Nuovo e vecchio antiberlusconismo, e berlusconismo

Il buon Angelo Panebianco si è appena chiesto sul Corriere della Sera se “la rinascita di Berlusconi farà rinascere anche l’antiberlusconismo”. Che sembrava molto affievolito, se non scomparso, dopo la rovinosa caduta dell’ultimo governo dell’allora Cavaliere, la condanna definitiva per frode fiscale, la conseguente decadenza da senatore, l’irruzione di un nuovo protagonista come Beppe Grillo e l’individuazione, da parte della sinistra e di una certa intellettualità, di un nuovo “tiranno” in fasce con cui prendersela: naturalmente Matteo Renzi.

Non so, francamente, se più l’impressione o l’auspicio dell’insigne professore e editorialista del Corriere della Sera è che non possa decollare più di tanto l’antiberlusconismo di ritorno avvertito qua e là. Cui il solito Marco Travaglio non ha saputo sottrarsi scrivendo, in coincidenza con quello di Panebianco, un editoriale sul suo Fatto Quotidiano per dolersi, fra l’altro, che l’uomo di Arcore sia “ancora incredibilmente a piede libero”.

Fra le ragioni del suo ottimismo, finalizzato al perseguimento di una politica meno astiosa e più ragionata, e soprattutto più consapevole del rischio maggiore per la sorte della democrazia derivante dal movimento antisistemico delle 5 Stelle, Panebianco ha indicato non l’età ormai di Berlusconi, di ben 23 anni più anziano dell’impetuoso esordio politico, ma la sua ridotta forza elettorale. La sua Forza Italia in effetti ha perso metà dei voti raccolti nelle elezioni europee del 1994, superiori di un terzo a quelli delle elezioni politiche di pochi mesi prima. La stessa leadership berlusconiana, già indebolita dalla incandidabilità elettorale che ancora pesa sull’ex presidente del Consiglio, è contestata  all’interno dello schieramento di centrodestra un giorno sì e l’altro pure dal rampante segretario leghista Matteo Salvini. Al quale una sinistra ragionevole dovrebbe pur preferire  politicamente il Berlusconi “ancora a piede libero” lamentato da Travaglio.

La “rinascita” di Berlusconi, o del berlusconismo, per ripetere la parola o l’immagine di Panebianco, non sta comunque provocando soltanto una rinascita dell’antiberlusconismo, debole o forte, lento o veloce che sia, ma anche un certo affollamento ai cancelli metaforici della villa di Arcore. E ciò spesso con spettacoli francamente imbarazzanti, come quello offerto qualche sera fa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, da un ex collaboratore di Berlusconi che ora siede su designazione dei grillini nel Consiglio di amministrazione della Rai: Carlo Freccero.

Quest’ultimo, in pur amichevole polemica con la stessa Gruber e con Vittorio Zucconi, critici di una lunga serata televisiva di Berlusconi con l’amico Maurizio Costanzo, che “insieme -aveva osservato Zucconi- fanno più di un secolo e mezzo”, ha elogiato la freschezza, l’arguzia, la scaltrezza e quant’altro dimostrate dall’ex presidente del Consiglio parlando della sua infanzia e famiglia senza ricordare, vista la impopolarità delle banche, il lavoro del padre.

Ma il papà di Silvio Berlusconi, benedetto Freccero, non era un banchiere. Era più semplicemente, o meno impopolarmente con gli occhi di oggi, il dipendente di una banca, sia pure di livello, non il proprietario. Cerchiamo di non esagerare nella vecchia arte, consapevole o no, dell’adulazione.

Sa sempre più di Cardinale la vittoria del centrodestra in Sicilia

Il numero magico, perché ricorrente, delle elezioni siciliane appena svoltesi e dei loro risultati è il cinque.

Cinque sono notoriamente le stelle del movimento grillino, che è riuscito a raccogliere il maggior numero di voti, pur mancando l’obiettivo della presidenza del governo regionale col suo candidato Giancarlo Cancelleri. Che è riuscito peraltro a raccogliere più consensi della lista dei candidati del suo partito a consiglieri regionali, avendo potuto giovarsi del voto cosiddetto disgiunto consentito dalla legge elettorale vigente nell’isola.

