Miracolo alle Dogane: Beppe Grillo non mena nessuno, neppure Luigi Di Maio

Che c’azzecca quello là?” avrebbe chiesto Antonio Di Pietro vedendo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio nel salone dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli per la presentazione di un libro sull’attività di questo ramo del Ministero delle Finanze. Sì, d’accordo, a giustificazione del presunto intruso si può dire che le dogane in qualche modo richiamano le frontiere. E le frontiere possono richiamare anche il Ministero degli Esteri, a dispetto della convinzione maturata da Matteo Salvini, quand’era ministro dell’Interno, che a difendere le frontiere dovesse provvedere il Viminale, prima ancora della Farnesina e del Ministero intestato proprio alla Difesa.

            Sveglio com’è, ed era già sugli spalti dello stadio di Napoli a intercettare le richieste di bibite da parte degli spettatori, Luigi Di Maio non si è lasciata scappare l’occasione del libro dell’Agenzia delle Dogane per corrervi, incontrare e farsi riprendere, tra telecamere, macchine fotografiche e telefonini, col presidente del Consiglio e -udite, udite- il fondatore, garante, elevato e quant’altro del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo. Che, abituato com’è da comico professionale a scherzare di tutto e su tutto, ha spiegato la sua presenza con la necessità di trovare un impiego ora che l’emergenza virale gli ha decimato gli spettacoli e i guadagni. Pronto alla battuta pure lui, il direttore dell’Agenzia  gli ha subito proposto -si fa per dire- di lavorare alle dogane nell’aeroporto di Fiumicino.

            Scherzi a parte, davvero e non in una qualche riedizione della fortunata e omonima trasmissione televisiva, l’occasione è stata utile a Grillo per dimostrare anche di potere arrivare ad un appuntamento senza menare o spingere rovinosamente per le scale qualche fastidioso cronista, come gli era accaduto qualche giorno prima; al presidente del Consiglio Giuseppe Conte per ostentare i buoni rapporti col personaggio ancora simbolo della maggiore formazione del suo governo, e non con persone dal grado ormai indecifrabile, vista la crisi identitaria e d’altro tipo ancora che l’attraversa dalla batosta subita nelle elezioni europee dell’anno scorso, e a Luigi Di Maio per sostituire con un solo colpo, o in una sola volta, il “reggente” Vito Crimi, succedutogli nella veste di capo del movimento pentastellato, e il guardasigilli Alfonso Bonafede, succedutogli invece  come capo della delegazione al governo. Anche questo ruolo è stato infatti perduto da Di Maio col passo indietro di ormai parecchi mesi fa, compiuto col proposito attribuitogli allora da molti di tornare entro poco tempo più forte di prima sul gradino sotto l’”Elevato”, con la maiuscola. Non aveva messo nel conto, poveretto, il Covid 19  e la conseguente emergenza, con tutte le relative complicazioni .

            Ora, grazie -ripeto- all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, e a dispetto di un Davide Casaleggio in giro per Roma coltivando i più disparati e immaginari progetti per il movimento co-fondato dal padre Gianroberto, il giovane Di Maio si è in qualche modo ripresa la scena: almeno quella fotografica, a tu per tu con Grillo in persona. Lo stesso sospettoso Conte vi ha in qualche modo contribuito.

            Se sono rose fioriranno, se sono solo spine pungeranno. Intanto la legislatura prosegue in modo così caotica che Sergio Mattarella è sbottato contestando al governo e alle Camere di avere snaturato la conversione in legge del decreto sulle semplificazioni inserendovi modifiche a 5 articoli del codice della strada che non c’entravano per niente. Non c’azzeccavano proprio, per tornare al linguaggio ruspante di Tonino Di Pietro.

 

 

 

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Dallo smemorato di Collegno al senatore smemorato di Scandicci

In un articolo dedicato sul Foglio dalla meticolosa Marianna Rizzini alla ripresa dei talk-show e simili dopo la pausa estiva, che non è stata però di riposo -va detto- per tutte le emittenti, alcune delle quali hanno coperto anche in agosto lo spazio dell’informazione non necessariamente confinata nei telegiornali, mi ha colpito il proposito annunciato dalla conduttrice di Unomattina, Monica Giandotti, di “mantenersi in una prospettiva di ascolto”. Che sarebbe “la scommessa più grande” in questa stagione dove abbondano, in effetti, certezze presuntuose.

