Marco Travaglio “ammanetta” Alessandro Di Battista

            Fra “le bizzarrie di un voto in maschera”, come le ha definite in questi tempi di epidemia virale la direttrice del manifesto Norma Rangeri, va annoverato anche l’attacco di bile politica del direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio contro l’aspirante alla guida del Movimento 5 Stelle Alessandro Di Battista. Che nel comizio di chiusura della campagna elettorale a Bari a favore della candidata grillina alla presidenza della regione Puglia si è permesso di buttare “nel cesso” l’appello di Travaglio, appunto, al voto cosiddetto disgiunto: a favore del governatore uscente Michele Emiliano, del Pd, e dei candidati consiglieri della concorrente pentastellata Antonella Laricchia.  Così dovrebbero fare gli elettori grillini, secondo il direttore del giornale che dà loro consigli per quanto non richiesti, della Toscana: un’altra regione ancora più clamorosamente in bilico nel turno elettorale di oggi e domani per la candidatura di disturbo della pentastellata Irene Grilletti a governatrice.

            Travaglio ha metaforicamente ammanettato e liquidato come un veterocomunista il pur giovane Di Battista, Dibba per gli amici, da lui peraltro valorizzato e compensato negli anni e mesi scorsi per i reportage alla Che Guevara mandati al Fatto prima di violarne la linea politica a favore di una sempre più intensa e diffusa alleanza fra le 5 Stelle e un Pd più “rispettoso” del precedente partner di governo. Che era notoriamente Matteo Salvini, ora da vietare, o quasi, alla vista anche delle maggiorenni.

            Nello scontro diretto fra Travaglio e Dibba è stato arbitrariamente e implicitamente coinvolto dal direttore del Fatto Quotidiano il compianto Indro Montanelli per quel suo invito nelle elezioni politiche del 1976 a votare Dc “turandosi il naso”, evitandone il sorpasso ad opera del Pci di Enrico Berlinguer. E ciò anche a costo di danneggiare i partiti laici minori, a cominciare dal Pri lamalfiano, che al Cilindro erano sempre stati a cuore.

            Abituato a lavorare con Montanelli ben prima di Travaglio, posso assicurare che al compianto fondatore e a lungo direttore del Giornale  mai sarebbe venuto in mente di fare il consigliere, l’istruttore e quant’altro di un movimento come quello appeso agli umori di  Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Vito Crimi e Davide Casaleggio.

 

 

 

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Il referendum sulle forbici grilline ci ha restituito Giovannino Guareschi

            Il referendum sui tagli dei seggi parlamentari ci ha restituito in qualche modo Giovannino Guareschi, un cui manifesto contribuì alla vittoria della Dc di Alcide De Gasperi nelle storiche elezioni politiche del 18 aprile 1948 contro il “fronte popolare” dei socialisti e comunisti. L’elettore venne esortato, in particolare, a temere nella cabina elettorale più Dio che Stalin, la cui immagine veniva fuori peraltro -sempre sui manifesti e volantini elettorali- rovesciando quella di Giuseppe Garibaldi adottata dagli avversari dello scudo crociato.

            Eppure quella mano data alla Dc per vincere non impedì dopo qualche anno a Guareschi, sul suo Candido, di attaccare De Gasperi accusandolo di avere scritto, forse addirittura dalla Biblioteca del Vaticano dove lavorava e si nascondeva durante l’occupazione nazifascista di Roma, due lettere al generale britannico Harold Alexander chiedendogli di fare bombardare la Capitale d’Italia per fiaccare le resistenze alla liberazione. Condannato in prima istanza per l’incertezza sull’autenticità delle lettere, Guareschi rifiutò di appellarsi per scontare la pena di un anno di carcere e mettere, secondo lui, più in difficoltà De Gasperi. Che invece gli rispose ricordandogli di essersi fatto anche lui un po’ di galera, per antifascismo.

            Nico Pillinini, il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno appena promossa “bene culturale” dalla Soprintendenza di Bari,, ha ieri riproposto quel manifesto elettorale di Guareschi agli elettori del referendum odierno lasciando al suo posto Dio -che “ti vede”- e sostituendo il nome di Stalin – che “non ti vede”- col più modesto Luigi Di Maio. Il quale si trova tuttavia nella incredibile situazione di poter fare paura per il peso abnorme che il suo movimento ha guadagnato nelle elezioni politiche del 2018 e conserva nel Parlamento ingessato dopo le sistematiche perdite di voti subite dai grillini ogni volta che si sono poi misurati nelle urne.  

            L’ultimo attaccapanni cui il movimento 5 Stelle ha potuto appendere il suo abito politico con qualche probabilità di salvarlo è appunto il referendum sui tagli ai seggi parlamentari, imposti nel Parlamento agli alleati di turno: prima ai leghisti e poi al Pd, che pure nei precedenti passaggi parlamentari sull’amputazione delle Camere aveva votato contro. Ora di un sì referendario i grillini hanno bisogno come i pesci dell’acqua, nel mare dell’antipolitica e dell’antiparlamentarismo in cui sono nati.

           Il quanto più sarà largo, tanto più servirà ai pentastellati per nascondere la loro crisi interna d’identità e di altro ancora. Quanto più sarà ristretto, come il caffè all’anno -non al giorno- che ogni italiano potrà consumare con 345 parlamentari “privilegiati”, “assenteisti” e “spreconi” in meno, tanto più aggraverà la crisi grillina, se non si arriverà addirittura all’esplosione del movimento con una vittoria del no. Le cui motivazioni sono state parzialmente riconosciute persino dall’esimio professore e presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky nella “lezione” agli elettori chiesta o comunque ospitata dal Fatto Quotidiano con un titolo in cui si dice che “non stanno in piedi molte ragioni del No”: non tutte quindi. E fra le ragioni del si ce ne sono di clamorosamente contraddittorie, vista l’avvertenza iniziale dello stesso professore: “Premesso che non mi piace sentire il linguaggio triviale di chi parla di tagli di poltrone…”. Eppure è esattamente il linguaggio dei grillini: “triviale” appunto. Non a caso Vladimiro, il fratello maggiore di Gustavo Zagrebelsky, giurista pure lui, ha annunciato sulla Stampa il suo no referendario.

           

             

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