Sono stati circa otto i punti percentuali conquistati da Cancelleri oltre quelli della lista orgogliosamente solitaria del suo partito. A fornirli sono stati presumibilmente gli elettori delle due sinistre fronteggiatesi rovinosamente attorno alle candidature di Fabrizio Micari e di Claudio Fava. E’ quanto meno improbabile che siano giunti al mancato governatore grillino voti da destra, come accadde l’anno scorso nelle elezioni comunali di Roma e Torino. Dove le candidate pentastellate prevalsero  sui candidati sindaci  del Pd nei ballottaggi, col non nascosto favore degli elettori leghisti di Matteo Salvini e post-missini di Giorgia Meloni. Che non avevano gradito la scommessa capitolina fatta all’ultimo momento da Silvio Berlusconi, nel primo turno, su Alfio Marchini precludendo il ballottaggio proprio alla Meloni.

Cinque sono stati stati i punti percentuali che hanno distanziato il governatore eletto del centrodestra, stavolta unito, e il governatore mancato del partito di Beppe Grillo. O di Luigi Di Maio, per chi prende sul serio la premiership conferita digitalmente al vice presidente della Camera, della cui autenticità diffida giustamente Piero Sansonetti sentendo puzza o odore, secondo i gusti, di qualche magistrato o giornalista da mettere in pista all’ultimo momento, prima e forse anche dopo le elezioni politiche dell’anno prossimo.

I cinque punti di distacco usciti dalle urne fra Musumeci e Cancelleri sono esattamente quelli preconizzati alla vigilia del voto in una intervista alla nostra Paola Sacchi dall’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, milanese di adozione ma sicilianissimo. Che aveva messo nel conto l’aiuto che Cancelleri avrebbe potuto ricevere da sinistra, col già ricordato voto disgiunto, dimezzando le distanze dall’avversario di centrodestra emerse dai sondaggi di metà ottobre.

Ma anche Musumeci deve avere avuto sotto traccia, e sempre col meccanismo del voto disgiunto, qualche aiuto da fuori, visto che ha preso una decina di punti percentuali in più rispetto alla somma dei voti raccolti dalle liste della sua coalizione: dieci punti che, al netto dei cinque di vantaggio su Cancelleri, hanno dato alla sua vittoria una fortissima consistenza.

Da dove, più in particolare, possono essere arrivati a Musumeci i soccorsi esterni non è forse azzardato intuire allungando lo sguardo sui sei punti e forse più -diciamo 5+1 per rimanere nei dintorni del 5 come numero magico di queste elezioni siciliane- mancati al candidato Fabrizio Micari rispetto alla somma dei voti delle liste  di centro e di sinistra che lo hanno fiancheggiato. Fra le quali per diabolica coincidenza ce n’è una che ha raccolto il sei per cento dei voti: quella allestita dall’ex ministro democristiano Salvatore Cardinale e chiamata “Sicilia futura”.

D’altronde, lo sfortunato rettore dell’Università di Palermo, scomodato dal sindaco quasi sempiterno Leoluca Orlando per correre col sostegno del Pd, di Angelino Alfano e altri, era ormai completamente fuori gioco, come l’altro candidato della sinistra Claudio Fava. Fargli mancare un po’ di voti per soccorrere Musumeci e salvarlo dal pericolo del sorpasso grillino non dev’essere apparsa un’azionaccia agli amici di Cardinale, se l’hanno davvero commessa.

Lo stesso Cardinale aveva avvertito durante la campagna elettorale, quando le divisioni a sinistra si erano aggravate e la corsa di Micari si era ristretta alla conquista del terzo posto, non oltre, che mai e poi mai egli si sarebbe convertito alla logica perversa del “tanto peggio tanto meglio”. Come sarebbe accaduto obiettivamente se sull’altare magari dell’antiberlusconismo, che a sinistra diventa spesso l’altra faccia dell’antirenzismo, non si fossero rafforzati gli argini di Musumeci rispetto al rischio esondativo di Cancelleri.

La Sicilia d’altronde è la terra di Luigi Pirandello. Così è se vi pare.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Lo sbotto di Sergio Mattarella contro i tempi supplementari della legislatura

Questa volta è sbottato il pur mite, paziente, tollerante Sergio Mattarella, salito al Quirinale ormai quasi tre anni fa proprio grazie al suo carattere. Che forse indusse l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi a preferirlo al meno prevedibile e accomodante Giuliano Amato,  giudice costituzionale pure lui, come allora Mattarella, e sostenuto a destra da Silvio Berlusconi e a sinistra da Massimo D’Alema, con una convergenza che insospettì l’inquilino di Palazzo Chigi. Ne ha scritto praticamente in questi termini lo stesso Renzi nel libro che ha copiato nel titolo la storica testata socialista togliendole però il punto esclamativo e il corsivo: Avanti.