Mi sono chiesto tuttavia se non c’è stato un eccesso di “ascolto” nella ripresa di uno di questi talk-show quando all’ospite politico di turno, Matteo Renzi, è stata risparmiata una interruzione doverosa al richiamo da lui fatto al dovere di votare “ogni cinque anni”,  alla scadenza ordinaria delle Camere. Della cui sopravvivenza alla crisi ministeriale dell’estate dell’anno scorso l’ex presidente del Consiglio, ora leader del movimento Italia Viva,  si è vantato avendo promosso la maggioranza giallorossa che sostiene, pur tra molte sofferenze, il secondo governo di Giuseppe Conte.

Sia chiaro, a scanso di equivoci, che l’interruzione non è mancata nello spazio di Unomattina. Né ho intenzione di nominare la trasmissione nella quale è avvenuta l’omissione perché mi interessa il peccato, non il peccatore: in questo caso il conduttore, ma anche un altro giornalista ospite della puntata insieme col senatore di Scandicci. Che, secondo me, avrebbe dovuto essere invitato, naturalmente con tutta la cortesia del caso, e pure con un pizzico di ironia, a non fare lo smemorato di Collegno rivendicando il merito di aver fatto nascere nell’estate dell’anno scorso la maggioranza giallorossa.

Lo smemorato di Collegno, un po’ Bruneri e un po’ Canella, fu protagonista fra il 1927 e il 1931 di un famoso caso giudiziario. Nel 1962 ne sarebbe stato riproposto il ricordo con un film celebre anche per la partecipazione di Totò, diretto da Sergio Corbucci.

Renzi dimentica, nella foga antisalviniana che conserva anche ora che sulla Lega dell’ex ministro dell’Interno non soffiano più i venti dei sondaggi di un anno fa, che alla fine del 2016 fu proprio lui, sconfitto nel referendum sulla riforma costituzionale che ne portava il nome, a reclamare le elezioni anticipate. Anticipate, in particolare, di poco più di un anno. E per ragioni niente affatto peregrine.

La legislatura cominciata nel 2013 col naufragio del progetto di Pier Luigi Bersani di un governo insieme “di minoranza e di combattimento”, appeso alla benevolenza dei grillini, acquistò un  senso e un contenuto, dopo una breve esperienza di Enrico Letta a Palazzo Chigi ispirato alle cosiddette “larghe intese”, con la riforma costituzionale promessa appunto dal governo Renzi. E benedetta al Quirinale da un Giorgio Napolitano lasciatosi confermare alla scadenza del suo primo mandato presidenziale su richiesta quasi supplichevole di quasi tutti i partiti e delle Regioni. Che non erano riusciti a trovargli un successore impallinando a scrutinio segreto i vari candidati che esprimevano i loro parlamentari o delegati.

Una volta bocciata con lo strumento referendario la riforma costituzionale, forte anche del 40 per cento dei consensi che era riuscito ugualmente a raccogliere attorno al suo progetto, Renzi ritenne non a torto esaurito di fatto il programma di lavoro di quella legislatura. E chiese, con i dovuti modi riservati ma chiari, lo scioglimento anticipato delle Camere a Sergio Mattarella, nel frattempo succeduto ad un Napolitano davvero stanco: non della stanchezza preventiva, diciamo così, attribuita recentemente da Giuseppe Conte a un Mario Draghi da tanti desiderato e immaginato al suo posto a Palazzo Chigi.

Mattarella nell’esercizio insindacabile delle sue prerogative costituzionali, preoccupato di un vuoto che si sarebbe potuto creare in un contesto europeo denso di timori e preoccupazioni, non aderì alla richiesta di Renzi, che l’anno dopo se ne sarebbe pubblicamente doluto. Seguirono a quel rifiuto, con incontrovertibile sequenza di fatti, la conferma di Renzi alla segreteria del Pd amputato però della della sinistra dei vari Bersani, D’Alema e infine Pietro Grasso ancora presidente del Senato, la mobilitazione di piazza dei grillini e le elezioni ordinarie del 2018. Che segnarono la disfatta del Pd ancora renziano e il successo formale del centrodestra a trazione leghista ma sostanziale del Movimento 5 Stelle. Attorno ai cui problemi, più che alla cui forza, sta ruotando questa diciottesima legislatura repubblicana. Che è anch’essa ingessata, come la precedente dopo la bocciatura  referendaria della riforma costituzionale, con quali effetti si potrà valutare solo alla fine, d’accordo. Ma saranno prevedibilmente abbastanza alti, anche per la combinazione con i risultati del referendum del 20 settembre sui 345 seggi tagliati alle Camere con le forbici grilline.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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