L’esclamativo dell’Avanti rimasto nella penna di Matteo Renzi

Emilio Giannelli, con la sua vignetta sul Corriere della Sera ispirata al libro di Matteo Renzi appena pubblicato da Feltrinelli, è riuscito come sempre a cogliere il segno meglio di un editorialista.

Quell’esclamativo birichino aggiunto all’Avanti del titolo del libro del segretario del Pd per incoraggiare un Silvio Berlusconi che bussa all’uscio riporta per incanto, e non a torto, sulla prima pagina del quotidiano più diffuso in Italia la storica testata socialista scomparsa da tempo dalle edicole e vanamente sostituita, al di là dei meritevoli sforzi di chi se ne occupa, dall’edizione elettronica voluta da quel che è rimasto del Psi. E’ un esclamativo nato col giornale socialista la notte addirittura di Natale del 1896 con la direzione di Leonida Bissolati, da una cui costola Antonio Gramsci avrebbe ricavato nel 1924, quasi due anni prima di essere arrestato dai fascisti, benché deputato, l’Unità. Che era destinata ad essere per tanto tempo la testata dei comunisti, anch’essa purtroppo appena riscomparsa dalle edicole nel colpevole silenzio proprio di Renzi. Che pure ve l’aveva riportata dopo essere diventato segretario del Pd: l’ultima e più aggiornata versione di quello che fu il Pci, disconosciuta nei mesi scorsi dai vari Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, in ordine rigorosamente alfabetico, usciti per rovesciare la sigla, non avendo potuto rovesciane il leader.

Sono le solite storie -mi direte- delle divisioni della sinistra italiana, giustamente definite suicide dal vecchio, saggio e amico Emanuele Macaluso. Ma questa volta, con tutto ciò che ribolle in Italia, in Europa e nel mondo, non sono soltanto le “solite” e “suicide” storie della sinistra. C’è qualcosa di ancora più allarmante e grave. Potrò esagerare dalle mie posizioni di liberalsocialista, dove scherzando ma non troppo il compianto Valentino Parlato mi rimproverava di essermi spinto negli anni Ottanta senza avere il coraggio di andare oltre, cioè ancora più Avanti, con la maiuscola oggi di Renzi; potrò esagerare, dicevo, ma mi pare che da sinistra, a furia di dividersi, si stia attentando alla sopravvivenza della democrazia in questo Paese, e in questa politica, che non ha più pace da quando sono saltati gli equilibri istituzionali voluti dai padri costituenti della Repubblica fra la stessa politica e la magistratura. Se n’è reso conto, pare, pure Renzi, anche a causa forse di alcune esperienze personali, almeno leggendo l’anticipazione del suo libro affidata non a caso, o furbescamente, come preferite, al Giornale di famiglia di Berlusconi, e già di Indro Montanelli. Che purtroppo nell’ultima stagione della sua lunga vita scivolò, secondo me, sull’insidiosissimo terreno del giustizialismo, sottovalutando gli effetti che ne sarebbero derivati.

Più leggo quello che scrive, più sento quello che dice, e i suoi avversari scrivono e dicono di lui, più sospetto, anzi mi convinco che Matteo Renzi sia, per quanto inconsapevolmente, un socialista, o socialdemocratico, o liberalsocialista sinora mancato proprio per il rifiuto di riconoscersi come tale, a dispetto della sua infanzia democristiana. Ma a dispetto sino ad un certo punto, perché i confini fra il socialismo e una certa sinistra democristiana, valutata più per i contenuti della sua azione politica che per il tipo di alleanze perseguite, sono stati spesso labili.

Non a caso, d’altronde, Renzi è stato, fra i vari, troppi segretari succedutisi in dieci anni soltanto al vertice del Pd, l’unico che abbia avuto il coraggio di portarlo nel Partito Socialista Europeo: quasi dalla mattina alla sera.

Prigioniero, ahimè, della visione e della pratica giustizialista nata nella stagione politica di Mani pulite, Renzi non ha mai voluto riconoscersi invece nell’eredità del riformismo socialista di Bettino Craxi. Di cui pure ha ripercorso più di un sentiero, se non di una via.

Anche quell’”aiutiamoli a casa loro” appena scritto e detto da Renzi, fra lo strumentale compiacimento dei leghisti e le altrettanto strumentali proteste della sinistra, o almeno di una certa sinistra, a proposito degli immigrati sbarcati a decine e centinaia di migliaia sulle coste italiane, da loro scambiate per coste europee, corrisponde a ciò che pensava Craxi di questo problema. Che pure non era esploso in modo così eclatante ai suoi tempi, quando l’immigrazione che faceva più notizia e creava più preoccupazione era quella proveniente dalla dirimpettaia Albania e, più in generale, dall’est dopo l’abbattimento del muro di Berlino.

Aiutare a casa loro quanti erano già allora tentati di fuggire in Europa e, più in generale in Occidente, significava e significa -come disse Craxi in un convegno a Venezia nel 1992, accanto all’allora ministro socialista degli Esteri Gianni De Michelis, e come si può sentire in un cortometraggio appena diffuso da Stefania Craxi, la figlia di Bettino- aiutare, finanziare lo sviluppo, finalmente, dei loro paesi soffocati dalla fame e dalle guerre. Significa, per ripetere le parole di Craxi, “accendere le luci” delle loro città per non lasciarne gli abitanti attratti solo dalle luci delle nostre, di città, in Italia e in Europa.

