Il premier corre alla festa del Pd come il Conte zio di manzoniana memoria

          Per quanto lui abbia voluto fare il “laico” dicendo che sull’uso del credito europeo del salva-Stati, o Mes, ripetutamente e ormai perentoriamente chiestogli dal Pd per garantire il potenziamento della sanità in questi tempi drammatici di coronavirus, deve ancora pensarci e fare bene i conti, al manifesto hanno rappresentato come ben riuscito “il battesimo del popolo dem” a Giuseppe Conte alla festa nazionale dell’Unità, a Modena. Dove peraltro una signora, incurante anche del marito che le era accanto, ha salutato il presidente del Consiglio dandogli entusiasticamente del “bello”, e lui ha ricambiato, compiaciuto, dandole della “buongustaia”.

           Riscattatosi dalla partecipazione alla festa annuale del Fatto Quotidiano in qualche modo rimproveratagli dall’intervistatrice Maria Latella, e reduce da una missione -diciamo così- un po’ tardiva in Libano, dove il governo italiano, a dispetto della qualificata presenza dei suoi contingenti militari sul posto, si è ancora fatto precedere dai francesi   dopo l’esplosione che ha devastato Beriut  e ne ha messo ancora una volta in luce la precarietà politica in un’area fra le più turbolenti del mondo, Conte ha preferito galleggiare anche a Modena. Solo così egli ha potuto guadagnarsi due letture così diverse della sua puntata in Emilia come quelle della Repubblica, che gli ha fatto “aprire al Mes” su tutta la prima pagina, e del Mattino, che gli ha fatto aprire pure lui “ma non sul Mes”. Potenza dell’ambiguità, verrebbe da dire per non spingersi a paragonare il presidente del Consiglio, giocando col suo nome, al “Conte zio” di manzoniana memoria.

            Non so se apposta o a caso, quindi per perfidia o gaffe, Conte non si è limitato a parlare in prima persona della controversa questione del Mes,  avversato dai grillini. No, egli ha coinvolto nella sua posizione “molto laica” del né sì né no- sino a quando non se ne sarà fatta un’idea precisa rimettendosi comunque alle Camere-  anche il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Che non è un tecnico finanziario, essendo di professione uno storico, particolarmente di Palmiro Togliatti e dintorni, ma un esponente ora anche senatore del Pd, ritenuto da Nicola Zingaretti forse non a torto, salvo sorprese, d’accordo col partito nel ritenere necessario e vantaggioso il ricorso al credito europeo, immediatamente disponibile, per il potenziamento del servizio sanitario, e indotto.

            Siamo insomma, anche dopo la missione a Modena, al solito Conte che cerca di barcamenarsi. Che “patteggia, non governa” secondo una intervista del vecchio e sempre urticante Rino Formica alla Verità. E’ un Conte che fa a Zingaretti la cortesia di accettare l’invito a Modena, peraltro scegliendo giorno e ora tali da non permettere al padrone di casa di accoglierlo, trattenuto da impegni elettorali in Calabria, ma gli fa anche la scortesia di annettersi  politicamente il ministro dell’Economia.

 Non ha torto l’affilato Marco Follini a scrivere sul Dubbio che “fin quando non si scioglieranno i nodi legati all’identità politica di Conte la reciproca cortesia sarà più che altro una gara di furbizia”, in attesa di scoprire quale “delle due volpi in commedia”, fra il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, sia “molto più ingenua dell’altra”. Una volpe “ingenua” è un ossimoro perfettamente calzante in questa stagione politica d’Italia.

 

 

 

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Sepolti col fedele Nicola Rana i segreti di Aldo Moro, martire della democrazia

Con Nicola Rana, morto nella sua Taranto a 84 anni venerdì scorso, 4 settembre, è scomparso l’ultimo e più completo depositario dei segreti di Aldo Moro, di cui fu segretario particolare e uno degli assistenti universitari, col celebre professore Francesco Tritto. Al quale i brigatisti rossi comunicarono la mattina del 9 maggio 1978 di avere lasciato in  via Caetani, fra le sedi  nazionali del Pci e della Dc, chiuso nel bagagliaio di un’auto, il cadavere dello statista rapito il 16 marzo fra il sangue della sua scorta decimata, e trattenuto per 55 giorni in una “prigione del popolo”. A Rana invece Moro aveva fatto recapitare le sue prime lettere da recluso, fra le quali quella rivolta al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, e l’ultima: il tragico, toccante commiato dalla moglie “Noretta”.