Lo sbotto del presidente della Repubblica, come ho appreso da buona fonte, è stato causato da una indiscrezione del quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda, ben introdotto sul colle più alto di Roma, che dava il capo dello Stato “indifferente” di fronte alla tentazione emersa dentro il Pd, prevalentemente fra i critici o gli avversari di Renzi, di fare allungare i tempi dello scioglimento delle Camere, in modo da  spostare le elezioni politiche da marzo a maggio.

Ciò avrebbe potuto fornire altri mesi agli operosi colleghi di partito di Renzi  per ammorbidirne le resistenze a rinunciare esplicitamente, senza le riserve opposte sinora, all’ambizione di tornare a Palazzo Chigi. Al contempo si sarebbe potuto lavorare meglio per  approvare un paio di leggi oggi improbabili sia per questioni di tempo sia per contrasti politici, come il cosiddetto ius soli e la riduzione dei vecchi vitalizi riscossi dagli ex parlamentari, oltre alla soppressione dei nuovi.

E’ stata proprio quella “indifferenza” attribuita dal quirinalista del Corriere della Sera al capo dello Stato, che per trasformarsi in disponibilità avrebbe avuto bisogno di una richiesta esplicita dei partiti e di loro garanzie sulla praticabilità di un ulteriore tratto della legislatura, in modo da non trasformarlo in una semplice ed anche rischiosa  perdita di tempo, a scatenare fra e nei partiti, secondo i gusti, proteste o speranze. Cui Mattarella in persona ha voluto tagliare la testa ordinando una nota che definisce “pura fantasia” le interpretazioni provocate dal pur da lui apprezzato quirinalista del Corriere. Che, dal canto suo, forse colto anche lui di sorpresa dalle reazioni al tentativo compiuto di intuire mosse e stati d’animo del presidente della Repubblica, ha scritto un nuovo articolo sostanzialmente riparatore, dove non si è trovata più traccia della “indifferenza” precedentemente attribuita a Mattarella.

La smentita del capo dello Stato può ora essere obiettivamente letta anche come un invito a partiti, correnti e personalità a desistere dal chiedergli ciò che lui non ha alcuna voglia di concedere, non fidandosi -credo giustamente- del terreno infido su cui potrebbe incamminarsi allungando i tempi di  questa legislatura. Che, per come era partita, cioè col tentativo dell’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, stoppato vigorosamente al Quirinale, di improvvisare un governo velleitario “di minoranza e di combattimento” appeso agli umori di Beppe Grillo,  ha già prodotto troppi miracoli. Fra i quali  c’è anche l’approvazione di una nuova legge elettorale  a larga maggioranza, per quante alte siano state e siano  le proteste di ultrasinistra, ultradestra e grillini. Attendersi ancora altri miracoli sarebbe stato e sarebbe davvero imprudente, specie nella inevitabile tossicità di una campagna elettorale che si trascina già da quasi un anno, cioè dalla sconfitta referendaria di Renzi sulla riforma costituzionale.

Non dev’essere stata  infine estranea alle ragioni dello sbotto di Mattarella la preoccupazione di allentare la blindatura della Banca d’Italia prodotta dalla decisione appena annunciata dai presidenti delle Camere di limitare i tempi della commissione d’inchiesta parlamentare sul sistema bancario, interrompendoli nel giorno dello scioglimento delle assemblee legislative, e non all’insediamento delle nuove. Come altri avrebbero voluto, anche in deroga ai precedenti cui si è richiamato il presidente della stessa commissione, Pier Ferdinando Casini, definendo “ineccepibile” la risposta di Pietro Grasso e di Laura Bordini a una sua richiesta scritta di chiarimenti sull’agenda degli inquirenti. 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Come e perché Sergio Mattarella si è infuriato

Pubblicato da ItaliaOggi il 9 novembre 2017

Travaglio incorona Pietro Grasso capo dell’armata antirenziana

Se fossi Pietro Grasso comincerei a impensierirmi per la fretta con la quale  gli estimatori, alcuni dei quali alquanto improvvisati, lo stanno sponsorizzando o direttamente incoronando “capo della nuova sinistra”, come ha titolato Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che ha smesso di rispolverare, come faceva in frequenti rigurgiti, la vicenda dell’arrivo dell’attuale presidente del Senato al vertice della Procura nazionale antimafia rimproverandogli la disinvoltura, a dir poco, di avere usato una legge improvvisata dall’allora governo di Silvio Berlusconi per mettere fuori gioco, usando l’elastico dell’età pensionabile, la candidatura di Gian Carlo Caselli. Cui da certe parti non si è mai grati abbastanza di avere interrotto la carriera politica di Giulio Andreotti, comunque rimasto sino alla morte- va detto- senatore a vita per atto preveggente di Francesco Cossiga al Quirinale.