Personalmente, non condivido lo scandalo politico e mediatico esploso attorno alla proposta di Renzi, che non corrisponde solo a quella di Craxi del 1992, peraltro reduce da una missione affidatagli dall’Onu per esaminare il fenomeno del sottosviluppo e dei debiti dei paesi del terzo mondo, ma anche alle più recenti posizioni dell’Unione Europea. E infine all’idea ripetutamente lanciata da Berlusconi di una specie di “Piano Marshall”, che come aiutò l’Europa a risorgere dalle rovine della seconda guerra mondiale potrebbe oggi aiutare l’Africa a crescere.

Se c’è una cosa, della vignetta di Giannelli sul Corriere, che non mi ha convinto del tutto, sul piano storico, politico e identitario della sinistra, è proprio quel Berlusconi che bussa alla porta di Renzi, incoraggiato dal segretario del Pd a venire “Avanti !”, col punto esclamativo. Al posto del presidente di Forza Italia, Giannelli avrebbe potuto mettere il fantasma di Bettino Craxi.

Già immagino le smorfie di certa sinistra, e forse dello stesso Renzi, di fronte a questa varante della vignetta del Corriere, ma non per questo cambio idea.

 

Pubblicato su Il Dubbio

Scenata di gelosia di Giuliano Ferrara a Eugenio Scalfari

         Potrebbe essere definita una simpatica scenata di gelosia l’articolo col quale Giuliano Ferrara in groppa al suo elefantino rosso ha mostrato di non gradire, contestandone in dottrina la validità, la clamorosa promessa che Eugenio Scalfari, in un incontro svoltosi giovedì scorso a Santa Marta e riferito due giorni dopo ai lettori di Repubblica, ha strappato all’amico Papa Francesco, sino a piangerne durante il ritorno in auto a casa. E’ quella di beatificare prima o poi Blaise Pascal.

         Si tratta dello scienziato e filosofo morto nel 1662 in voluta e orgogliosa povertà dopo essere stato -ha ricordato il fondatore del Foglio- “un giansenista che si mangiava i gesuiti a colazione”, per cui se fosse stato allora giù in vita Papa Bergoglio, gesuita oggi felicemente regnante col nome di Francesco d’Assisi, sarebbe finito a polpette sul desco del futuro beato.

         Con dieci lettere, note come “provinciali”, Pascal “aveva messo alla berlina -ha ricordato sempre Giulianone agli ignoranti e sprovveduti che ormai sono non solo al di qua ma anche al di là del Tevere- le deviazioni dei gesuiti dal rigore morale” del cristianesimo militante e ufficiale. Di queste “deviazioni” il mio amico, o ex amico Giuliano, non so più come dire perché non ci sentiamo né ci vediamo da tanto tempo, ha colto un po’ il segno sarcasticamente nella famosa domanda che Papa Francesco si pone ogni volta che si trova a giudicare un comportamento a lungo criticato da Santa Romana Chiesa: “Chi sono io per giudicare?”.

         Confesso di non avere la stoffa teologica, culturale e quant’altro per dire chi abbia più ragione tra Giuliano Ferrara ed Eugenio Scalfari nell’approccio con Papa Francesco, ma soprattutto su ciò che il fondatore della Repubblica di carta riesce abitualmente a strappare al Pontefice, a cominciare dall’autorizzazione a fare un uso pubblico dei loro incontri privati: un uso tanto più utile al giornale ora diretto da Mario Calabresi, che sta perdendo -mi dicono- tante di quelle copie da avere in qualche modo contribuito alla decisione dell’editore Carlo De Benedetti di non interessarsene più in prima persona, passando la mano al figlio Marco. Al quale l’informato ed ex collaboratore del gruppo editoriale Giovanni Valentini ha fatto le pulci sul quotidiano diretto da Marco Travaglio rimproverandogli, fra l’altro, le passate inclinazioni a intese commerciali e finanziarie con Silvio Berlusconi, mai abbastanza odiato dal pubblico vecchio e nuovo di una certa sinistra.

         Ma, se non ho la stoffa teologica, credo di avere il naso per sospettare che la scenata di gelosia intravista nell’intervento di Giulianone nasca dal confronto che egli è costretto quotidianamente a fare fra i risultati della frequentazione tra Scalfari e Papa Francesco e quelli della frequentazione, a suo tempo, fra lo stesso Giulianone e l’allora Pontefice regnante Benedetto XVI, e ancor più il cardinale Joseph Ratzinger prima di succedere a Giovanni Paolo II.

 

 

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Perché Giuliano Ferrara s’infuria su Blaise Pascal con Papa Francesco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Contrada rivuole la divisa prima ancora dei soldi

         Prima dei soldi Bruno Contrada ha deciso di chiedere la restituzione della divisa della Polizia sottrattagli dalla condanna, tutta ingiustamente scontata, a 10 anni di carcere per il fantomatico reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Che peraltro è costata la condanna a molti altri imputati più o meno eccellenti, oggi in grado di sperare ancora di più di ottenere giustizia anche loro grazie alle stesse procedure internazionali, più in particolare europee, seguite da Contrada.

