I 90 anni di Bettiza ignorati dai giornali da lui onorati col suo lavoro

         Lasciate che mi disinteressi un pò delle solite, pasticciate vicende della politica italiana, con mezzo Parlamento appeso alla crisi ora anche elettorale del movimento grillino e agli effetti che potrebbero derivarne all’ennesima riforma elettorale in cantiere a Montecitorio, per abbracciare a distanza il collega ed amico Enzo Bettiza. Che ha appena compiuto i suoi 90 anni osservando con giustificato disincanto le vicende di un’Italia che ha amato e raccontato con grande passione e competenza da giornalista, scrittore e politico, avvolto nella sua cultura e formazione mitteleuropea, essendo nato il 7 giugno 1927 a Spalato. Da dove venne esule nella pur sua Italia alla fine della seconda guerra mondiale, approdando particolarmente in terra pugliese per poter continuare a respirare l’aria degli ulivi dalmati. E lo ha raccontato spesso con nostalgia, orgoglio e una certa complicità a me, che sono nato proprio in Puglia quasi 12 anni dopo di lui.

         Indro Montanelli, che senza l’aiuto di Enzo, la sua conoscenza degli uomini, la sua finezza culturale, non avrebbe potuto compiere nel 1974 la coraggiosa scissione dal Corriere della Sera, ormai rassegnato al cosiddetto compromesso storico fra la Dc e il Pci come esperienza non provvisoria ma permanente, in una edizione un po’ scalcagnata di quella che aulicamente sullo stesso Corriere l’allora direttore Giovanni Spadolini aveva chiamato “Repubblica conciliare”, con un Tevere sempre più stretto, quasi prosciugato, invidiava a Bettiza un po’ tutto. Così commentò il comune amico Carlo Donat-Cattin la rottura consumatasi fra i due nel 1983, nove anni dopo la fondazione del Giornale allora nuovo: una rottura consumatasi sul problema della valutazione di Bettino Craxi e della sua politica, nell’occasione o col pretesto, come preferite, del rifiuto opposto da Montanelli ad un mio editoriale in difesa dell’allora segretario del Psi dagli attacchi congiunti dei comunisti e della sinistra democristiana.

         I due fecero per fortuna in tempo a riconciliarsi prima della morte di Montanelli, condizionato -pace all’anima sua- nello scontro con lo storico collaboratore, di cui a lungo aveva condiviso anche la stanza nel Giornale, dai soliti, immancabili cortigiani di redazione, ma anche esterni. Penso, fra gli altri, agli amici di Ciriaco De Mita che lusingavano Montanelli raccontandogli dei suoi libri che affollavano la libreria di famiglia dell’allora segretario della Dc, e gli garantivano addirittura l’anticomunismo “intimo” del loro amico irpino.

         Montanelli cadde nella trappola, mentre noi trovavamo temporanea ospitalità nei giornali di Attilio Monti, salvo pentirsene dopo qualche anno dando a De Mita del camorrista e finendo trascinato da lui in tribunale.

         Più dei numerosi e meritati premi letterari, delle soddisfazioni politiche avute prima nel Senato italiano e poi nel Parlamento Europeo e della felice combinazione di liberalismo e socialismo tradottasi nella formula del lib-lab, diede soddisfazione ad Enzo Bettiza proprio quell’epilogo della sbandata di Montanelli per De Mita. Che era stata un pò, diciamo la verità, la nostra comune rivincita sulla rottura consumatasi nel 1983, mentre peraltro Craxi si avviava a Palazzo Chigi, nonostante De Mita.

         Anche Montanelli forse ritenne di prendersi poi una rivincita su di noi quando le cose andarono malissimo per Craxi. Ma fu una rivincita a carissimo prezzo, pagato dal direttore del Giornale con l’allineamento al peggiore giustizialismo, che a suo modo era anche il peggiore conformismo: una riedizione giudiziaria del compromesso storico contro il quale Montanelli e Bettiza avevano insieme consumato la loro coraggiosa e già ricordata scissione dal Corriere della Sera.

 

 

 

 

Pubblicato da Il Dubbio a pagina 14 dei commenti

 

 

 

La sfidante felicità del pensionato Prodi

         La notizia, credetemi, non è la “firma” che l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha annunciato di volere apporre all’ipotesi di Romano Prodi candidato ad una nuova edizione del centrosinistra. Che gli è già capitato due volte di guidare a Palazzo Chigi, a dieci anni di distanza, nel 1996 e nel 2006, ma con lo stesso, infausto risultato di cadere a meno della metà della legislatura per mano di qualche alleato.

