrà parlarne solo dopo le elezioni e il naufragio non so di quanti tentativi di governo, nel sospetto -fra l’altro- che quel 99 per cento di convergenze vantate da Salvini all’interno del centrodestra sia alquanto esagerato, diciamo così.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 25 settembre

Da Pontida Salvini liquida all’1% il dissenso suo e della Meloni da Berlusconi

In nero da Libero
In rosso da Libero

A vedere e leggere la prima pagina di Libero, che ne ha riferito con l’enfasi di un giornale di partito, Matteo Salvini è riuscito a radunare sui prati di Pontida centomila entusiasti del “ritorno” della “Lega dura”. Quella, per intenderci, dei tempi del fondatore Umberto Bossi, prima che Silvio Berlusconi e un ictus non lo ammorbidissero fra una visita e l’altra ad Arcore, avvolto la notte in un pigiama di seta scelto personalmente dal padrone di casa per onorare l’ospite. Un Bossi che non a caso Vittorio Feltri, sempre sulla prima pagina di Libero, ha voluto quasi celebrare con testimonianze personali come “capo dei Barbari”.

Dal Corriere della Sera
Marco Cremonesi sul Corriere della Sera

Peccato però che i centomila fossero, secondo le cronache meno enfatiche del Corriere della Sera, dai trentamila ai quarantamila, che sono -beninteso- tanti lo stesso, per carità, ma sempre meno della metà vantata dai tifosi di Salvini. E avvolti prevalentemente nell’azzurro nazionale, piuttosto che nel verde di Bossi, peraltro in accecante assenza personale, come si dice di certi assordanti silenzi. Egli ha infatti declinato l’invito di Salvini e preferito restarsene a casa, nella sua Gemonio, a prepararsi alla festa odierna, e tutta privata, dei suoi 81 anni. Al pur assente Bossi  comunque Salvini ha promesso che i leghisti se torneranno al governo -come sembra scontato dopo tanti sondaggi sull’avanzata elettorale del centrodestra- non se ne staranno con le mani in mano a godersi le poltrone, gli omaggi dei prefetti, le auto blu e tutto il resto, ma lavoreranno sodo, a modo loro naturalmente, per un’Italia troppo a lungo bistrattata nell’Unione Europea, come sostiene anche Giorgia Meloni. Del cui governo peraltro, pur fingendo di non ritenersi escluso dalla corsa a Palazzo Chigi, dove sarebbe felicissimo di andare se Sergio Mattarella volesse -improbabilmente- mandarlo, Salvini ha azzardato qualche anticipazione o auspicio, come preferite. 

Salvini a Pontida
Cesare Zapperi sul Corriere della Sera

“Giulia Bongiorno -ha detto testualmente il leader della Lega dal palco di Pontida parlando della parlamentare leghista e avvocata personale- sarebbe un grandissimo ministro della Giustizia. E vi prometto che il prossimo ministro degli Esteri sarà un diplomatico, e non un Giggino volante”, come l’uscente ex grillino Luigi Di Maio. “E quello della Salute un medico”, ha aggiunto Salvini. 

Di un governo Meloni sono ormai convinti anche ad Arcore, con quella intervista proprio oggi pubblicata dal Giornale della famiglia Berlusconi con un titolo praticamente dettato dall’interessata: “Pronta a governare”, appunto. Preoccupazioni per la minaccia di Berlusconi di lasciarne fuori o farne uscire i suoi se non dovesse essere chiara la linea europeista e atlantista? Nessuna, pare, da parte della Meloni. E neppure di Salvini, che ha ridotto -sempre a Pontida- all’uno per cento l’area del dissenso degli alleati da Berlusconi. Non sarà l’ungherese Orbàn, insomma, a provocare l’esplosione del centrodestra, dopo che Salvini e la Meloni lo hanno difeso nel Parlamento europeo dall’arrivo di sanzioni comunitarie per la sua illiberalità condivise invece da Berlusconi, ora che il presidente ungherese non fa più parte del Partito Popolare del vecchio continente. 

La vignetta di Sergio Stajno sulla Stampa

Proprio Orbàn, per fortuna, si è tenuto distante da Pontida, senza con questo evitare che il segretario del Pd Enrico Letta ne cambiasse da Monza i connotati geografici liquidandola come “provincia d’Ungheria”. E tanto meno si è fatto vedere o sentire Putin, chiamato per scherzo in causa dal vecchio e impietoso Sergio Stajno in una vignetta sulla prima pagina della Stampa in cui un imprudente reagisce alla notizia del mancato invito al presidente russo ai funerali della regina Elisabetta, a Londra, dicendo: “Averlo saputo!…C’era un posto libero a Pontida”. Quante licenze si prende, per fortuna, la satira….

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