         Una divisa, in realtà, per chi ritiene orgogliosamente di avere servito lo Stato, e non di averlo tradito, secondo accuse e sentenze che lo hanno tormentato per 25 anni, cioè 15 in più di quelli trascorsi in detenzione carceraria o domiciliare, vale molto più di un indennizzo economico, per quanto alto potesse risultare.

         Non si può pertanto non condividere la decisione annunciata dall’ex condannato: ex sia per avere scontato per intera –ripeto- la pena comminatagli sia perché la stessa Corte di Cassazione, che lo volle condannato prima annullando una sentenza di assoluzione e poi confermandone una di senso opposto, è stata praticamente costretta a contraddirsi dal contesto una volta tanto fortunatamente europeo in cui l’Italia opera.

         C’è tuttavia qualcosa che nel comportamento finale della Corte di Cassazione non ha funzionato e non funziona. E’ il giro di parole cui è ricorsa per non chiamare le cose col loro nome. Il concetto di assoluzione è stato nascosto dietro la cortina fumogena di una sentenza di condanna definita “ineseguibile e improduttiva di ogni effetto”. Ineseguibile dopo essere stata eseguita. E improduttiva di ogni effetto dopo tutti i guai materiali e morali subiti da un uomo per il quale nessuno, peraltro, a nome dello Stato si è sentito sinora in obbligo di chiedere scusa, preferendo girare la testa dall’altra parte, sopraffatto dalla paura probabilmente di essere linciato dal giustizialismo militante, giudiziario e mediatico.

Il lungo inferno di Contrada che grida vendetta

         Già di suo ha dell’orribile l’assoluzione postuma di Bruno Contrada: postuma, pur essendo l’interessato fortunatamente ancora in vita con i suoi 86 anni sulle spalle, perché successiva alla condanna interamente applicata, fra carcere vero e proprio e detenzione domiciliare, per complessivi 120 mesi. Non meno gravi sono i due anni che la Corte di Cassazione ha impiegato in Italia per trarre le conseguenze dell’assoluzione -ripeto- postuma dopo il verdetto della giustizia europea che nel 2015 aveva sancito la illegittimità della condanna comminata per concorso esterno in associazione mafiosa a Contrada per fatti compiuti prima che quel reato venisse partorito non dal legislatore, ma dalla giurisdizione, cioè da una sentenza della stessa Cassazione.

         E’ una storia orribile anche sotto il profilo della dottrina, oltre che su quello umano. Ma non meno orribile è il tentativo che i responsabili della vicenda finalmente chiusa stanno facendo per giustificare il loro operato, nei venticinque anni precedenti, dando praticamente dei matti o degli ignoranti ai giudici europei e infine anche italiani che si sono decisi a mettere una pezza -ripeto ancora- postuma all’accaduto. Matti o ignoranti, perché non saprei come altro tradurre diversamente l’ex capo della Procura di Palermo Giancarlo Caselli quando dice alla Stampa che gli assolutori di Contrada non hanno capito niente né dell’ex condannato né della mafia. E lo dice ammettendo di non avere ancora letto la sentenza della Cassazione, per cui non so cos’altro di ancora più grave potrà dire quando ne verrà a conoscenza.

         Non è mai passato dalla testa di inquirenti e giudicanti del passato che Contrada per mestiere, da poliziotto e poi da uffficiale dei servizi segreti, non potette non avere rapporti bord line, diciamo così, con la malavita organizzata per saperne di più, arrestarne i protagonisti e consentire ai suoi successori di completare l’opera. Non hanno mai avuto il sospetto, inquirenti e giudicanti, ch’egli potesse essere rimasto vittima di giochi interni di corpo e quant’altro. Ancora sta lì, il buon Caselli, ad elencare quelle che lui considera ancora le gravissime malefatte di Contrada, anche dopo che l’uomo è stato assolto.

         Auguro a Contrada di vivere ancora abbastanza per vedere l’avvio e la conclusione positiva del procedimento che ha il diritto di promuovere per essere risarcito dei danni ingiustamente subiti. Il risarcimento sarà pagato naturalmente dallo Stato, ma da cui spero sarà promossa poi azione di rivalsa su chi ha sbagliato, perché a sbagliare sono stati, prima ancora dell’astratta entità statuale, uomini in carne e ossa che hanno agito in suo nome.

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net del 9-7-2017 col titolo: Storia orribile dell’inferno vissuto da Bruno Contrada

        

Lettera a Renzi, craxiano a sua insaputa

        Caro Matteo, ho appena finito di leggere su Democratica, la testata elettronica con la quale spero che tu non abbia deciso di volere sostituire definitivamente quella storica della sinistra l’Unità riscomparsa dolorosamente dalle edicole, il capitolo del tuo libro di imminente uscita con le edizioni Feltrinelli intitolato Avanti. Manca, se non ho visto male, il punto esclamativo che evocherebbe un’altra testata storica della sinistra italiana, ancora più vecchia dell’Unità: il giornale socialista nato per l’iniziativa e sotto la direzione di Leonida Bissolati -pensa un pò- nella suggestiva notte di Natale del 1896, anch’esso ormai uscito dalle edicole, incorso nell’infortunio di una imitazione a dir poco sfortunata e diffuso solo on line da quel poco che è rimasto del Psi. Una bella e autentica storia dell’Avanti! per fortuna esiste grazie alla penna e alla testa di Ugo Intini, che ne fu per qualche anno direttore.

