Le vite parallele di Donald Trump e Silvio Berlusconi

            Sono stati sicuramente in molti a pensare in Italia, ma anche altrove, a Silvio Berlusconi quando il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, meno anziano di lui di una decina d’anni, ha gridato in faccia alla “stampa bugiarda” di mentire spudoratamente quando gli dà o ne raccoglie l’immagine di “idiota”, sapendo benissimo che lui invece è “un genio molto stabile”. Riuscito a diventare da “ imprenditore di successo a presidente degli Stati Uniti d’America”. E questo peraltro senza perdere neppure un centesimo di dollaro dopo una campagna elettorale che deve essergli costata parecchio, ma guadagnandone ancora di più, alla faccia degli avversari, loro sì idioti, fuori e dentro i confini americani.

            Italiano al cubo, tanto da essere scambiato qualche volta per un razzista più che per un patriota, e in più direttore del Giornale della famiglia Berlusconi, fondato da Indro Montanelli nel lontano 1974 senza immaginare –credo- di poterlo perdere in meno di vent’anni, Alessandro Sallusti ha pensato pure lui al suo editore quando ha letto l’autocelebrazione di Trump. E lo ha scritto con sincerità e trasparenza tornando a rimproverare dopo più di 25 anni a Massimo D’Alema una profezia quanto meno avventata, e più volte smentita dall’interessato senza convincere evidentemente più di tanto Sallusti. Che gli ha nuovamente attribuito la qualifica di Berlusconi come di “un idiota che troveremo sui sagrati delle Chiese a chiedere l’elemosina”.

            Trump, favorito dalle dimensioni e dal sistema istituzionale del suo Paese, in qualche modo ha persino superato Berlusconi, che nella propria carriera politica si è dovuto fermare alla presidenza del Consiglio dei Ministri, perdendola e riconquistandola più volte. Il più stabile e corposo Quirinale gli è stato invece precluso. E Dio solo sa quanto gli sarebbe piaciuto insediarvisi, pur designandovi altri a parole.

Il Trump italiano ha avuto la sfortuna di trovare sulla sua strada, oltre ai soliti magistrati ossessionati dai suoi affari e dal suo stile di vita, un professore della Bocconi di nome Mario e di cognome Monti, da lui stesso promosso commissario europeo agli esordi di governo e accettato nel 2011 come successore a Palazzo Chigi, sino a concedergli la fiducia per l’insediamento. E a controfirmarne con piacere, da capo del governo ancora in carica, il decreto presidenziale di nomina a senatore a vita sottopostogli dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano.

            Ebbene, proprio Monti improvvisò poi per le elezioni politiche del 2013 un movimento politico dichiaratamente moderato o sobrio, che col suo 8 e più per cento dei voti impedì a un Berlusconi in sorprendente ripresa di sorpassare la coalizione di sinistra guidata dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani. E col mancato sorpasso mancò anche l’elezione parlamentare dell’ancòra Cavaliere a presidente della Repubblica, come si vantò Monti. Che, soddisfatto di tanta impresa, scaricò il proprio movimento, lasciandolo sciogliere come neve al sole, per godersi sino in fondo il laticlavio.

            So bene che la storia non si fa con i se. Ma lasciatemi esprimere la convinzione che, per quanti processi avesse sul groppone, un Berlusconi eletto nella primavera del 2013 presidente della Repubblica non sarebbe stato condannato in agosto in via definitiva dalla sezione feriale della Cassazione per frode fiscale: una condanna non a caso risparmiata ad altri in un processo analogo.

            Ma torniamo a Trump nella versione immaginaria di un Berlusconi più giovane, o meno anziano, esportato negli Stati Uniti d’America.  E allo sgomento che deve provare in questi giorni o in queste ore il povero Matteo Salvini, trumpista della prima ora in Italia, messosi in testa di sottrarre a Berlusconi la leadership della nuova edizione del centrodestra in allestimento per le elezioni del 4 marzo, forse con troppe gambe per poter poi camminare diritto.

Il falso scandalo della “democristiana” Emma Bonino

            Si fa presto a liquidare satiricamente il “matrimonio” elettorale fra le liste di Emma Bonino e di Bruno Tabacci  con vignette del tipo di quella di Vauro sul Fatto Quotidiano, che ha improvvisato l’apertura di una rivendita di Sali e Tabacci all’insegna anche del copricapo che l’esponente radicale indossa abitualmente, da quando la chemioterapia le ha fatto fare i conti col tumore. E già questo dovrebbe bastare e avanzare per attendersi qualcosa di diverso anche in una vignetta.