         La notizia, credete sempre a me, non sta nemmeno nella indisponibilità dell’ex presidente del Consiglio, prevista d’altronde dallo stesso Pisapia e confermata dall’interessato personalmente a Matteo Renzi in un incontro organizzato a casa di un comune amico, ad offrirsi per un’altra sfortunata avventura. Che peraltro gli costerebbe anche un bel po’ di soldi, di vario conio, per l’interruzione che subirebbe la sua remuneratissima attiività di conferenziere in vari continenti. Dove peraltro con le lingue il professore se la cava benissimo, meglio comunque di Renzi.

         La notizia non sta -fidatevi sempre di me- neppure nelle perplessità attribuite, a torto o a ragione, al solito Massimo D’Alema. Che, secondo le cattive lingue, ritiene di avere già pagato ogni debito a Prodi dopo averlo sostituìto, nel 1998, a Palazzo Chigi con un cambio repentino di governo e di maggioranza, quando ne sponsorizzò con successo l’importante nomina a presidente della Commissione dell’Unione Europea. E forse, se fosse stato ancora deputato, lo avrebbe anche votato per il Quirinale all’ìnizio di questa sfortunata e non a caso diciassettesima legislatura, nonostante la leggenda attribuita ai suoi compagni di corrente di avere contribuito come “franchi tiratori”, insieme con i renziani, ad affondarne la candidatura   imprudentemente lanciata dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani con un’acclamazione nell’assemblea dei gruppi parlamentari. E dopo che era già stata impallinata la candidatura del presidente del partito, Franco Marini.                       Nossignori, la notizia è l’annuncio dato dallo stesso Prodi di sentirsi “un pensionato felice”, fra una presentazione e l’altra di un suo saggio che potrebbe funzionare come programma per il prossimo presidente del Consiglio desideroso di portare fuori l’Italia dal “piano inclinato” dove si trova in compagnia di altri Paesi. Il “piano inclinato” è proprio il titolo del suo libro.

         Come faccia il professore emiliano, con tutte le buone pensioni, immagino, che ha potuto maturare e accumulare a sentirsi “felice”, Dio solo può saperlo, vista la campagna di denigrazione di cui sono vittime in Italia tutti i pensionati del suo livello, scambiati e rappresentati all’opinione pubblica come ladri, estorsori e simili. E i loro “diritti acquisiti”, col calcolo retributivo e non contributivo dei trattamenti di quiescenza, sono rappresentati come una sfida al buon senso, alla moralità, all’equità e a quant’altro, per cui quei pensionati vengono continuamente minacciati di revisione del loro trattamenti, con conseguenti tagli o contributi obbligatori di “solidarietà”.

         Solo qualche giorno fa, durante la rassegna stampa di Rai 3 “Prima pagina” ho sentito il conduttore di turno, il professore Alessandro Campi, sentirsi in obbligo di leggere un messaggino telefonico d’insulti a Giuliano Amato ricevuto per averne riferito un’intervista al Corriere della Sera. La reazione però era non a ciò che il giudice costituzionale aveva dichiarato, ma alle sue pensioni, per quanto in parte devolute in beneficenza prima di essere state sospese, peraltro, con l’incarico alla Consulta.

         Questo lo scrivo per dare un’idea del livello di civiltà al quale hanno ridotto l’opinione pubblica italiana i cultori della cosiddetta anti-casta: una cosa semplicemente orribile. Da cui Prodi evidentemente, e giustamente, non si sente toccato.

                               

Le impronte di D’Alema nell’Ulivicidio del 1998 registrate da Ciampi

Stimolato un po’ da una certa nostalgia dell’Ulivo, cresciuta a sinistra anche per effetto del primo turno quasi bipolare delle elezioni amministrative di questo mese di giugno, un po’ dai recenti insulti televisivi di Massimo D’Alema al vice direttore dell’Espresso, che gli aveva rimproverato, o girato le ripetute accuse di Matteo Renzi di avere “ucciso” la pianta di Romano Prodi succedendogli nel 1998 a Palazzo Chigi, un po’ dal richiamo dello stesso D’Alema a Carlo Azeglio Ciampi come testimone eccellente della propria innocenza e un po’ dal felice sarcasmo del nostro Carlo Fusi, dubbioso che l’Ulivo sia mai nato davvero, visto che non si riesce a trovare chi lo abbia sradicato, sono andato a consultarmi le cosiddette fonti. A cominciare proprio dai ricordi lasciati ben scritti da Ciampi. Dove secondo D’Alema ci sarebbero le prove, ostinatamente ignorate dai critici, della sua lealtà verso l’allora ministro del Tesoro incaricato inutilmente di rimettere insieme i cocci del primo governo di Prodi, sfiduciato alla Camera per un solo voto di scarto il 9 ottobre 1998.