“Sarebbe da Dio”, ha commentato anche Pier Luigi Bersani la prospettiva di Pietro Grasso alla guida di un cartello elettorale antirenziano, viste le troppe titubanze dell’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Il quale, per quanto critico con Matteo Renzi, e predicatore pure lui di una necessaria “discontinuità”, come si dice in gergo politico, rispetto alle scelte e allo stile dell’ex presidente del Consiglio, ritiene realisticamente che un centrosinistra senza o addirittura contro il Pd sia una scommessa impossibile.

Ebbene, più cresce il tifo per Grasso in versione Travaglio, Bressani, Gotor e compagni e più lui rimane imperterrito alla presidenza del Senato, essendosi limitato a dimettersi dal Pd per incompatibilità politica, culturale, umana e quant’altro, e più per giunta si cerca di allontanare la data delle elezioni politiche, come si è ricominciato a fare dietro le quinte dopo i risultati delle elezioni regionali siciliane, più temo che crescano le preoccupazioni, a dir poco, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Di cui Grasso -non dimentichiamolo- è supplente sia come capo dello Stato sia come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura in caso di impedimento del successore di Giorgio Napolitano.

Prudenza, signori, e rispetto per le istituzioni, ha sentito dire una mosca avventuratasi nelle sale e salette del Quirinale.

 

 

Ripreso da wwww.formiche.net col titolo: Ecco come il Fatto Quotidiano si eccita con Pietro Grasso post Renzi

Nello Musumeci salvato da Salvatore Cardinale

Quel diavolo di Ignazio La Russa, un siciliano trapiantato a Milano ma che della sua isola sa più di quelli che vi abitano e votano, ha vinto la lotteria elettorale della sua terra per avere previsto quasi al centesimo i risultati poche ore prima che si aprissero i seggi agli elettori.

Alla vigilia delle votazioni, quando dietro all’ottimismo d’ufficio del centrodestra serpeggiava il timore che da sinistra potessero arrivare in chiave antiberlusconiana aiuti decisivi al candidato grillino, in senso inverso alle elezioni comunali dell’anno scorso a Roma e a Torino, dove gli elettori di destra in chiave antirenziana avevano aiutato le candidate di Grillo a prevalere nei ballottaggi sui concorrenti piddini, l’ex ministro della Difesa anticipò la buona notizia. Egli disse in una intervista a Paola Sacchi che dei dieci punti di vantaggio accumulati nei sondaggi d’ottobre sul pentastellato Giancarlo Cancelleri, al massimo Musumeci ne avrebbe potuti perdere cinque, conservandone quindi altrettanti. E così è avvenuto: 39,8 per cento dei voti al neo governatore del centrodestra e 34,7 al mancato governatore a 5 stelle.

Tuttavia i voti passati da uno schieramento all’altro nel segreto dell’urna, grazie alla possibilità concessa dalla legge elettorale siciliana di scegliere il candidato a presidente di una parte e il candidato a consigliere regionale di un’altra, sono stati superiori allo scarto fra Musumeci e Cancelleri, se quest’ultimo ha preso non cinque ma otto punti percentuali in più della lista del suo partito.

Ciò significa che, prevalendo di cinque punti sull’antagonista grillino, anche Musumeci ha potuto contare su un aiuto, diciamo così, esterno. Che, non potendo essergli certamente arrivato dai grillini,  i quali considerano il nuovo governatore “immondo” per i cosiddetti “impresentabili” nelle liste di fiancheggiamento, può essere arrivato solo da sinistra. Dove gli elettori, prigionieri della posizione di fuori gioco procuratasi dai loro partiti  con le solite lotte tribali, si sono divisi a loro volta sulla scelta di quello che potremmo definire il male minore. E che potremmo riassumere in questa domanda: far prevalere l’antiberlusconismo, favorendo il candidato grillino, o l’antigrillismo soccorrendo il candidato non importa se più scelto o più subìto da Berlusconi ?