            Si fa presto pure a buttarla nell’ortodossia della militanza, ammonendo a non confondere Emma Bonino, Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi per il partito radicale registrato all’anagrafe politica, come ha fatto sul Dubbio il mio amico Walter Vecellio. Il quale si è doluto alla fine  che la protagonista di tante battaglie radicali abbia scelto di “sopravvivere” praticamente democristiana con Tabacci. Ma, viste le già ricordate condizioni di salute dell’interessata, non sarebbe stato forse male se Walter si fosse fermato sulla soglia di quella infelice ironia.

            Se vi è una cosa –credo- incompatibile con la tradizione radicale lasciataci da Marco Pannella, questa è l’ortodossia. Dalla quale lo stesso Pannella si vantò una volta con me di “fottersene allegramente”, quando provai a contestargli amichevolmente l’alleanza stretta con un democristiano di tradizioni orgogliosamente conservatrici, allora, come Mario Segni. E ciò pur di fare uscire la Repubblica dal sistema elettorale proporzionale nel quale, e in funzione del quale, era stata concepita la Costituzione nel 1947, per portarla in quella che si è rivelata l’avventura del sistema maggioritario. Per giunta, tutto questo è stato fatto  usando la modifica sostanzialmente referendaria della vecchia legge elettorale, con la benedizione di una Corte Costituzionale che già Pannella a giorni alterni liquidava allora come una Cupola.

              Dobbiamo all’avventura –ripeto- del sistema maggioritario, neppure genuino peraltro, perché mescolato con quote di proporzionale, l’illusione data agli italiani per una ventina d’anni di andare alle urne per eleggere contemporaneamente il Parlamento e il governo, nella persona del candidato ufficiale a presidente del Consiglio, rimasto però appeso alla nomina da parte del presidente della Repubblica, come imposto dalla Costituzione.

            L’effetto di questa illusione, contraddetta da un bel po’ di governi succedutisi nel ventennio abbondante della cosiddetta seconda Repubblica  sotto la guida, in ordine rigorosamente cronologico, di Lamberto Dini, Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, nessuno dei quali proposto agli elettori in quella veste,  è stata la personalizzazione della politica. Che è riuscita a fare il miracolo della rivalutazione dei vecchi partiti, nel frattempo morti e sepolti, ma riesumati di tanto in tanto in qualche vignetta per mettere alla berlina l’avversario o l’antipatico di turno, al maschile o al femminile.

L’aristocratico e urticante commiato di Antonio Martino dal Parlamento

            Solo un liberale aristocratico come Antonio Martino, già ministro degli Esteri e della Difesa nei governi di Silvio Berlusconi, e figlio di Gaetano, ministro degli Esteri nei governi di Mario Scelba e di Antonio Segni, cofirmatario in quella veste dei trattati europei firmati in Campidoglio nel 1957, poteva permettersi il gusto e il lusso di raccontarlo. Gli è capitato, fra l’altro, di rifiutare la segreteria generale della Nato, come aveva già fatto a suo tempo il padre, per non perdere il tempo con la consuetudine di trattenere  a pranzo ”due volte alla settimana” gli ambasciatori dei paesi partecipi dell’alleanza. Lui, poi, che dopo pranzo ha l’abitudine, rispettata anche nei soggiorni americani, di un buon riposo rigorosamente in pigiama.

            Solo un uomo della cultura e delle esperienze cattedratiche di Antonio Martino, 75 anni compiuti da poco, poteva permettersi il lusso di comunicare personalmente a Berlusconi in questa convulsa stagione di preparazione delle liste elettorali di considerare chiusa anche la sua esperienza parlamentare perché sfinito dallo spettacolo del “votificio” di Montecitorio. Ma soprattutto dal livello sempre più basso della preparazione dei suoi, a quel punto, indegni colleghi. Che votano il più delle volte senza sapere nulla di ciò di cui si stanno occupando.

            Solo un uomo dell’arguzia, dell’ironia e del prestigio come Antonio Martino, anche se di questo non ha voluto vantarsi nell’intervista di commiato dal Parlamento rilasciata il 4 gennaio ai quotidiani del gruppo Riffeser-Monti, poteva permettersi otto anni fa di scrivere all’allora presidente del Consiglio, non perdendone né il rispetto né l’amicizia, un biglietto di questo tenore, all’incirca: “Caro Silvio, vedo che da qualche tempo ti circondi di donne con molto seno e poco senno”.

