“Troppo fango sul Quirinale”, si è lamentato Paolo Mieli commentando in uno dei salotti televisivi che frequenta spesso gli ultimi sviluppi della lunga crisi di governo. E difendendo il capo dello Stato non solo dagli annunci grillini, poi rientrati, di promuovere contro di lui l’accusa di tradimento e attentato alla Costituzione dopo il no a Paolo Savona al Ministero dell’Economia, ma anche dal rimprovero del Giornale di famiglia di Silvio Berlusconi di non avere fatto tentare a Matteo Salvini la formazione di un governo di centrodestra.
In effetti il presidente della Repubblica si è procurato parecchie critiche e attacchi, non tutti contenuti nei limiti di una corretta, per quanto dura polemica politica, con insulti e minacce persino fisiche. E’ corsa a soccorrerlo in qualche modo anche la polizia sistemando nei pressi del Quirinale uno striscione in sua difesa.
Ma la sovraesposizione del capo dello Stato, chiamiamola così, nella gestione della crisi è stata ed è tuttora un fatto innegabile, per niente inventato. E’ stata una scelta dello stesso presidente, magari in buona fede, per carità, nella convinzione di fare al meglio il proprio lavoro, ma alquanto anomala, a dir poco. Una sovraesposizione superiore ad ogni altro precedente nella storia più che settantennale della Repubblica, compreso quello drammatico dell’estate del 1964: quando il presidente Antonio Segni fu tentato dal ritorno al centrismo, dopo meno di un anno di centrosinistra guidato da Aldo Moro, e temendo proteste in piazza chiese garanzie di ordine pubblico al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, già capo dei servizi segreti. Che aveva già pronto, o allestì per l’occasione, un piano avvertito di sapore golpista anche dall’allora ministro degli Esteri Giuseppe Saragat. Che, a crisi risolta con la prosecuzione del centro-sinistra, lo contestò personalmente a Segni in un incontro, presente Moro, finito con l’ictus del presidente adiratissimo.
Quella di Mattarella nella crisi che ancora si trascina, essendosi il presidente appena dato tutto il tempo necessario per tentare di rianimare il governo legastellato di Giuseppe Conte, o uno analogo, infrantosi contro la mancata nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia, è un’esposizione maggiore anche del precedente di Oscar Luigi Scalfaro nel 1992: quando le consultazioni furono allargate al capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli, nutrendo il presidente il sospetto che il segretario socialista Bettino Craxi, in procinto di essergli proposto alla guida del governo dalla Dc e dal Psi, fosse già coinvolto o stesse per esserlo nelle indagini sul finanziamento illegale della politica, note come “Mani pulite”. Craxi “allo stato” non lo era. Lo sarebbe stato dopo circa sei mesi. Ma Scalfaro per cautela preferì rifiutargli l’incarico, convincendolo a rinunciarvi spontaneamente a favore di un altro socialista a sua scelta. Che fu Giuliano Amato.
Ora Mattarella, bloccando la formazione di un governo tecnico già allestito su suo incarico da Carlo Cottarelli, e cogliendo segnali raccolti nel dibattito politico, fra comizi elettorali, interviste, dichiarazioni e comunicati, ha voluto esplorare le possibilità di superare, se non vogliamo dire rompere, la compattezza dei leader grillino e leghista nella designazione di Savona a ministro dell’Economia. Ed è riuscito in questa opera da “cuneo”, come è stata definita in qualche titolo di giornale, visto che Luigi Di Maio ha proposto una diversa collocazione di Savona nel governo, benedetta con l’”attenzione” annunciata dal Quirinale.
Matteo Salvini, ancora tentato dalle elezioni anticipate per i sondaggi che danno in forte crescita la sua Lega, si è mostrato incerto in una pur dichiarata apertura. E l’anziano economista Savona, già ministro nel governo di Carlo Azeglio Ciampi del 1993, ha finito per trovarsi nella scomoda posizione di un vecchio apparentemente irriducibile nelle sue ambizioni. Che starebbe resistendo ad una rinuncia o diversa destinazione, liberatoria per tutti quelli, compreso Mattarella, che lo hanno indicato come un potenziale destabilizzatore dell’euro e, più in generale, dell’Unione Europea. La sua colpa è solo di volerne cambiare le regole, naturalmente con le “opportune alleanze”, secondo le dichiarazioni dell’ex presidente del Consiglio incaricato Conte, non certo da solo, anche a costo di uscirne. Come se, peraltro, bastasse il pur importante ministro dell’Economia a portare fuori l’Italia dall’euro, e non fosse questa una decisione spettante al governo e a chi lo guida “promuovendo e coordinando l’azione dei ministri”: parole dell’articolo 95 della Costituzione sulla figura del presidente del Consiglio.