Questi giochi normalmente si svolgono dietro le quinte. Si preparano e si fanno al coperto, sotto traccia. Ma la Sicilia è una terra particolare anche nel bene, oltre che nel male. E così deve essere forse ringraziato l’ex ministro Salvatore Cardinale, di provenienza democristiana, per la trasparenza con la quale ha realizzato quello che aveva promesso aderendo al cartello del candidato renziano Fabrizio Micari e poi avvertendo, una volta emersa l’impossibilità dell’elezione del rettore dell’Università di Palermo, che mai avrebbe sposato la logica perversa del “tanto peggio tanto meglio”.

Il peggio sarebbe stato un sostegno al candidato grillino. Il meglio sarebbe stato, anzi deve essere stato agli occhi di Cardinale  un aiutino a Musumeci. I cui cinque punti di vantaggio conservati su Cancelleri sono vicini ai 6 punti percentuali raccolti, nello schieramento di Micari, dalla lista di Cardinale chiamata “Sicilia futura”. Ed equivalgono  -guarda caso- al 6 per cento e forse più di scarto registrato tra i voti mancati a Micari e quelli raccolti complessivamente dalle liste fiancheggiatrici.

Il buon senso lascia a questo punto prevedere una mano di Cardinale a Musumeci anche nell’amministrazione dell’isola, dati i numeri molto stretti del centrodestra nel Consiglio regionale. Dove tornerà probabilmente a prevalere il no dell’ex ministro al tanto peggio tanto meglio. La Sicilia -la mia Sicilia, direbbe Cardinale- va pur governata: con i fatti, non con le parole dei grillini, e neppure con i vespri siciliani di una sinistra tanto divisa quanto appesa ormai al vuoto.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto il regaluccio di Salvatore Cardinale per Nello Musumeci

Al di là dei numeri elettorali della Sicilia e della periferia romana

Ora, a urne chiuse per fine partita e rovesciate per svuotarle delle schede da contare con la calma abituale, quasi genetica, degli isolani di ogni latitudine, lo sconfitto designato già in apertura della campagna elettorale siciliana, che è il segretario del Pd Matteo Renzi, può consolarsi solo in un modo Può dire di avere evitato, nella disgrazia, il sorpasso del suo partito da parte degli scissionisti raccoltisi attorno alla candidatura di Claudio Fava.  I quali si erano proposti esattamente questo risultato, al di là dell’elezione scontata di un governatore di tutt’altro segno politico, per sghignazzare sul morto, come nei peggiori riti tribali.

Un altro modo di consolarsi Renzi lo avrebbe avuto con il confronto televisivo annunciato con il grillino Luigi Di Maio, che però gli ha clamorosamente dato buca annullando l’appuntamento col pretesto della sconfitta del segretario del  Pd in Sicilia, pur scontata quando concordò la sfida televisiva. Il pretesto è sin troppo sfacciato per commentare lo spessore politico del candidato pentastellato a Palazzo Chigi nelle elezioni politiche del 2018.

La domanda più spontanea, e più diretta, di fronte alla sfida che si erano dati davanti alle telecamere Renzi e Di Maio, o viceversa, come preferite, era se il segretario del Pd sarebbe riuscito a recuperare almeno su questo terreno mediatico tutto o in parte il terreno perduto in Sicilia a vantaggio del vecchio Silvio Berlusconi come primo o principale competitore dei grillini. Che, essendo considerati gli anti-sistema, assegnano a chi riesce a contrastarli di più il ruolo di difensori o perno, appunto, del sistema. Il quale, a sua volta, non è solo il panorama malavitoso e perverso dipinto dai pentastellati e da Beppe Grillo in persona, ma è anche il sistema della democrazia parlamentare disegnato dalla Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Cerchiamo di non dimenticarlo, per favore. Come certi scapestrati, a dir poco, negli anni di piombo, da assassini o da pseudo-intellettuali, immaginarono il nostro Stato democratico come una succursale di quello imperialista mondiale, e altre baggianate simili.

I grillini per fortuna non sparano se non pallottole di carta e di fango contro concorrenti e avversarsi. E riescono ancora a scusarsi di qualche eccesso, dopo essersi proposti, per esempio, di bruciare vivo su qualche graticola in piazza il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato. Il cui nome tradotto in latino maccheronico viene portato, a torto o a ragione, dalla nuova legge elettorale approvata a larga maggioranza dal Parlamento e promulgata con la firma per niente sofferta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Il contrasto politico ai grillini, che peraltro con la loro lotta esasperata a tutto e a tutti non sono riusciti né in Sicilia né nella più modesta e lontana periferia litoranea di Roma a ridurre il fenomeno dell’astensionismo elettorale, facendolo anzi aumentare, rimane la priorità di chi vuole difendere e migliorare -ripeto- il sistema, contro chi intende invece abbatterlo.