         Forse ti dispiacerà vedertelo scrivere, visto che hai sempre mostrato una certa contrarietà a sentirti paragonare al mio amico Bettino Craxi, morto nel 2000 in una latitanza, in Tunisia, ad Hammamet, forse corretta sul piano giudiziario, anche se ci sono giuristi come Nicolò Amato che lo hanno contestato in punta di cuore e di diritto, ma sicuramente scorrettissima per chi ha vissuto da adulto, diciamo così, gli anni di un trattamento giudiziario molto simile e vicino alla persecuzione, riconoscibile in quella “durezza senza uguali” lamentata, a dieci anni dalla sua scomparsa, dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, lo stesso che ti avrebbe nominato nel 2014 presidente del Consiglio; forse -ti dicevo, scusandomi per la lunga premessa- ti dispiacerà vedertelo scrivere, ma anche nel capitolo che hai scelto di anticipare del tuo libro, dedicato al tema così drammaticamente centrale dell’immigrazione, oltre che in quel titolo pur mancante del punto esclamativo, ho trovato assonanze non con la tua infanzia -si potrebbe dire- democristiana, ma con la tradizione e la cultura socialista. Anche il dovere di “aiutare a casa loro” i disperati che scappano dall’Africa, al di là della strumentale rivendicazione leghista delle parole, rientra nella linea sempre predicata da Craxi di sostenere lo sviluppo del continente dirimpettaio dell’Europa. Fu l’anticipazione del piano Marshall per l’Africa poi proposto da Berlusconi.

         Se vuoi, posso girarti un cortometraggio di una decina di minuti appena inviatomi dalla mia amica Stefania Craxi, figlia di Bettino, in cui potrai riconoscerti in molte cose dette e scritte dal padre sull’Europa e sul rapporto con la sponda africana, nonché sulla necessità di rinegoziare i famosi parametri del trattato costitutivo dell’Unione. Che sia per il loro contenuto sia per il modo in cui sono stati gestiti, una volta scomparsi i protagonisti, si sono rivelati più un cappio che una culla di sviluppo e di solidarietà.

         D’altronde, caro Matteo, tu sei stato l’unico che abbia avuto la forza e il coraggio di iscrivere il tuo Pd, nato nel 2007 con la fusione fra ciò che rimaneva , almeno a parole, dei riformismi di origine comunista, socialista, laica e democristiana, al Partito Socialista Europeo. I tuoi predecessori provenienti dal Pci non vi si erano spinti, un po’ perché quella parola “socialismo” è sempre andata scomoda alla loro formazione e un po’ per paura di rompere con i post-democristiani. Che a te quindi hanno permesso ciò che avevano negato agi altri, soddisfatti d’altronde di sentirsi “osservatori” del Pse, meno ancora quindi di ospiti.

         Mi chiedo che cosa ancora ti impedisca, se non un conformismo di amaro sapore giustizialista, che pure dovrebbe darti fastidio per l’esperienza che hai già avuto personalmente e politicamente con certa cultura e pratica giudiziaria, di riconoscerti fra i successori di Craxi, e non solo di Pier Luigi Bersani, per esempio, o, ancor prima del Pd, di Piero Fassino. Che, peraltro, fra i post-comunisti è quello che non a caso, secondo me, ti sta più fortemente e convintamente sostenendo nelle polemiche che ancora ti angustiano nel partito. Un Fassino così onesto e coraggioso da essere stato il primo, in un libro autobiografico, a riconoscere parecchi anni fa a Craxi il merito di avere anticipato di parecchio il pur mitico Enrico Berlinguer, nella memoria dei militanti comunisti, sulla strada dell’ammodernamento della sinistra e, più in generale, del sistema istituzionale italiano. E di averlo fatto in modo così concreto e visibile da avere involontariamente creato le premesse del crollo anche fisico dell’allora segretario del Pci, ridottosi talmente in un angolo da cercare quasi di uscirne con una morte eroica, sul campo di battaglia di una campagna elettorale, come avvenne nel 1984.

         Abbi quindi il coraggio, caro Matteo, di un aggiornamento completo della tua anagrafe politica. Scuoteresti davvero e definitivamente la sinistra senza tradirla o snaturarla, come temeva e teme invece la sua parte più arcaica e immobile. D’altronde, ti ha preceduto su questa strada, e nello stesso Pd, pure il tuo avversario ed ex concorrente da sinistra Michele Emiliano: il sempre imprevedibile governatore pugliese. Che, accettando molto volentieri il sostegno di Bobo Craxi, l’altro figlio di Bettino, nelle primarie congressuali di aprile, disse pubblicamente che la sinistra aveva debiti da pagare, sul piano umano e politico, al padre. Sì, debiti, anche se il solito Michele Travaglio usa giocare con questa parola per coprire il solito, macabro spazio residuale del giustizialismo praticato anche ai morti.