            All’amico Berlusconi il professore Martino, sempre nell’intervista di commiato parlamentare, ma di disponibilità a rimanere a sua disposizione per consigli e quant’altro, ha solo voluto rimproverare di non essere stato con lui “del tutto trasparente” nell’ultima edizione della corsa al Quirinale, svoltasi alla fine di gennaio del 2015 per la successione a Giorgio Napolitano, dimissionario verso la fine del secondo anno del suo secondo mandato. In quella occasione –ha raccontato Martino- Berlusconi lo designò e lo fece votare dai suoi gruppi parlamentari come candidato a presidente della Repubblica mentre “iniziava a fare campagna elettorale” dietro le quinte per Giuliano Amato. Al quale invece l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, “un affabulatore –lo ha definito Martino-  in larga misura vuoto”, preferì e impose Sergio Mattarella, anche a costo peraltro-aggiungo io-  di complicarsi la vita.

              

La generosità astuta di Bruno Tabacci con Emma Bonino

Il 2018 è appena cominciato e abbiamo già da festeggiare il matrimonio forse più clamoroso dell’anno. E’ quello tutto politico, per carità, fra la radicale più famosa d’Italia e il democristiano fra i più inossidabili, sopravvissuto allo scioglimento della Dc annunciato con un telegramma all’allora Consiglio Nazionale da Mino Martinazzoli, che ne fu pertanto l’ultimo segretario.

            Lei, la sposa, è naturalmente Emma Bonino, 70 anni da compiere a marzo, piemontese, 7 legislature alle spalle, sia pure a spezzoni come erano abituati a fare i radicali dimettendosi dopo un po’ per fare subentrare in Parlamento altri esponenti dello stesso partito. In verità, qualcuno di legislature  della Bonino ne ha contate otto, ma poco importa chi abbia ragione. Si può ben dire lo stesso che la signora è una veterana del Parlamento, dove peraltro è stata anche vice presidente del Senato tra un incarico di governo e l’altro, essendo stata ministra degli affari europei, del commercio estero e degli Esteri, oltre ad avere onorato l’Italia, per riconoscimenti unanimi a Bruxelles, come commissaria europea, su designazione allora del primo governo di Silvio Berlusconi.

            Eppure, pensate un po’, la mia amica Emma ha forse più nemici nel suo mondo, quello una volta radicale nel senso pannelliano, che fuori. Sono gli scherzi delle militanze politiche molto forti. E di un’eredità sempre difficile da prendersi o da assegnare quando a scomparire è stato un uomo così particolare come Marco Pannella, che ogni tanto si divertiva a divorare i suoi delfini, nella consapevolezza neppure nascosta di essere unico.

            Lo sposo di questo clamoroso matrimonio del nuovo anno è naturalmente Bruno Tabacci, 71 anni compiuti nello scorso mese di agosto, 5 legislature alle spalle, già presidente della sua regione ai tempi della cosiddetta prima Repubblica e poi, fra l’altro, assessore al bilancio della giunta comunale di Milano presieduta da Giuliano Pisapia. Le sigle e i gruppi o movimenti per i quali egli è transitato dopo la fine della Dc è sicuramente lungo, ma scandalizzarsene sarebbe sciocco dopo la caduta delle ideologie, al plurale, col crollo del muro comunista di Berlino, ben prima quindi che il povero Martinazzoli sciogliesse la Dc inseguita, come altri partiti, dai cacciatori di teste in servizio permanente effettivo presso quasi tutte le Procure della Repubblica, improvvisamente accortesi della lunga e consolidata pratica del finanziamento illegale della politica.

            Ma non divaghiamo. E torniamo al matrimonio politico di quest’anno appena nato, a Camere sciolte e quindi con gli adempimenti in corso per la presentazione delle liste dei candidati alle elezioni politiche del 4 marzo. Il vecchio –si fa per dire- signore lombardo ha avuto la galanteria, o la generosità, come l’ha definita la beneficiaria, di esonerare la vecchia signora piemontese- si fa sempre per dire- dall’obbligo di raccogliere in pochi giorni venticinquemila firme in tutta Italia per poter depositare le sue liste chiamate +Europa. Con le quali Tabacci mescolerà, per questa tornata elettorale, quelle del suo Centro Democratico. Che, essendo un partito già rappresentato con tanto di gruppo in Parlamento, è considerato dalla legge abbastanza noto per fare a meno di farsi riconoscere dagli elettori  col rito delle firme.