La sovraesposizione di Mattarella, infine, supera ogni precedente perché non vi è stata mai una campagna elettorale -come avverrà invece nella prossima, in qualunque stagione si finirà per arrivarvi, sicuramente in anticipo rispetto alla scadenza ordinaria della legislatura- col presidente della Repubblica, volente o nolente, scomodamente coinvolto.
Il fango sul Quirinale, per tornare all’immagine di Paolo Mieli, è sicuramente increscioso. Ma non è meno incresciosa la breccia attraverso la quale esso ha potuto arrivarvi, o lambirlo, con una gestione insolita della crisi. Dalla quale il presidente della Repubblica non può tirarsi o essere tirato fuori senza una superdose di ingenuità o generosità, generalmente poco compatibile con le abitudini della politica e dintorni.
Ripreso da http://www.startmag.it
Ora al Quirinale, per ripetere le parole tra virgolette attribuite da Marzio Breda sul Corriere della Sera ai “consiglieri più sperimentati” del capo dello Stato, si assiste a “una deriva nichilsta” contro Mattarella “che lascia senza fiato”.
Il giornale di Travaglio non solo avrebbe preferito un governo Di Maio-Pd, ma contesta a Savona non pochi precedenti politici e persino giudiziari nella sua lunga carriera pubblica. Eppure esso non condivide l’ostilità di Mattarella a Savona. E ne contesta anche la forma, che diventa sostanza quando si parla di rapporti istituzionali ad un livello così alto com’è quello del capo dello Stato: la forma di comunicati allusivi e di informazioni a dir poco indirette.
Qualche esitazione tuttavia si può ottimisticamente avvertire nelle riflessioni e nello stato d’animo del presidente della Repubblica leggendo la conclusione dell’odierna corrispondenza del già citato quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, aduso a interpretare bene, diciamo così, il clima del Quirinale. “Una soluzione di compromesso -ha scritto Breda- potrebbe venire da qualche dichiarazione correttiva dell’economista Savona prima che Conte salga al Quirinale”, cioè risalga con la lista dei ministri. Una dichiarazione, ripeto, “correttiva”, puntualmente arrivata, delle interpretazioni date ai suoi propositi o alle sue convinzioni, e delle “scomposte polemiche” condotte contro di lui, non una rinuncia di Savona. Come forse all’origine Mattarella si aspettava, prima di rendersi conto del vicolo cieco in cui, volente o nolente, egli aveva quanto meno contribuito a cacciare la crisi di governo.
Scampato di recente ad un’asta giudiziaria che avrebbe potuto portarla in chissà quali mani, il giornale è riuscito come numero 1 del 95.mo anno e si è collocato ben chiaramente all’opposizione, con una disamina molto critica e preoccupata del “contratto” che grillini e leghisti hanno stipulato per far nascere il primo governo di questa diciottesima legislatura repubblicana. E’ un contratto, secondo l’editoriale, che tradisce una vocazione populista e minaccia il Parlamento concepito con la Costituzione in vigore dal 1948.
Il quirinalista del Corriere della Sera è tornato nella sua “corrispondenza”, diciamo così, dal Colle ad attribuire dubbi e riserve sul professor Savona al presidente incaricato Conte, attribuendogli queste parole a proposito di una nomina dell’economista a ministro: “Giusto, presidente, è anche mio interesse non mettere in squadra delle mine vaganti. Non ho intenzione di portare l’Italia fuori dall’euro”. Come se Savona avesse fatto di questa uscita il suo obiettivo, e non un’ipotesi nel caso in cui la crisi dell’eurozona, chiamiamola così, dovesse rivelarsi insuperabile, o impraticabile la rinegoziazione, sollecitata da tante parti, delle regole e trattati comunitari. Anche dell’ex presidente italiano della Commissione europea di Bruxelles, Romano Prodi, si dovrebbe allora dire che quando critica le regole, da lui ben conosciute per il posto che ha occupato, vuole farci uscire dall’Unione e dalla moneta unica.