E’ sulla consapevolezza di questa realtà che si divide davvero, e trasversalmente, la politica italiana da quasi cinque anni, cioè dall’approdo dei grillini in Parlamento, al di là della partita siciliana che si è appena giocata ed è approdata sulle prime pagine dei giornali con analisi e dichiarazioni costruite peraltro sulla sabbia non di proiezioni, ma di exit poll, cioè di interviste raccolte presso gli elettori all’uscita dai seggi. Che è un altro modo curioso di fare politica, politologia e informazione in Italia.

Sia a destra sia a sinistra c’è chi scambia il grillismo per l’ennesimo giocattolo o diversivo, da potere persino usare per regolare i conti all’interno del proprio schieramento. A destra, per esempio,c’è Matteo Salvini che preferirebbe “telefonare” a Grillo, come ha detto, piuttosto che condividere con Berlusconi un’alleanza con Renzi, dopo le elezioni politiche, per contrastare il movimento 5 stelle.

A sinistra invece Pier Luigi Bersani ha già provato a fare un governo velleitario “di minoranza e di combattimento” appeso alle invettive di Grillo, piuttosto che promuovere larghe intese per una maggioranza ben definita. E tornerebbe piuttosto a tentare l’operazione, magari con ruoli rovesciati, mettendosi a disposizione di Di Maio, se ne avesse l’occasione.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Ecco perché Matteo Renzi (non) si consoloserà in Tv con Luigi Di Maio

 

 

 

La lotteria politica di Renzi e la scuola di formazione di Scalfari

Per farsi un’idea di quanto confuse siano, a loro volta, le idee nei giornali italiani sulla sorte e sulle intenzioni del segretario del Pd Matteo Renzi, che peraltro attende senza particolare ansia di conoscere le dimensioni della sconfitta scontata del suo candidato a governatore della Sicilia, basta leggere i titoli di prima pagina dei due quotidiani italiani più diffusi. Che pure sono entrambi forniti di fior di editorialisti, notisti, cronisti, retroscenisti e quant’altro.

“Renzi pronto alla rinuncia”, ha titolato il Corriere della Sera intendendo per rinuncia quella  non alla carica di segretario del Pd, cui Renzi è stato confermato nella primavera scorsa a larghissima maggioranza, ma all’ambizione di tornare dopo le elezioni a Palazzo Chigi, senza lasciare la guida del partito.

Per facilitare un’intesa di centrosinistra, e recuperare quindi l’alleanza di governo con chi se n’è andato dal Pd in odio a lui, al suo programma, al suo carattere, e agli amici del cosiddetto giglio magico, Renzi sarebbe disposto  a mettere in palio la candidatura a presidente del Consiglio con tanto di primarie. E a dispetto dello statuto del partito, che gli consentirebbe di fare a meno di un simile passaggio nel combinato disposto con la nuova legge elettorale appena promulgata dal presidente della Repubblica fra le inutili proteste dei grillini.

“Il Pd blinda Renzi premier”, ha invece titolato la Repubblica, disponendo evidentemente di notizie non diverse ma opposte a quelle del concorrente milanese di via Solferino.

Sulla stessa Repubblica, tuttavia, il fondatore Eugenio Scalfari, al termine della suo appuntamento domenicale con i lettori, stavolta ancora più lungo del solito, ha rinnovato a Renzi con tono insieme critico e amichevole, quasi da nonno a nipote, o da professore esigente ad allievo indisciplinato, usando i due incontrarsi e sentirsi con  una certa frequenza, il consiglio di fare proprio come il Corriere della Sera ha anticipato. Rinunciare, cioè, al ritorno a Palazzo Chigi, non foss’altro per ridurre le divisioni a sinistra e affrontare meglio le elezioni politiche dell’anno prossimo, senza lasciare a Silvio Berlusconi, come è avvenuto in Sicilia, il compito di contrastare i grillini. E con quale esito, si vedrà al termine dello scrutinio che in Sicilia si fa con comodo.

A Palazzo Chigi Scalfari preferisce che resti Paolo Gentiloni, del quale ha scritto il meglio che potesse aspettarsi il presidente del Consiglio in carica.  In subordine il fondatore di Repubblica ha mostrato, non per la prima volta negli ultimi tempi,  di preferire il ministro dell’Interno uscente Marco Minniti, di origini calabresi come le sue.