         Pensa al salutare sconquasso -scusa l’ossimoro- che provocheresti in questo stagno paludoso che è diventato il dibattito politico italiano, fra un Massimo D’Alema che sarebbe costretto a ripetere contro di te le giaculatorie anticraxiane della falsa epopea di Mani pulite, un Beppe Grillo che darebbe ancora di più i numeri e un Silvio Berlusconi che non potrebbe più vantarsi di essere l’unico amico rimasto del compianto Bettino, morto in tempo per non vederlo condannato in via definitiva in un’aula giudiziaria, ed espulso dal Senato, ma in tempo anche per non dovergli rimproverare errori nella gestione delle sua avventura politica. Già, perché l’ex Cavaliere di errori ne ha pure commessi, come quello di sfilarsi dal cosiddetto Patto del Nazareno con te sulle riforme per rifiutare la candidatura al Quirinale di un uomo, Sergio Mattarella, di cui adesso è entusiasta, dimenticandone le lontane e peraltro inutili dimissioni da ministro nell’ultimo governo di Giulio Andreotti contro la legge che finalmente regolarizzava le televisioni private, cioè le sue, di Berlusconi.

                                                      

 

 

 

 

 

I trucchi di Franceschini e le illusioni di Berlusconi

         E’, a dir poco curioso, se non vogliamo chiamarlo farlocco, lo “scontro”, o il “duello” o quant’altro si è svolto fra Matteo Renzi e Dario Franceschini, o viceversa, in verità più sui giornali che nella riunione della direzione del Pd. Dove il ministro dei beni culturali, e socio di maggioranza, chiamiamolo così, del risegretario del partito nella campagna congressuale conclusasi in aprile con le primarie, ha votato la relazione di Renzi, diversamente dalle minoranze del guardasigilli Andrea Orlando e del governatore pugliese Michele Emiliano. Che per marcare il dissenso -è stato spiegato ai giornalisti- hanno disertato la votazione.

         Se uno vota a favore della relazione del segretario da cui in parte avrebbe dissentito, vuol dire che qualcosa non va, o non è andata, o nel dissenso o nella votazione, come preferite.

         Il dissenso è nato o nasce dal problema delle alleanze di governo, che Renzi considera prematuro preferendo definire prima ben bene il programma col quale presentarsi agli elettori, ormai nella prossima primavera, e cercare di prendere più voti possibili, almeno per non essere sorpassato dal pur malmesso movimento grillino delle 5 stelle, e di cui invece Franceschini vorrebbe si parlasse già prima del voto, convinto che da soli sia più facile perdere che vincere. Ebbene, mi chiedo se il ministro dei beni culturali ci fa o ci è. Fa il furbo, il tattico e quant’altro, o davvero pretende che il suo partito si vincoli prima delle elezioni ad un’alleanza con i fuoriusciti, cioè con gli scissionisti, compromettendo quelle pur modeste capacità di attrazione che ha verso un elettorato moderato che ha continuato anche nelle recenti elezioni amministrative a non tornare a votare per Silvio Berlusconi? Il quale, per quanto abbia gonfiato il petto per negare di avere subìto sorpassi da parte dei leghisti, è costretto ogni giorno a contestare o fare contestare da qualcuno della sua corte la scalata di Matteo Salvini alla guida di un’eventuale riedizione del centrodestra. Che è tanto sperimentata a livello locale quanto improbabile a livello nazionale.

         Poiché Franceschini è lo stesso ministro, o dirigente del Pd, non un omonimo o un sosia, che non si è lasciata scappare occasione da almeno tre anni a questa parte per contestare la demonizzazione delle cosiddette larghe intese fatta dalla sinistra interna ed esterna al Pd pensando proprio a Berlusconi, lasciatemi dire che non mi convince la rappresentazione della rottura intervenuta o avviata con Renzi. Che intanto, non essendo uno sprovveduto, ha gestito le varie fasi congressuali del Pd in modo da non rendere più decisivi i numeri di Franceschini nella direzione e nell’assemblea nazionale, o come altro si chiama, del partito. Né penso che abbasserà la guardia, specie dopo lo spreco di muscoli attribuiti al ministro, nella elaborazione delle liste dei candidati al Parlamento, e quindi nella formazione dei gruppi delle nuove Camere.

         Consiglierei pertanto di aspettare le elezioni politiche, non quelle siciliane di novembre, e le scelte che dovranno seguire per valutare confini e dimensioni di questo così intempestivo annuncio di duelli, scontri e simili fra il ministro dei beni culturali e il segretario del suo partito. Intempestivo, questo annuncio, quanto quello degli ospiti conviviali di Silvio Berlusconi che hanno appena preso per buona la sua speranza di potere arruolare nella campagna elettorale del 2018 addirittura Sergio Marchionne, conoscendone la vicina scadenza del contratto di amministratore delegato della ex Fiat. Ma dimenticandone i consolidati e ostentati rapporti con Renzi.

Quel dossier Pini anti-Maastricht che non fermò Craxi

Ogni volta che aumentano la confusione e le tensioni nella gestione dell’Unione Europea- ora per i bilanci, ora per le banche, ora per l’immigrazione- c’è qualcuno che giustamente rispolvera giudizi e previsioni negative formulate sulla Ue da Bettino Craxi fra il 1996 e il 1997 nel suo rifugio tunisino, preferito alle carceri italiane dove i vari Francesco Borrelli, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo volevano farlo rinchiudere come il campione di Tangentopoli. Eppure quella metaforica città del finanziamento illegale della politica era stata affollata di personalità e partiti di ogni colore.