            Nel celebrare in pubblico le loro nozze politiche gli sposi hanno annunciato che decideranno solo in un’assemblea indetta per il 13 gennaio se e con qualche schieramento apparentarsi a loro volta nelle elezioni. Ma solo un colpo di scena ancora più clamoroso del loro matrimonio politico potrà portare Emma Bonino e Bruno Tabacci a rifiutare l’apparentamento offerto loro dal Pd di Matteo Renzi. Che avrà così una gamba dichiaratamente europea e di centrosinistra affiancata a quella dichiaratamente centrista della ministra uscente della Sanità Beatrice Lorenzin, già del Nuovo Centro Destra e poi Alternativa Popolare del ministro uscente degli Esteri Angelino Alfano.

            Ciò naturalmente ha già fatto saltare la classica mosca al naso agli avversari di Renzi, che avevano appena goduto del fallimento del tentativo di Giuliano Pisapia, affiancato proprio da Bruno Tabacci, di allestire una lista elettorale apparentata col Pd.

            Fallita l’operazione Pisapia con una rinuncia dell’ex sindaco di Milano più subìta che condivisa dal suo ex assessore al bilancio, Tabacci con un misto di generosità e di astuzia politica si è quindi predisposto a raggiungere con Emma Bonino lo stesso obiettivo di un soccorso politico a Renzi.

Il riscatto di Virginia Raggi dalla disavventura di Spelacchio

Fresca di riconciliazione col marito, Virginia Raggi è riuscita a conquistare le prime pagine dei giornali con una iniziativa che la riscatta come avvocato dopo i tanti incidenti in cui è incorsa come sindaca di Roma: un ruolo obiettivamente sproporzionato rispetto alla sua esperienza, con tutte le complessità che ha una città come la Capitale. Non dimentichiamoci la professione forense della signora, per quanto incorsa in una infinità di polemiche, anche o soprattutto all’interno del suo stesso movimento politico, quello delle 5 stelle, per aver fatto pratica a suo tempo nello studio di Cesare Previti, legale e amico storico del mai abbastanza odiato Silvio Berlusconi. E, in più, condannato in via definitiva, interdetto per sempre dai pubblici uffici e conseguentemente espulso dall’ordine professionale, per corruzione in atti giudiziari.

Con mossa una volta tanto avveduta, viste le complicazioni procuratesi, a torto o a ragione, con tante decisioni prese in Campidoglio dal giorno della sua elezione, la Raggi ha preceduto l’udienza preliminare del 9 gennaio sulla richiesta della Procura di Roma di rinvio a giudizio per falso in atto pubblico. Ha invece chiesto lei stessa di essere giudicata col rito immediato, sia pure nella solita variante italiana. Che di immediatezza ha solo il termine, essendo destinato per le solite questioni procedurali, organizzative e quant’altro, a scavalcare la scadenza delle elezioni politiche del 4 marzo. Alle quali la sindaca di Roma non è interessata, ma lo è naturalmente il suo partito, dove non mancano certamente i problemi e avrebbe potuto procurarne di aggiuntivi un rinvio a giudizio subìto, con tanto di sostanziale convalida dell’accusa da parte di un giudice, e non da lei stessa sollecitato nella convinzione di poter essere assolta.

            Sul piano della propaganda, che è tutto in una campagna elettorale , specie per un partito come quello della Raggi, che aspira a governare anche da Palazzo Chigi, e quindi sull’intero Paese, e non solo dal vicino Campidoglio sulla sola Roma, l’iniziativa della “sindaca di Spelacchio”, come i suoi avversari l’hanno chiamata dopo l’infortunio dell’albero di Natale seccatosi in Piazza Venezia, ha avuto una sua logica felice. E’ stata di un’astuzia che in politica non guasta. E che potrebbe persino funzionare anche in sede giudiziaria, nonostante la palla al piede di un coimputato ingombrante come Raffaele Marra, ex capo del personale del Comune di Roma, già suo braccio destro, sotto processo anche per corruzione. 

            E’ stato proprio Marra, che non intende rinunciare in tribunale al rito ordinario,  a mettere la sindaca nei guai con quelle conversazioni in chat conservate nella memoria del telefono cellulare in cui la signora si doleva con lui di non essere stata informata sull’aumento dello stipendio derivato al fratello Renato, vice comandante dei vigili urbani, da una promozione al vertice della Direzione Turismo del Campidoglio. Di quella nomina di Renato Marra invece la Raggi si era assunta tutta la responsabilità in una comunicazione all’Autorità anticorruzione, esponendosi così all’accusa di falso.