Di Minniti, Barpapà ha anche apprezzato le prove che sta facendo come ministro degli Esteri nei rapporti internazionali impostigli dalla difficile gestione delll’immigrazione, tornata però a complicarsi negli ultimi giorni per l’aggravamento della situazione in Libia.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Le ultime pagelline di Eugenio Scalfari su Paolo Gentiloni, Marco Minniti e Matteo Renzi

I presidenti delle Camere blindano Bankitalia col calendario dell’inchiesta

Nella curiosa indifferenza, a dir poco, dei giornaloni, che hanno allontanato la notizia dalle loro prime pagine, i presidenti delle Camere hanno concordato di blindare la Banca d’Italia e il suo governatore Ignazio Visco. Questo è  almeno l’effetto della decisione di Pietro Grasso e di Laura Boldrini di tagliare i tempi della commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario disponendone la fine con quella della legislatura, cioè col decreto quirinalizio  di scioglimento delle Camere, previsto fra l’ultima settimana dell’anno in corso e le primissime del nuovo.

Per quanto incassata con molta diplomazia dal presidente della commissione Pier Ferdinando Casini, che l’ha definita “ineccepibile” in base ai precedenti, la scelta di Grasso e Boldrini limita l’agibilità degli inquirenti in un momento in cui forse l’opinione pubblica si sarebbe aspettata qualcosa di diverso di fronte alla gravità della questione bancaria.

In verità, anche quando sono state sciolte, le Camere continuano a vivere e ad operare per gli adempimenti urgenti, come l’approvazione dei decreti legge entro la loro scadenza costituzionale di sessanta giorni. Esse cessano davvero di esistere e lavorare con l’insediamento delle nuove.

Se avessero quindi voluto, i presidenti della Camere avrebbero potuto autorizzare la commissione d’inchiesta sulle banche ad andare avanti, magari raccomandando una maggiore blindatura dei loro lavori per evitare un intreccio fra le solite fughe di notizie e la campagna elettorale. Che avrebbe aggravato e  aggraverebbe, anziché risolvere, i problemi del sistema bancario.

Evidentemente convinti della impossibilità di questa blindatura dell’inchiesta, conoscendo i loro polli, non dissimili da certi magistrati i cui archivi sono spesso colabrodo, i presidenti delle Camere hanno finito, volenti o nolenti, per proteggere la Banca d’Italia dai possibili sviluppi di un’indagine che ha già fatto affiorare situazioni inquietanti: per esempio, la grossa discrepanza fra quanto è stato riferito separatamente, sulla vigilanza effettuata a carico degli istituti praticamente falliti, i rappresentanti della stessa Banca d’Italia e della Consob. Che non a caso il presidente della commissione ha convocato per un confronto giovedì prossimo.

In previsione anche di questo appuntamento ha fatto notizia e sollevato polemiche, diversamente dalla decisione presa dai presidenti delle Camere sui tempi della commissione, un incontro avuto a Firenze dallo stesso Casini, per quanto già programmato e svoltosi alla luce del sole, col segretario del Pd Matteo Renzi. Che aveva peraltro appena finito di riproporre con pubbliche dichiarazioni la necessità di svelare e perseguire le responsabilità della mancata o difettosa vigilanza sulle banche in crisi.

“Renzi e Casini si fanno l’indagine tet-a-tet. In privato”, ha titolato sul suo Fatto Quotidiano il direttore Marco Travaglio, in simbiosi culturale, diciamo così, con i soliti grillini. Ai quali il giornale di Travaglio ha fornito ulteriori stimoli protestatari raccogliendo e rilanciando voci di una candidatura blindata per il ritorno al Senato o alla Camera promessa per le prossime elezioni a Casini da Renzi. Ma dicano piuttosto i grillini, e quelli del Fatto Quotidiano, se sono interessati pure loro o no all’accertamento di quel che è accaduto fra Banca d’Italia, Consob e banche saltate in aria con i depositi e gli investimenti dei risparmiatori. O se sono interessati alla blindatura dell’ex istituto di emissione dopo avere chiesto in Parlamento la testa del governatore allora uscente, e poi confermato a dispetto anche della posizione critica assunta pure dal Pd renziano.

In questo groviglio di situazioni e di ruoli non può purtroppo ritenersi di secondaria importanza una circostanza tutta politica riguardante entrambi i presidenti delle Camere.

