Sulla testa di Zingaretti la tegola del sondaggista Nando Pagnoncelli

               Temo che Nando Pagnoncelli abbia fatto andare storto il caffè questa mattina al segretario del Pd Nicola Zingaretti con quel sondaggio Ipsos per il Corriere della Sera che dà il centrodestra in vantaggio “con ogni legge elettorale”, come dice impietosamente un titolo in prima pagina. “Con il sistema elettorale attuale o con il Germanicum” -su cui Zingaretti sta trattando con i grillini fra un rinvio e l’altro dell’approdo della riforma nell’aula della Camera per il suo primo passaggio parlamentare- ”non importa: il risultato non cambia. Il centrodestra avrebbe sempre la maggioranza”.

                L’unica consolazione lasciata da Pagnoncelli a Zingaretti, e anche a Silvio Berlusconi, è che “Salvini e Meloni avrebbero però bisogno di Forza Italia”. Ma è una consolazione per modo di dire perché il Pd sarebbe comunque destinato a tornare all’opposizione dopo avere aiutato i grillini, col cambio di maggioranza l’anno scorso, ad evitare elezioni tanto anticipate quanto distruttive per il movimento 5 Stelle, dimezzato nelle urne per il rinnovo del Parlamento europeo da Salvini dopo meno di dodici mesi di governo insieme.

            Quella di Pagnoncelli non è stata tuttavia l’unica notizia brutta per Zingaretti. Non gli deve essere piaciuta molto neppure un’intervista di Massimo Cacciari alla Verità che ripropone come “una leggenda” la vittoria generalmente attribuita al Pd nelle elezioni regionali di domenica e lunedì scorso per avere ceduto al centrodestra solo le Marche -la quindicesima regione su venti ora nella disponibilità politica degli avversari- e non anche le Puglie e soprattutto la Toscana, apparse in bilico per una buona parte della campagna elettorale.

            Ma oltre a contestargli la  “leggenda” più o meno metropolitana della vittoria elettorale del 21 settembre Cacciari, che non si può certamente considerare un elettore di centrodestra con tutta la storia politica e amministrativa che ha sulle spalle, ha segnalato a Zingaretti la situazione per niente statica della Lega. Dove “Zaia rimedia agli errori di Salvini”, in tandem -aggiungo io- con Giancarlo Giorgetti. Che non avrà i voti dell’ora governatorissimo leghista del Veneto ma i  rapporti giusti con l’Europa sì, dove d’altronde il primo governo Conte, quello gialloverde, stava per mandarlo l’anno scorso, prima della crisi, per rappresentare l’Italia nella nuova Commissione di Bruxelles. E se lo stesso Giorgetti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si tirò indietro parlandone col capo dello Stato, lo fece diffidando non tanto di Salvini e della comune Lega ma dei grillini, da lui considerati sotto sotto, nonostante l’appoggio poi fornito ad Ursula Von der Leyen per l’elezione a presidente di quella Commissione, più sovranisti ed euroscettici del “capitano”.

            Ciò che si sta muovendo nella Lega, tra la segreteria in cantiere e i “pali” e paletti di Zaia e Giorgetti, non piace per niente naturalmente al Fatto Quotidiano, sulla cui prima pagina Vauro Senesi ha espresso bene i sogni di Marco Travaglio rappresentando Salvini in galera, impegnato a dare spallate alla porta della cella. Gratta gratta, è sempre lì, fra le sbarre o in manette nel passaggio da un tribunale all’altro, che Travaglio vorrebbe quelli che non gli stanno simpatici, prima o dopo -magari- anche qualcuno fra i grillini resistenti ai suoi consigli. Il lupo, dice un vecchio proverbio, perde il pelo ma non il vizio. E il lupo è già più nobile, diciamo così, dello sciacallo.

 

 

 

 

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Giorgetti assicura sulla Lega: “Non siamo completamente tonti”.

Anche se è la confusione crescente fra i grillini, nonostante il tonico sì referendario alle Camere tagliate con le loro forbici, ad attirare la maggior parte dell’attenzione degli osservatori politici, penso sia più interessante, e decisivo per le prospettive politiche persino di questa legislatura un po’ ingessata, ciò che sta accadendo fra i leghisti.  Una cui evoluzione potrebbe, in particolare, ridurre le remore del capo dello Stato ad uno scioglimento anticipato delle Camere in caso di crisi, prima che cominci il suo cosiddetto semestre bianco, cioè l’ultima frazione del mandato presidenziale in cui gli è preclusa l’interruzione, appunto, della legislatura.

In una coincidenza non so se più casuale o fortunata  l’ormai  governatorissimo del Veneto Luigi Zaia -con quel 76 e rotti per cento di voti ottenuto nella sua regione- e il vice segretario del partito Giancarlo Giorgetti hanno posto il problema di un aggiornamento, a dir poco, del programma del movimento.