Quella cena galeotta di Emma Bonino nei difficili rapporti con Renzi…

            Chissà se Emma Bonino cederà alla supplica di Sergio Staino, che in una vignetta sul Dubbio cerca di trattenerla, in ginocchio, dall’annuncio o dalla minaccia di non apparentarsi più elettoralmente col Pd di Matteo Renzi, correndo da sola per le nuove Camere. E ciò  per una lite, o qualcosa di simile, scoppiata su tempi e modalità della raccolta delle firme necessarie alla presentazione delle liste +Europa che faranno riferimento alla radicale forse più nota nel mondo giù ai tempi di Marco Pannella. Col quale, peraltro, i rapporti di Emma non furono mai semplici perché i due avevano in comune quello che comunemente si chiama un cattivo carattere, pur essendo la buonanima di Sandro Pertini convinto che bastasse avere carattere per sentirselo attribuire cattivo.

            Obiettivamente, nell’affrettata approvazione della legge elettorale con la quale voteremo il 4 marzo, scongiurando il rischio che andassimo alle urne con due leggi diverse, per la Camera e per il Senato, derivate dalle forbici della Corte Costituzionale, che le avevano entrambe tagliate, sono sfuggiti alcuni strafalcioni logici in materia proprio di raccolta delle firme. Cui “la zia d’Italia”, come la Bonino ironicamente si definisce per la simpatia che si è guadagnata nella sua lunga militanza politica, potrebbe provvedere solo affidandosi all’organizzazione del Pd, che peraltro le ha promesso di aiutarla, nei pochissimi giorni che le resterebbero a disposizione, una volta concordate con Matteo Renzi e i suoi delegati le candidature nei collegi uninomimali.

            Un po’ come Maria Antonietta ai tempi della rivoluzione francese, la mia amica Emma se n’è uscita accusando i dirigenti del Pd di averle offerto “brioche al posto del pane” invitandola a fidarsi di loro. E con ciò ha finto per esporsi al sospetto, da cui si è sentita offesa, di puntare a strappare a Renzi più candidature che firme, cioè di usare il problema delle firme strumentalmente, per aumentare il suo potere contrattuale nell’assegnazione dei collegi uninominali considerati più sicuri.

            Purtroppo a complicare le cose, intossicando trattative, polemiche e quant’altro, è arrivata la notizia di una recentissima cena galeotta di Emma Bonino con Enrico Letta, Fabrizio Saccomanni e Giuliano Amato. Galeotta, perché dei quattro ben tre hanno fatto parte del governo –Emma come ministra degli Esteri, Enrico Letta come presidente del Consiglio e Saccomanni come ministro dell’Economia- liquidato un po’ in malo modo da Renzi qualche settimana dopo essere diventato segretario del Pd. Ed anche il quarto, attuale giudice costituzionale e due volte presidente del Consiglio, per non parlare degli altri incarichi di governo ricoperti con Bettino Craxi, Giovanni Goria, Ciriaco De Mita, Romano Prodi e Massimo D’Alema, ha qualcosa da rimproverare o non perdonare a Renzi. Che gli preferì il collega della Consulta Sergio Mattarella nella corsa al Quirinale riaperta nel 2015 dalle dimissioni di Giorgio Napolitano, confermato due anni prima alla Presidenza della Repubblica.

            Poco importa se a torto o a ragione, questa cena è subito apparsa a chi ne è venuto al corrente più un’occasione di risentimenti comuni, e addirittura di vendetta, che di auguri per le feste natalizie. La Bonino a questo punto ha solo un modo per smentire davvero l’impressione obiettivamente sgradevole di un’impuntatura finalizzata a penalizzare Renzi, che  ha bisogno di alleati nelle elezioni del 4 marzo come del pane, e non delle brioche, per rimanere nella metafora di Emma: smetterla di impuntarsi e fidarsi dell’aiuto promessole dal Pd per la raccolta delle firme nei pur balordi tempi prescritti dalla legge. Che è difficile violare, o cambiare all’ultimo momento, come vorrebbe l’esponente radicale, senza aprire la strada a quella specialità tutta italiana dei ricorsi. Che rischierebbero di invalidare addirittura le elezioni.

Quando Moro si lamentava che il bene non facesse notizia….