Pietro Grasso e Laura Boldrini sono partecipi o addirittura protagonisti -secondo alcune cronache non smentite- dello schieramento di sinistra in allestimento per fare concorrenza prima, durante e dopo le elezioni al Pd, cioè in funzione antirenziana. Grasso è dato in vantaggio rispetto alla Boldrini, tanto che ne è stata da qualche parte annunciata l’incoronazione di leader antirenziano in un raduno degli scissionisti del Pd ed altri in programma il 2 dicembre.

 

 

 

 

Pubblicato da ItaliaOggi il 7 novembre 2017

Se in Sicilia si contano più le stelle che i voti

Con l’ottimismo impostogli dal ruolo di dirigente del partito di appartenenza di Nello Musumeci, che tenta per la terza volta l’elezione a governatore della Sicilia, stavolta a ranghi uniti del centrodestra, anche se non serrati, l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa ha assicurato di disporre di sondaggi che attribuiscono all’amico dieci punti di vantaggio su Giancarlo Cancelleri. Che è il candidato del movimento 5 Stelle.

Degli altri corridori, non c’è quasi traccia negli appunti di La Russa. La sinistra -si vedrà se per fortuna o sfortuna del centrodestra- si è messa fuori gioco da sola nella corsa al governatorato dividendosi in due candidati a perdere: Fabrizio Micari, il rettore dell’Università di Palermo proposto a Matteo Renzi dal sempiterno sindaco Leoluca Orlando, e Claudio Fava. Per la cui corsa si è degnato a scendere in Sicilia Massimo D’Alema in persona per dargli una mano non a vincere, ma a sorpassare il renziano Micari nella parte bassa della classifica, o graduatoria. Ognuno ha i suoi gusti.

Pur nel suo ottimismo La Russa ha ammesso che un aiuto a Cancelleri potrebbe venire nelle urne dagli elettori  siciliani di sinistra attratti non dalla rissa interna, e dalla smania di D’Alema di dare un’altra “lezione” delle sue a Renzi, dopo la botta referendaria di quasi un anno fa. Costoro potrebbero privilegiare il desiderio di impedire la vittoria all’odiato Silvio Berlusconi, sceso di persona nell’isola per prenotare la vittoria nell’altra corsa che attende la sua coalizione: quella dell’anno prossimo per il rinnovo delle Camere con la nuova legge elettorale, appena firmata e promulgata dal presidente della Repubblica. Altro modo per impedire la vittoria all’uomo di Arcore, e fargli passare anche la voglia di rifare con Renzi dopo le elezioni nazionali un nuovo Patto del Nazareno, non c’è che votare per Cancelleri governatore e per i candidati di sinistra a consiglieri regionali, come consentono le regole isolane. Che la sinistra dalemiana -guarda caso- avrebbe voluto introdurre anche nella legge con cui saranno elette le Camere.

I grillini naturalmente ci sperano, pur mettendo nel conto la possibilità di conquistare un governatorato dimezzato, senza una maggioranza nel Consiglio Regionale: cosa che li obbligherebbe dopo le elezioni a cercare alleati nel Palazzo dei Normanni, in deroga al rifiuto di contaminarsi con  i partiti concorrenti. D’altronde, già nella loro solitudine orgogliosa i pentastellati si stanno alleando ai compromessi e alle mediazioni  gestendo ogni giorno i contrasti al proprio interno. E’ ciò che accade nei Comuni dove già governano grazie all’aiuto ottenuto nei ballottaggi coi candidati della sinistra dagli elettori di destra. In Sicilia, non a caso la terra di Luigi Pirandello, avverrebbe il contrario.

La Russa, sempre lui, ha attribuito agli elettori siciliani di sinistra la capacità di dimezzare ma non di annullare le distanze fra il suo Musumeci e Cancelleri. Da dieci i punti di distacco scenderebbero a cinque: uno per ciascuna delle stelle del movimento grillino. Vedremo. Non resta che contare le stelle, oltre ai voti, nel cielo di un’isola che d’altronde ne ha viste di tutti i colori.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net il 5 novembre 2017 col titolo: Elezioni in Sicilia, come si sono mossi Berlusconi, D’Alema, Grillo e Renzi

Lo sbarco di Staino alla Stampa, dopo Avvenire

E bravo Sergio Staino. E’ approdato anche alla Stampa, di sabato, dopo l’approdo domenicale all’Avvenire, fra la sorpresa e le proteste, fortunatamente inutili, del poco galante Galantino, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana. Che sembra essersene fatta una ragione della striscia festiva dell’ultimo direttore dell’Unità alle prese col suo Gesù.

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