Nella migliore delle ipotesi Craxi, peraltro prima ancora che, alla fine del 1998, fosse stabilito l’esoso cambio di 1.936,27 lire per un euro, considerava l’Unione Europea destinata a tradursi in un “inferno” per gli italiani, piuttosto che un “limbo”, sicuramente non il “paradiso” promesso o sognato da Carlo Azeglio Ciampi, rimasto quell’anno ministro del Tesoro nel passaggio dal primo governo di Romano Prodi al primo di Massimo D’Alema.

Lo stesso Craxi tuttavia da segretario socialista aveva concorso all’obiettivo del trattato europeo di Maastrichit, firmato per conto dell’Italia alle ore 18,05 del 7 febbraio 1992 dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti al suono di una musica di Mozart beffardamente chiamata –sentita con le orecchie di oggi- “Divertimento”. Lo affiancavano il ministro socialista degli Esteri Gianni De Michelis, che aveva tenuto informato il segretario del Psi delle trattative nei mesi precedenti, e il ministro del Tesoro andreottiano, più che democristiano, Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia, come sarebbe poi diventato Ciampi.

Pensate, quella sera che rese famosissima la cittadina olandese di Maastricht precedette di soli dieci giorni il fatidico 17 febbraio, quando a Milano il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, fu colto in flagranza di tangenti e arrestato. Cominciò allora l’era di “Mani pulite”, destinata ad annientare la cosiddetta prima Repubblica, e con essa Craxi.

Se l’Unione Europea era destinata a tramutarsi in un “inferno” per gli italiani, perché mai Craxi non bloccò il suo De Michelis e tutto il resto?, mi chiederete. Glielo chiesi anch’io, ben prima che lui si rifugiasse ad Hammamet, quando era ancora il potente segretario socialista e il trattato di Maastrichit non era stato ancora firmato. Glielo chiesi a Roma nelle prime settimane del 1992, avendo saputo dal comune amico Massimo Pini, suo fidatissimo consigliere, allora nel comitato direttivo dell’Iri presieduto da Romano Prodi, di un dossier critico mandatogli un mesetto prima proprio sulle trattative per l’Unione Europea.

Il dossier era contenuto in una cartellina arancione, che Craxi tirò fuori da un cassetto e mi fece anche vedere per confermare di averlo ricevuto e studiato. Me ne raccontò e spiegò il contenuto, ancor più di quanto mi avesse anticipato Pini in una colazione a casa sua, a Milano. E mi disse di averlo trovato “giusto”, pur al netto di alcune considerazioni troppo critiche verso De Michelis, praticamente accusato da Pini di essersi lasciato esautorare da Carli nel negoziato, o di essersi troppo fidato di lui nella valutazione dell’impatto dei famosi “parametri”, particolarmente quelli del debito pubblico e del deficit rispetto al prodotto interno lordo (pil). Da quei parametri -aveva avvertito Pini- avrebbero potuto trarre vantaggi soltanto gli speculatori giocando al pallone con i titoli del debito pubblico, a cominciare da quello italiano, largamente compensato già allora dall’ingente ammontare del risparmio privato.

Sempre a De Michelis, ancora più che a Carli, nel dossier di Pini si rimproverava di avere sottovalutato gli effetti dell’intervenuta unificazione tedesca, nel presupposto che la Germania avrebbe impiegato molto più tempo a recuperare l’handicap della costosa decisione tutta politica di equiparare i due marchi: quello tedesco dell’ovest e quello ereditato dall’est.

Il rispetto rigoroso dei parametri europei, sempre secondo il dossier dell’amico e consigliere di Craxi, avrebbe comportato in Italia contraccolpi sociali da “guerra civile”.

L’unico fenomeno che Pini si era risparmiato di prevedere fu l’impatto con l’immigrazione dall’Africa. Quella che allora preoccupava era un’altra, proveniente dall’est per effetto della caduta del comunismo. Infatti facevano allora notizia, e provocavano allarme, gli sbarchi degli albanesi sulle coste pugliesi. Ma sui problemi dell’Africa, pur in una situazione ben diversa da quella di oggi, avrebbe provveduto lo stesso Craxi a richiamare l’attenzione in un convegno a Venezia del febbraio 1992, avvertendo che bisognava accendere “le luci delle città” in quel continente per evitare che gli africani fossero attratti solo dalle luci delle città europee.

A conclusione della chiacchierata chiesi a Bettino se non fosse il caso di bloccare il conto alla rovescia nella corsa a Maastricht. Ma lui mi spiegò che, per quanto gravosi, quei pesanti “vincoli esterni” potevano risultare utili per un certo periodo anche all’Italia. Mi parlò anzi in prima persona, dicendomi cioè che potevano essergli utili alla guida del governo, dove lui contava di tornare dopo le elezioni politiche di primavera, per completare l’azione di risanamento economico in qualche modo avviata nel 1984, sempre da lui a Palazzo Chigi, con i famosi tagli alla scala mobile dei salari, apportati con l’aiuto di De Michelis, allora ministro del Lavoro.

Di quell’intervento sulla scala mobile, col famoso decreto di San Valentino faticosamente convertito in legge tra ostruzionismi e minacce, poi avveratesi, di ricorso al referendum abrogativo, Craxi mi disse che gli era costato “tantissimo sul piano sia politico sia umano”, riferendosi con quest’ultimo aggettivo allo scontro avuto personalmente con Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci.