Mi sono ricordato di un editoriale di Aldo Moro sul Giorno del 20 gennaio 1977 leggendo Piero Sansonetti. Che ieri sul Dubbio ha tratto spunto dai dati del Ministero dell’Interno sull’andamento della criminalità dal 1992 ad oggi, a dispetto del peggioramento generalmente percepito, per auspicare una informazione finalmente disintossicata. E, di riflesso, anche una lotta o quanto meno un dibattito politico meno esasperato. Che a sua volta genera quel risentimento di recente rilevato nel clima del Paese dal Censis. E non condiviso dal  fiducioso presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel breve messaggio di Capodanno.

Moro mandò al Giorno il suo editoriale con una proposta di titolo –Il bene non fa notizia- che il direttore Gaetano Afeltra adottò raccontandomi poi, nel suo indimenticabile e simpatico amalfitaliano, di averlo fatto con una certa apprensione, più per rispetto dell’autorevolissimo collaboratore, di cui naturalmente e giustamente era fiero, che per entusiastica condivisione. “Franceschì, con le buone notizie le copie di un giornale piangono”, mi disse Gaetanino consolandosi però rapidamente con quest’altra osservazione: “Per fortuna il giornale che dirigevo era di proprietà pubblica ed ero perciò professionalmente autorizzato in quell’occasione a fottermi delle copie”.

Il Giorno era infatti dell’Eni. E Moro forse proprio per questo, oltre che per la simpatia di Afeltra, lo aveva preferito ad altri per collaborarvi nel poco tempo lasciatogli dalla politica, per quanto egli fosse allora soltanto il presidente del Consiglio Nazionale della Dc, sommariamente tradotto da noi giornalisti in presidente del partito. Ma un presidente assai particolare, come poi si sarebbe lui stesso lamentato, una volta rapito dalle brigate rosse, l’anno dopo, scrivendo una disperata lettera di protesta all’amico segretario dello scudocrociato Benigno Zaccagnini, prigioniero come altri, fuori e dentro la Dc, di quella cosiddetta linea della fermezza che avrebbe quanto meno contribuito a procurargli la morte. Come era già accaduto agli uomini della scorta, 55 giorni prima, trucidati nell’operazione del sequestro condotta  a Roma la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani, a poche centinaia di metri dall’abitazione di Moro.

Quell’editoriale del 20 gennaio 1977 fu ispirato al presidente democristiano non da qualche rivelazione o consuntivo  statistico, ma  da un articolo di Goffredo Parise pubblicato a ridosso di Natale sul Corriere della Sera  e da lui per niente condiviso, pur nel rispetto dovuto al noto scrittore veneto.

Dell’articolo di Parise, non era piaciuto a Moro, che ci aveva pensato sopra per tutte le feste di fine anno, il rifiuto opposto ad una “tregua” almeno natalizia, auspicata da alcuni giovani interlocutori, sul fronte dell’informazione, dove il male faceva più notizia del bene. E ciò anche se il bene, secondo Moro, anche allora prevaleva sul male.

“Si può dire –chiese Moro ai suoi lettori- che la realtà sia tutta e solo quella che risulta dalla cronaca deprimente, e talvolta agghiacciante, di un giornale?”.  No, il presidente della Dc era convinto che  “il bene” fosse “più del male, l’armonia più della discordia, la norma più dell’eccezione”. E ripropose una “tregua” informativa del male prevalente sul bene: una tregua questa volta non emotiva e/o stagionale, a Natale ormai trascorso, con tutte le altre feste portate via dalla Befana, ma una tregua solida, duratura e ragionata.

Per conto suo Moro, a dispetto degli avversari di destra che lo dipingevano come un uomo pessimista, rassegnato al peggio, attribuendo anche a questa sua presunta filosofia della rinuncia l’azione propulsiva svolta da lui nella Dc per un’intesa di “solidarietà nazionale” col Pci di Enrico Berlinguer dopo il risultato sostanziamente neutro delle elezioni politiche anticipate del 1976, dimostrò quanto fosse invece combattivamente ottimista due mesi dopo quell’articolo del 20 gennaio 1977.

Fu proprio nel mese di marzo di quell’anno che, spiazzando anche molti dei suoi amici, compreso il segretario moroteo  della Dc Zaccagnini, egli volle assumere il compito di difensore del collega  di partito e di corrente Luigi Gui, ma anche del socialdemocratico Mario Tanassi, nel dibattito a Camere congiunte propedeutico al processo ai due ex ministri, e ad altri imputati, davanti alla Corte Costituzionale per il famoso scandalo Loockeed.  Che era la ditta americana costruttrice degli apparecchi militari di trasporto Hercules acquistati dall’Italia con un sovrapprezzo per tangenti. Gui poi sarebbe stato assolto e Tanassi condannato nell’unico processo ai ministri svoltosi senza appello presso la Consulta, essendo stata in seguito riformata la Costituzione per trasferire questa competenza ad un apposito tribunale ordinario dei ministri, previa autorizzazione delle Camere di appartenenza, o del Senato in caso di ministri non parlamentari.