Zaia, intervistato dal Corriere della Sera, pur liquidando come “manfrine” i tentativi di contrapporlo a Salvini e di coinvolgerlo nelle polemiche interne, tenendo anzi a riconoscere al “capitano” il merito di avere raccolto “un cadavere eccellente” per riportalo “nell’Olimpo”, ha detto che “una persona”, per quanto molto votata in un certo momento, non basta per vincere se le manca -si presume, come adesso- “un consolidato programma politico”. Che il governatorissimo ha paragonato a “un palo”, inteso come “supporto per continuare a crescere”.

Non mi sembrano parole dette così, a caso, da chi peraltro è in politica non da ieri, o l’altro ieri. Sono parole di un ancora più grande significato, o portata, se collegate a quelle dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti pronunciate nel contesto di un’intervista a Repubblica centrata sul problema di una nuova legge elettorale questa volta interamente proporzionale, in linea di massima concordata fra Pd e Movimento 5 Stelle con una incertezza per ora riguardante solo o soprattutto la cosiddetta soglia di accesso per partecipare alla distribuzione dei seggi parlamentari. E’ una soglia che Giorgetti sospetta sia destinata a scendere via via sotto il 5 per cento originariamente previsto, allo scopo di soddisfare i partiti minori dell’attuale coalizione di governo, a cominciare dall’Italia dei Valori di Matteo Renzi. Che Alessandra Ghisleri ha appena valutato sulla Stampa, in base ai risultati delle elezioni in cui il nuovo partito si è misurato domenica e lunedì scorso, attorno al 3,7 per cento, contro il 5,1 attribuitosi dall’ex presidente del Consiglio.

Ebbene, Giorgetti ha detto a Repubblica che “va sicuramente precisato e affinato quello che la  Lega propone all’Italia”. “Di questo -ha precisato- abbiamo discusso con Matteo Salvini.  E’ chiaro che il lockdown e il cambiamento che si è avuto nella società impone una riflessione. Dobbiamo preparare una proposta per le politiche….Dobbiamo essere inclusivi e aprirci a mondi che ci guardano ancora con diffidenza e sospetto. E, se abbiamo fatto degli errori, li dobbiamo correggere”.

Non credo che Giorgetti, già sbottato in campagna elettorale con quel no referendario gridato ai tagli dei seggi parlamentari ancora difeso da Salvini, potesse essere più chiaro ed esplicito. Invece ha voluto esserlo quando ha spiegato che fra “i mondi” ancora sospettosi verso i leghisti c’è quello europeo. Dove Salvini ha preferito l’alleanza con la francese  Marine Le Pen piuttosto che il dialogo col Partito Popolare, facendosi peraltro sorpassare dai grillini nel passaggio parlamentare di Strasburgo in cui fu eletta Ursula von der Leyen  a presidente della nuova Commissione Europea. I grillini infatti votarono a favore risultando decisivi per lo scarto di nove voti col quale l’allora ministra tedesca della Difesa fu eletta. I leghisti, tanto tentati dall’astensione da avere ottenuto “la comprensione” della Le Pen, essendo essi ancora al governo in Italia, ebbero invece all’ultimo momento l’ordine di votare contro. Errori da correggere, dice adesso Giorgetti forse pensando proprio o anche a quell’infortunio politico. E’ difficile chiamarlo diversamente.

In ogni caso, anche da responsabile della politica estera leghista Giorgetti ha rivelato che sta “riflettendo” con Salvini sulla collocazione della Lega in Europa per una decisione cui poi i parlamentari del Carroccio dovranno adeguarsi, senza pretendere di essere loro a decidere. “Siccome non siamo completamente tonti, ragioniamo”, ha precisato il vice di Salvini oosservando che “è il lockdown che ha cambiato l’Europa e l’atteggiamento della Commissione” nei riguardi dell’Italia, non quindi la sostituzione della Lega col Pd nel governo di Giuseppe Conte  e nella maggioranza. E’ ciò che d’altronde va dicendo e spiegando da qualche tempo, in polemica col suo successore Roberto Gualtieri, anche l’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria, convinto che l’Unione Europea venga immiserita quando si attribuisce la sua evoluzione solidaristica al ruolo non più di governo ma di opposizione della Lega.

            Di fronte ad un movimento leghista che pur si muove, come diceva Galileo Galilei dalla terra, è francamente difficile dire quanto ancora potrà durare la parte strumentale della rappresentazione fatta dell’Italia da Giuseppe Conte, Beppe Grillo, Matteo Renzi e Nicola Zingaretti, in ordine rigorosamente alfabetico, come di un Paese minacciato dal revanscismo fascista e sovranista della Lega di Salvini e perciò condannato a tenersi questa pur sofferta e sofferente maggioranza sino all’epilogo ordinario della legislatura, non potendosene prevedere costituzionalmente una proroga. A meno che Di Maio dalla Farnesina a tempo debito non dichiari la guerra alla Repubblica di San Marino per fare scattare la clausola bellica dell’articolo 60 della Costituzione per la proroga, appunto, di un Parlamento scaduto.

 

 

 

 

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