L’ultimo e il più completo depositario, dicevo, dei segreti di Moro. L’’ultimo, perché preceduto nella morte da Tritto nel 2005, dalla moglie Eleonora Chiavarelli nel 2010, dal portavoce Corrado Guerzoni nel 2011 e dal consigliere e fiduciario Sereno Freato nel 2013. Il più completo, perché da segretario particolare Rana era stato materialmente in grado di sapere di Moro, delle sue iniziative, dei suoi incontri, delle sue ansie, delle minacce ricevute, delle sue traversie politiche e personali più di tutti: persino più dei familiari. Ai quali Moro non diceva tutto ciò che gli accadeva per meglio proteggerli e proteggersene, dissentendo in particolare la moglie dalla sua totale e da un certo punto in poi anche pericolosa dedizione totale alla politica.

Forse poteva gareggiare con Rana, nella conoscenza dei segreti dello statista democristiano, solo il capo della sua scorta, il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, ucciso con tutti i colleghi la mattina del sequestro, a poche centinaia di metri dall’abitazione romana di Moro, in quella che gli stessi brigatisti rossi avrebbero poi definito una mattanza. Fu proprio davanti a tutto quel sangue sparso in via Fani, e a quello che ancora sgorgava dal volto dell’autista freddato insieme a Leonardi, che Rana pensò -come avrebbe confessato quarant’anni dopo in una intervista a Famiglia Cristiana- che ben difficilmente la ferocia di quegli assassini avrebbe risparmiato l’ostaggio che erano riusciti a portare via, caricandolo su un’altra auto, per innalzare la sfida allo Stato. Essa si materializzò reclamando il riconoscimento di controparte politica e lo scambio con tredici “prigionieri”, cioè detenuti per reati di terrorismo.

Nonostante la consapevolezza delle dimensioni del dramma, che aveva portato sul luogo della strage la stessa moglie di Moro a reclamare una durezza della risposta dello Stato che Guerzoni faticò moltissimo a non fare uscire sui giornali per non compromettere le sorti di una trattativa che era facile immaginare nelle intenzioni dei brigatisti rossi; nonostante la consapevolezza delle dimensioni del dramma, dicevo, Rana non si risparmiò certamente nei disperati tentativi di riaprire dietro le quinte gli spazi che via via si chiudevano pubblicamente, con i comunicati dei terroristi e le prese di posizione del governo pur monocolore democristiano di Giulio Andreotti. Che però era appoggiato in modo determinante da un Pci  fortemente voluto da Moro nella maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, successiva alle elezioni anticipate del 1976, ma costretto alla cosiddetta “linea della fermezza” dalla paura di perdere diversamente la credibilità come potenziale forza di governo.  Le  brigate rosse appartenevano a quell’”album di famiglia” comunista efficacemente e onestamente indicato sul Manifesto da Rossana Rossanda.

Moro dall’interno del covo in cui era stato rinchiuso, e dove continuò a fare politica, applicando la sua saggezza di tessitore anche ad un passaggio così drammatico che lo investiva personalmente, si  mostrò ben consapevole dello stato di impotenza in cui si trovava il Pci di Enrico Berlinguer. E cercò di convincere con le lettere ai colleghi ed amici democristiani di salvargli la vita, o quanto meno di cercare di salvargliela, prescindendo dai comunisti, anche a costo di una crisi di governo, pur mai evocata o invocata esplicitamente. Ma nella Dc -diciamo la verità- sulla ragione di Moro, per quanto fondata sulla visione cristiana della vita, finì per prevalere la ragione politica intesa come difesa degli equilibri allora esistenti, per quanto il Psi di Bettino Craxi avesse cercato di smarcarla dalla chiusura procurandosene una fastidiosa reazione.