Nell’aula di Montecitorio affollata come un uovo, dove la tensione politica era ai massimi livelli per lo scontro in corso fra i due partiti protagonisti della maggioranza governativa di “solidarietà nazionale”, essendosi il Pci schierato sul fronte colpevolista, Moro sfidò letteralmente tutti, anche l’amico Ugo La Malfa, e non solo Berlinguer, un inedito Marco Pannella non garantista e l’ultrasinistra. Alla quale il presidente della Dc letteralmente gridò e promise, o minacciò, come da quella parte si disse: “Non ci lasceremo processare sulle piazze”. Che era la traduzione non solo del primato della politica ma anche della filosofia del bene prevalente sul male.

Ugo La Malfa uscì quel giorno dalla Camera interpretando il discorso di Moro come un tentativo tattico di alzare il prezzo, aumentando “la capacità contrattuale della Dc”, nel rapporto di tregua pur sempre competitiva con il Pci attorno al governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti. Ma quella volta fu proprio La Malfa a peccare di tatticismo, e mostrare di non avere imparato a conoscere bene Moro, del quale d’altronde sei anni prima l’allora segretario del Pri aveva impedito l’elezione al Quirinale, preferendogli Giovanni Leone.

Vi fu anche qualche balordo che, a tragedia di Moro consumata, dopo che i terroristi assassini avevano beffardamente lasciato il suo cadavere in un’auto posteggiata fra le sedi della Dc e del Pci, disse e scrisse che in fondo egli se l’era cercata, cioè meritata, quell’orrenda fine non valutando abbastanza il male che c’era nel Paese. Ma si trattava, appunto, di qualche balordo. Che –spero in cuor mio-abbia poi avuto il tempo e la voglia di pentirsi, perché continuo a ritenere, a conti fatti, che Moro in quell’editoriale del 20 gennaio 1977 avesse ragione. Così come resto convinto dei danni che può fare un’informazione accecata dalla faziosità, o da un protagonismo solo apparente, non rendendosi conto di muoversi in realtà a rimorchio di quelli che Piero Sansonetti ritiene giustamente i “poteri forti”, giudiziari e finanziari, interessati a creare vuoti per riempirli.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Le differenze fra l’Italia reale e quella percepita

E’ proprio vero che, storditi o accecati  dalla  percezione, abbiamo finito col perdere il suono o la vista della realtà. Lo dimostra la semplice, disarmante lettura dei dati del Ministero dell’Interno sull’andamento della criminalità negli ultimi venticinque anni. Ce lo ha meritoriamente proposto sul Dubbio il direttore Piero Sansonetti nel primo numero di questo 2018.

            L’Italia in preda totale e incontrollata alla criminalità, organizzata o comune che sia, si dissolve  nella riduzione degli omicidi dai 2000 del 1991 ai poco più dei 300 dell’anno scorso, e ancor più nel quasi dimezzamento dell’impunità, scesa dal 73 al 40 per cento, intesa come mancata soluzione delle indagini e dei processi. Rapine e furti in casa hanno subìto una riduzione del 10 per cento.

            Gli immigrati, dietro ai quali una certa opinione di destra e da qualche tempo anche di sinistra immagina la maggior parte degli assassini, dei rapinatori, dei ladri e degli stupratori, hanno rispetto alla popolazione italiana  una incidenza minore di molti altri paesi di cui condividiamo confini d’acqua, o confini di terra precari.

            Il tasso di corruzione è un altro dato che si dissolve, o quasi, nel confronto fra i dati reali, ricavabili dalle denunce e dalle iniziative giudiziarie, e la percezione diffusa con le classifiche di Transparency. Che sono fatte di sondaggi in cui si chiede a chi viene ascoltato se abbia mai  abbia avuto notizia o sentore di corruzione. Si fa presto così a scendere o far scendere un paese all’inferno, come avviene da anni con l’Italia. E con l’effetto di fare rassegnare fasce sempre più larghe di opinione pubblica all’idea di una emergenza continua, affrontabile solo col sacrificio delle garanzie, a vantaggio dei confini e dell’azione dell’ordine giudiziario, anzi del potere giudiziario: un potere vero e proprio, rappresentato anche fisicamente da chi, magistrato in carriera, frequenta i salotti televisivi e sentenzia che gli assolti nei processi sono più semplicemente sfuggiti alla condanna che probabilmente –se non sicuramente- meritavano.