A dispetto della rappresentazione data di quei rapporti a sinistra e nella stessa famiglia di Berlinguer, che gli impedì la visita al morente segretario comunista, colto da ictus durante un comizio a Padova, Craxi rimase personalmente segnato da quella vicenda. Non poteva certamente immaginare qualche mese prima, al congresso socialista di Verona, che Berlinguer fosse destinato a morire di lì a poco, dopo i fischi rimediati dai delegati ma soprattutto dagli invitati all’assise del Psi: fischi ai quali Craxi avvertì dalla tribuna, nel discorso di replica, moltiplicandone –ahimè- gli effetti, di non essersi unito perché non sapeva fischiare.

Di Berlinguer, il cui portavoce Tonino Tatò descriveva Craxi come un bandito scrivendone al suo capo, il leader socialista aveva invece molto rispetto, e persino rimpianto dopo la morte. Gli rimproverava solo di essere rimasto “prigioniero” di un certo antisocialismo purtroppo non estraneo alla storia del comunismo, per quanto il padre fosse stato socialista. E di non avere voluto sentire ragione neppure quando a spiegargli gli effetti positivi che potevano avere i tagli alla scala mobile, riducendo a una cifra l’inflazione che allora galoppava come un cavallo, aveva tentato privatamente il segretario comunista della Cgil Luciano Lama. Che poi invece, disciplinatamente, si attivò per il referendum abrogativo, sapendo bene peraltro che lo avrebbe più facilmente perduto che vinto. Nel frattempo Berlinguer era morto, sostituito da Alessandro Natta.

Sempre convinto di poter tornare a Palazzo Chigi dopo le elezioni di quel maledetto 1992, senza immaginare che dopo qualche mese sarebbe invece arrivato al capolinea della sua carriera politica, Craxi mi disse che sarebbe stato lui stesso, dopo avere messo a posto “i fondamentali”, a porre il problema di rinegoziare i parametri di Maastricht. Che -scrisse ad Hammamet nel 1997- “non stanno scritti nella Bibbia”. Egli contava nel 1992 non solo di poter tornare a palazzo Chigi ma di poter avere come interlocutore in Germania Helmut Kohl, che non era un socialista ma di cui aveva ugualmente molta stima. Purtroppo anche Kohl era destinato ad avere, sia pure sei anni dopo, problemi un po’ analoghi a quelli di Bettino in Italia.

Alla luce anche di questi modesti, modestissimi ricordi, capirete perché non ho mai considerato epica la stagione giudiziaria e politica di Mani pulite.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio a pagina 14 dei commenti

Un Grillo generoso col compianto Fantozzi

         Anche Beppe Grillo -ahimè- riesce ad essere migliore di quello che appare o cercano di rappresentare i suoi tifosi. Gli fa onore, in particolare, il rifiuto opposto al tentativo di arruolare il compianto Paolo Villaggio -il Fantozzi che ci ha fatto divertire per tantissimi anni- fra i pentaslettati, per quanto compiuto -questo tentativo- dal figlio dello scomparso, Pierfrancesco, nella camera ardente allestita in Campidoglio. Dove Grillo non ha voluto mancare.

         Alle simpatie per il Movimento delle 5 stelle attribuito al papà, e peraltro contraddette dall’ultimo voto espresso e dichiarato da Villaggio, l’anno scorso, per l’ex compagno radicale Roberto Giachetti nel ballottaggio con la grillina Virginia Raggi al Campidoglio, Grillo ha opposto un sobrio riconoscimento della impossibilità, e anche inopportunità, di incasellare l’amico e concittadino genovese.

         Dio solo sa quanto avrebbe potuto far comodo a Grillo, in questo momento di crisi di consenso, arruolare il mitico Fantozzi nel suo “firmamento”.

         I due amici comici evidentemente di distinguevano per una cosa non da poco. Paolo Villaggio voleva solo far ridere e divertire il suo pubblico. Grillo un po’ sadicamente da politico, se gli dovesse capitare di portare il suo partito al governo, lo vorrebbe anche far piangere.

        

Se davvero Bersani asciuga la scoglio col panno di Pisapia

 

Già molto invitato prima che lasciasse il Pd per rovesciarne il nome, non essendo riuscito a rovesciarne il segretario neppure lavorando di gomito col compagno Massimo D’Alema contro la riforma costituzionale nel referendum del 4 dicembre scorso, Pier Luigi Bersani è diventato in questa torrida estate il più corteggiato dai giornali e dalle televisioni. Che se lo contendono come la Madonna pellegrina. A volte lo si vede e si sente su più emittenti persino alla stessa ora dello stesso giorno, in diretta o in differita. E per goderne o disapprovarne, secondo i gusti, le stesse cose, le stesse metafore, le stesse battute, gli stessi tentativi di negare l’evidenza, come quando dice di non avercela, per carità, con Matteo Renzi. Che pertanto farebbe male a prendersela per i suoi ragionamenti e moniti scambiandoli per attacchi.