Non giocarono a favore di Moro -e anche questo Rana soleva dire agli amici dopo che si consumò la tragedia, anche se in modo più discreto di Corrado Guerzoni- neppure gli equilibri internazionali, allora rigorosamente bipolari, col muro di Berlino ben eretto e vigilato. E con gli americani e i sovietici ugualmente interessati a ostacolare la politica morotea degli scongelamenti dei blocchi, interni ed esterni, temendo gli uni che i comunisti potessero andare davvero al governo in un Paese collocato nell’area occidentale dagli accordi di Yalta conclusivi della seconda guerra mondiale, e gli altri che i comunisti vi potessero arrivare sia scardinando quegli accordi sia diventando all’interno del comunismo internazionale un punto di riferimento autonomo e persino concorrente con Mosca.

Tutto insomma congiurò in quei maledetti 55 giorni di prigionia contro il povero Moro: la debolezza dello Stato e dei suoi servizi segreti in via di riorganizzazione proprio allora, gli errori e le pavidità degli uomini chiamati a gestire la vicenda, lo scarso interesse esterno, diciamo così, ad evitare la tragedia, per non parlare del comune interesse ad assecondarne l’epilogo peggiore, fatta eccezione per il Papa, Paolo VI, peraltro buon amico di Moro, costretto però pure lui a muoversi con una certa prudenza, Che gli fu sostanzialmente rimpoverata dall’interessato in una delle lettere uscite dalla prigione: una prudenza tradotta nella richiesta, sia pure “in ginocchio”, ai brigatisti rossi di liberare l’ostaggio “senza condizioni”.

Anche di quella prudenza obbligata dai rapporti col governo italiano, pur a scapito di un uomo “mite” e “giusto” quale Moro fu da lui conosciuto e definito, il Papa sarebbe morto il 6 agosto, poco dopo la fine di Moro e quel grido disperato a Dio che non aveva voluto ascoltare le sue preghiere: un grido lanciato partecipando ai funerali celebrati nella Basilica di San Giovanni senza il feretro del defunto, sottratto alle cerimonie pubbliche per disposizione testamentaria dello stesso Moro.

Solo un uomo, purtroppo generalmente e ingenerosamente ignorato anche a più di 42 anni di distanza da quella tragedia, cercò davvero di salvare Moro raccogliendone le indicazioni politiche. Fu al Quirinale Giovanni Leone, pronto a firmare la grazia ad una detenuta -Paola Besuschio- compresa nell’elenco dei 13 prigionieri da scambiare con l’ostaggio. Ma i terroristi, tempestivamente informati da una fonte che è stata l’ossessione di Leone sino alla morte, nel 2001, lo precedettero ammazzando l’ostaggio.

Duole che il mio amico carissimo Paolo Mieli, storico di professione oltre che giornalista autorevole, abbia di recente riproposto in un breve ed ermetico passaggio di una intervista sui problemi odierni la storia di Leone costretto alle dimissioni nel 1978, poco dopo la morte di Moro, per effetto di un referendum contro il finanziamento pubblico superato cosi faticosamente dai partiti da avere indotto i comunisti a chiedere ai democristiani, e ottenere, il sacrificio delle dimissioni del capo dello Stato, a sei mesi dalla scadenza del mandato. Doveva essere una scossa per la riabilitazione di una classe politica in odore, o puzza, di discredito.

Eppure si era appena consumato il sacrificio di Moro morendo in quel modo.  Leone, carissimo Paolo, fu allontanato dal Quirinale per avere osato dissociarsi o distinguersi dalla linea della fermezza durante il sequestro del presidente della Dc. Era diventato un uomo, e un presidente, troppo scomodo da lasciare al suo posto, senza farlo uscire dalla scena in tono a dir poco dimesso. Se gli storici di oggi faticano ancora a riconoscerglielo, spero che vi provvedano quelli del futuro, magari con l’aiuto di qualche documento finalmente desecretato.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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