Conte cerca la…Verità sul ministro dell’Economia Roberto Gualtieri a Berlino

             Spesosi nella recente missione alla festa nazionale dell’Unità, a Modena, nel tentativo di arruolare il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, del Pd, fra quelli che, come lui, non si erano ancora fatti bene i conti e non potevano quindi né condividere né rigettare il no dei grillini all’’utilizzo del cosiddetto fondo europeo salva-Stati, noto con l’acronimo Mes, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte deve avere fatto un salto sulla sedia vedendo la prima pagina della Verità. Che ha riferito oggi sui due giorni trascorsi a Berlino proprio da Gualtieri, tra riunioni informali e formali con pezzi da novanta dell’Unione Europea, attribuendogli un sì addirittura “sconcio”, perché “senza mandato”, al Meccanismo Europeo di Stabilità. Che ci consentirebbe di avere un credito agevolatissimo per il potenziamento del servizio sanitario messo a dura prova dall’epidemia virale e degli annessi e connessi.

            Il titolo interno risulta ancora più perentorio -e polemico, dal punto di vista del giornale diretto da Maurizio Belpietro, in linea su questo con i grillini e col Fatto Quotidiano di Marco Travaglio- del richiamo in prima pagina: “Gualtieri spalanca le porte al Mes”. Di cui in particolare, secondo un articolo molto tecnico di Giuseppe Liturri, il ministro dell’Economia italiano avrebbe dato per “cosa fatta” con gli omologhi europei una “riforma” che forse -molto forse- potrebbe fare superare le resistenze dei grillini al suo uso nel nostro Paese.

            Se Conte è sobbalzato sulla sedia, immaginando le facce dei ministri grillini e di altri interlocutori del Movimento, a cominciare da Beppe Grillo in persona appena incontrato a Roma, è immaginabile il sospiro di sollievo del segretario del Pd Nicola Zingaretti. Che, per quanto lontano quella sera da Modena, trattenuto da impegni elettorali in Calabria, deve essere rimasto malissimo a sentire l’uso fatto da Conte in Emilia non del Mes ma del ministro dell’Economia appena portato al Senato dal Pd e distratto dagli studi storici su Palmiro Togliatti e sul Pci.

 

 

 

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Fra le camicie strappate eppure utili al leader della Lega Matteo Salvini

            La camicia strappatagli addosso da una congolese in Toscana potrebbe ancora procurare a Matteo Salvini qualche vantaggio elettorale, compensativo delle cronache giudiziarie sui commercialisti della Lega finiti agli arresti domiciliari a dieci giorni dalle votazioni del 20 settembre.  Ma potrebbe giovargli anche la camicia metaforicamente strappatagli addosso dell’amico e collega di partito Giancarlo Giorgetti annunciando il suo no referendario al taglio dei seggi parlamentari festeggiato dai grillini.

              “La Lega non è una caserma” si è affrettato a dire Salvini  commentando l’arrivo dell’amico sul “fronte del no” guidato dal direttore di Repubblica Maurizio Molinari. Che proprio oggi, a distanza di una settimana dal voto, ne ha descritto ed apprezzato l’ampiezza e “vivacità”, contrapposta alla “staticità” populista del sì ai tagli dei seggi delle Camere concepiti come una misura finalmente punitiva della casta e di per sé salvifica.  

            Giorgetti, d’altronde, non è Claudio Borghi, anche lui schieratosi nella Lega contro l’amputazione delle Camere. Non è neppure l’ex ministro leghista delle politiche agricole Gian Marco Centinaio, anche lui arrivato sul fronte del no referendario. Giorgetti, l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel primo governo Conte, è più dell’uno e dell’altro collega di partito messi insieme. Egli è l’unico o maggiore elemento di continuità fra la vecchia Lega di Umberto Bossi, quella della Padania indipendente proclamata addirittura nei nomi dei gruppi parlamentari, e della Lega di Salvini che srotola con Giorgia Meloni metri di bandiera tricolore per le strade d’Italia: altro che quella piccola sventolata per protesta da una signora alla finestra di casa a Venezia durante un comizio leghista e finita “nel cesso” delle parole del “senatur”.

            Giorgetti è l’altra faccia della medaglia della Lega che Salvini ora ha astutamente deciso, rimuovendo l’immagine della “caserma”, di appendersi al collo, pur senza esibirla come i rosari, le medagliette della Madonna e i crocifissi. Oltre a inglobare il suo no referendario, riducendo automaticamente il valore del proprio sì, Salvini è di fatto tornato a valorizzare il ruolo di Giorgetti anche su altri versanti, come l’interlocuzione  con i ceti produttivi del Nord. Che, per esempio,  vorrebbero stare meglio in Europa, non uscirne. Fu a Giorgetti durante il primo governo Conte che Salvini, tutto preso al Viminale con le felpe della Polizia, i porti e, più in generale, con i confini da proteggere dagli immigrati, fece rilasciare al Foglio la famosa intervista sulla sostanziale irreversibilità dell’euro.

            Fu Giorgetti tuttavia -va ricordato anche questo, con uno sguardo su ciò che potrebbe accadere nella Lega domani- che Salvini si rifiutò di ascoltare indulgendo sull’apertura della crisi dopo il boom delle elezioni europee dell’anno scorso, e decidendosi al passo troppo tardi per smontare i giochi che nel frattempo aveva incautamente lasciato aprire alle sue spalle.  Fu Giorgetti che, resosi conto delle acque torbide in cui i ritardi di Salvini facevano scivolare la situazione politica, salì le scale del Quirinale per comunicare personalmente a Mattarella la indisponibilità alla nomina o designazione a commissario europeo nell’esecutivo di Bruxelles. Egli era ben consapevole che avrebbe potuto fare ben poco in Europa a tutela degli interessi italiani con i grillini ancora al governo e con Salvini indeciso -addirittura- fra la crisi e un nuovo, più stringente accordo con Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, al posto di Giuseppe Conte.

             

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