Ah, quel permaloso e “indisponente” segretario del Pd, riuscito a far perdere la pazienza anche al sindaco di Milano Giuseppe Sala, da lui stesso inventato per la successione a Giuliano Pisapia. Che, dal canto suo, fa sforzi sovrumani per contenersi nella missione affidatagli da Romano Prodi, allontanando la sua tenda dal Pd, di far saltare i nervi all’ex presidente del Consiglio con quelle cose dette e non dette, con quella “discontinuità” reclamata un giorno sì e l’altro pure. Che poi significa, anche se il termine non basta a soddisfare tutti gli avversari di Renzi, il riconoscimento da parte dello stesso Renzi –figuratevi- di non averne azzeccata una alla guida ne’ del governo, nei mille e più giorni trascorsi a Palazzo Chigi, ne’ del partito, prima e dopo essersi trasferito e blindato nell’ufficio che fu del tesoriere della Margherita Luigi Lusi. Che vi si barricava al Nazareno per lavori che gli sarebbero costati una condanna a 7 anni di carcere.

Eppure Pisapia, come anche Prodi, con la tenda allora più vicina al Pd, sia pure con dichiarazioni e motivazioni sofferte, votò il 4 dicembre la già ricordata e bocciata riforma costituzionale: cosa che Bersani e D’Alema gli hanno rapidamente e generosamente perdonato pur di arruolarlo nella nuova partita contro il toscano, ma non altre anime o isole dell’arcipelago della sinistra. Dove prima o poi Bersani, se gli dovesse capire di stancarsi di fare l’irriducibile in televisione lasciandosi invece prendere dalla stanchezza e dal caldo, potrebbe trovarsi davvero a dover pettinare le bambole, o ad asciugare lo scoglio, per rimanere nelle sue metafore, magari col panno prestatogli da un Pisapia che si è appena guadagnato sul Fatto Quotidiano da Andrea Scalzi il soprannome di “signor Quasi”. Anzi, “Quasi nulla”.

Grillo e Berlusconi si contendono Paolo Villaggio

Diversamente da Stefano Rodotà, tanto osannato in vita da candidarlo al Quirinale tre anni fa, ma velenosamente ignorato da morto, cioè censurato, per avere osato ad un certo punto criticare il troppo capriccioso e autoritario movimento delle 5 stelle, Paolo Villaggio morendo ha toccato profondamente il cuore di Beppe Grillo. Gli ha procurato “un dolore sordo”, ha scritto sul suo blog il capo o garante pentastellato come collega comico, concittadino genovese e amico. Un amico, Villaggio, dai sentimenti personali probabilmente ricambiati ma non al punto da condividerne le finalità politiche.

         Per quanto cattivo, anzi cattivissimo, come si compiaceva di definirsi per divertirsi alle reazioni di chi lo ascoltava, il mitico Fantozzi non si è mai sognato -credo- di votare e far votare davvero per i grillini. Che, una volta tanto, non gliene hanno voluto ammettendolo da morto -ma solo da morto- nel loro firmamento, chiamiamolo così. Grillo in persona ha voluto elogiare l’“originalità” dello scomparso scrivendo che “lo ha reso una stella”: la sesta evidentemente, ad honorem, o emerita, del suo movimento. Che Dio solo sa quanto bisogno abbia, in questo momento di crisi di consenso, di un aiuto dall’alto: molto dall’alto, dove ora Fantozzi si trova, assegnato a furor di popolo e di giornali al Paradiso, prima ancora che il Padre Eterno potesse disporne l’ammissione.

         Il fatto è che Paolo Villaggio, abituato a dissacrare tutto e tutti, e a farci riconoscere in lui anche per le nefandezze metaforiche di cui era capace sullo schermo o sui palchi, aveva probabilmente anche del movimento di Grillo l’opinione che gridò della corazzata -Potemkin- carissima alla cultura e alla militanza comunista: “una cagata pazzesca”. Il massimo di avvicinamento non ai grillini ma ai loro dintorni Villaggio lo espresse offrendosi come collaboratore a Marco Travaglio, che se n’è giustamente vantato celebrandolo nell’editoriale del suo Fatto Quotidiano, una volta tanto sottratto ai temi del giustizialismo.

Ma quella “cagata pazzesca” della Potemkin e di tutto ciò che poteva significare sul piano cuturale e politico è rimasta impressa per sempre nel cuore e nella mente anche di Silvio Berlusconi. Che, come Grillo, ha avvertito lo stesso dolore “sordo” all’annuncio della morte di Villaggio e si è scomodato a celebrarlo di persona sul Giornale di famiglia.

         Tutto sommato, specie oggi che anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala, eletto a Palazzo Marino grazie all’aiuto di Matteo Renzi, superando di stretta misura il candidato allora berlusconiano Stefano Parisi, ha un po’ tradito o scaricato il segretario del Pd, lamentandone in una intervista al Corriere della Sera la rovinosa “indisponenza”, ai danni anche dell’amico presidente del Consiglio Paolo Gentiloni; specie oggi, dicevo, si può persino dire che con la morte di Villaggio è forse scomparso l’unico comico in grado di fare del bene politico a questo Paese. Sino a diventare, se la signora della falce nera non ce lo avesse portato via, il candidato ideale alla guida di un governo dalle intese davvero larghe, anzi larghissime: da Grillo a Berlusconi passando per i vari Renzi, Pisapia, Bersani, Gotor, addirittura D’Alema e frattaglie varie. Tutti uniti ogni giorno per riconoscersi in una grossa risata.

 

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Chi si contende (fantozzaniamente) Paolo Vllaggio

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