            E’ nata così all’ombra della Tangentopoli scoperta o esplosa nel 1992, con l’arresto di Mario Chiesa a Milano in flagranza di corruzione nel suo ufficio di presidente del Pio Albergo Trivulzio, ed è cresciuta via via la Repubblica giudiziaria, o delle Procure, al posto di quella parlamentare voluta nella Costituzione entrata in vigore 70 anni fa. E di cui sono passate non le riforme più o meno organiche tentate nel 2005 e nel 2016, rispettivamente, dal centrodestra e dal centrosinistra, ma solo modifiche parzialissime, funzionali al ribaltamento dei rapporti voluti dai costituenti fra la politica e la magistratura, cioè fra la democrazia e le procure.

            Mi riferisco, in particolare, alle modifiche apportate agli articoli 68 e 79 della Costituzione, rispettivamente nel 1993 e nel 1992, per tagliare la polpa delle immunità parlamentari e per togliere di fatto al Parlamento il diritto a disporre dell’amnistia e dell’indulto. Che da 25 anni sono possibili solo con “legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”, testualmente. Cioè, in condizioni praticamente impossibili, come hanno dimostrato i fatti. E con l’effetto di fare praticare l’amnistia negli uffici giudiziari, dove l’azione penale è obbligatoria, come prescrive la Costituzione, ma la prescrizione è a portata di mani e di piedi.

Le mani e i piedi degli operatori di prescrizioni non appartengono solo agli astuti difensori d’imputati ma anche ai magistrati, specie se si considera il fatto che gran parte del tempo necessario a dissolvere i reati nell’acido della non procedibilità trascorre al coperto, in segreto, per ritardi o omissioni, senza neppure arrivare ai processi. Lo denunciava spesso, inascoltato, il compianto Marco Pannella parlando di un’amnistia che egli chiamava “di casta”.

Il sobrio ma anche frainteso benvenuto di Mattarella all’anno nuovo

            Il 2018 non aveva ancora appoggiato il cappotto sul primo divano libero di casa nostra, portato dai botti di Capodanno, e già si era aperta la gara a chi la sparava più grossa commentando i sobri dieci minuti e cinque secondi impiegati al Quirinale dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per accomiatarci tutti insieme dal 2017. Che, nonostante tutto, ci ha pur lasciato i segni di una ripresa economica e ha spinto i diciottenni sulla strada non delle trincee di una guerra, come cento anni fa, ma di un altro turno di libere elezioni politiche: quelle appena fissate per il 4 marzo prossimo.

            Delle parole di Mattarella sono particolarmente piaciute al suo vice, che di fatto è il presidente del Senato Pietro Grasso, peraltro siciliano come lui, quelle che hanno esortato tutti, compresi naturalmente i politici, a non cadere nella trappola di “un eterno presente”, che “ignora il passato e oscura l’avvenire”, ha insistito nel suo commento la seconda carica dello Stato.

            Eppure sul piano politico se c’è uno che ha mostrato, volente o nolente, di cadere in questa trappola è proprio Grasso. Che sull’onda di un presente fatto di polemiche, di risentimenti, di rese di conti e quant’altro è sbottato contro il partito che pure lo aveva portato in liste rigorosamente bloccate al Senato per insediarlo anche al vertice. E si è unito a scoppio ritardato alla sua scissione, accettando con groppo alla gola impietosamente imitato da Maurizio Crozza  la guida dei “liberi e uguali”. Il cui primo obiettivo, al netto di  tutte le cortine fumogene dei programmi enfaticamente annunciati o promessi per recuperare astensionisti e simili,  è quello di fargliela pagare cara a un Pd rivelatosi incapace di liberarsi del segretario Matteo Renzi.

           Il problema pertanto è  di togliere o precludere all’ex partito di Grasso  nelle urne fra due mesi il maggior numero possibile di voti, comunque quanto basta per farlo sorpassare dai grillini o coronare il sogno di rivincita di Silvio Berlusconi:  sì, proprio lui, l’ex presidente del Consiglio che con una votazione innovativamente palese consentita dallo stesso Grasso, e con l’applicazione retroattiva di una legge contestata a livello europeo, e non solo davanti alla Corte Costituzionale italiana, fu fatto decadere con ignominia dal Senato nell’autunno del 2013.

              

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