Quel voto mancante fu della giovane ex presidente della Camera ed ex leghista Irene Pivetti, rimasta a Milano ad allattare una creatura partorita da poco. Ma fecero più notizia, com’era naturalmente giusto che fosse sul piano politico, i no già preannunciati e confermati nell’appello nominale da Fausto Bertinotti e da buona parte dei suoi compagni di Rifondazione Comunista, decidendo l’altra parte -quella di Armando Cossutta e di Oliviero Diliberto- di farsi un loro partito per rimanere nella maggioranza ulivista, entrando anche nel governo successivo. Dove Diliberto divenne ministro della Giustizia con D’Alema a Palazzo Chigi: il primo post-comunista che vi fosse riuscito grazie all’aiuto prestatogli dall’immaginifico Francesco Cossiga, promotore di una formazione politica apposta per arrivare a quel risultato. Una formazione che l’ex presidente della Repubblica si divertì a paragonare agli “straccioni di Valmy”, che nel 1792 procurarono alla Francia rivoluzionaria una imprevista e formidabile vittoria sulla Prussia.

Ebbene, a dispetto delle certezze di D’Alema, non ho trovato nei ricordi di Ciampi quello che mi aspettavo. Ho anzi trovato l’opposto.

Nella “Storia di un italiano” pubblicato nel 2010 da Laterza, Ciampi racconta ad Arrigo Levi, suo amico e consigliere: “Mi fu chiesto nel 1998 di guidare il governo –dopo la caduta di Prodi, n.d.r- e quell’incarico sfumò nell’arco di pochissime ore, senza che sapessi perché: un mistero che né D’Alema né Prodi mi hanno mai svelato”. Ne trasse l’impressione, poveretto, ch’egli fosse avvertito come “un corpo estraneo” anche dai politici, come dalla mafia nel 1993, quando sotto il suo primo e unico governo si inseguirono attentati e un misterioso isolamento telefonico notturno di Palazzo Chigi che gli aveva fatto temere addirittura un colpo di Stato.

Ma pure “l’incarico” di cui Ciampi parla raccontando della crisi del primo governo Prodi fu una cosa assai curiosa, essendogli stato conferito a voce da D’Alema e mai formalizzato dal Quirinale, dove pure c’era un presidente della Repubblica per niente ostile come Oscar Luigi Scalfaro, che aveva voluto e portato quasi di peso nel 1993 Ciampi dalla guida della Banca d’Italia a quella del governo, dopo il referendum elettorale contro il sistema proporzionale e le dimissioni del primo governo di Giuliano Amato.

Il primo a parlargli di quel curioso incarico fu l’11 ottobre 1998 in una telefonata il vice presidente del Consiglio dimissionario Walter Veltroni. L’indomani si mosse di persona D’Alema, segretario dei Democratici di sinistra, nei quali era confluito in febbraio il Pds-ex Pci fondato nel 1991 da Achille Occhetto.

D’Alema raggiunse Ciampi nella sua casa estiva di Santa Severa per siegargli come e perché, essendo peraltro ministro uscente del Tesoro, dovesse toccare a lui l’eredità di Prodi, preparare la legge di bilancio e gestire il passaggio dalla lira all’euro, dallo stesso Ciampi fortemente voluto e negoziato con i sospettosi amici tedeschi. Ciampi, senza impensierirsi più di tanto lì per lì del silenzio di Scalfaro, ma magari confortato telefonicamente da qualche collaboratore del presidente al Quirinale, prese tanto sul serio sia Veltroni che D’Alema da sentirsi -parole sue, prese dai diari e dall’intervista ad Arrigo Levi- “mentalmente proiettato sulla squadra dei ministri e sulla linea dei programma”.

Egli si portò appresso questa “poiezione” in un vertice europeo a Lussemburgo pensando di ricevere, di ritorno a Roma, l’incarico formale di presidente del Consiglio incaricato. Ma ebbe soltanto una telefonata da Prodi, che lo informava di prevedere per le ore successive o un reincarico per sé senza alcuna prospettiva di riuscire, e senza neppure poter insistere per il ricorso alle elezioni anticipate, essendo netta la indisponibilità di Scalfaro a sciogliere nuovamente in anticipo le Camere, per la terza volta nel suo mandato, o un incarico a lui, Ciampi. Che, fattosi intanto sospettoso per il prolungato silenzio del Quirinale e intanto anche di D’Alema, scomparso dai radar di Santa Severa, cominciò ad innervosirsi e ad annotare nei suoi diari un “clima confuso e incerto”, e sentori di “manovre”.

Alla fine Scalfaro improvvisò un rapido giro di consultazioni e affidò a Prodi ciò che, secondo un racconto di D’Alema pubblicato nel 2013 da Laterza, lo stesso Prodi dopo un’assemblea di amici a Bologna aveva legittimamente chiesto: un incarico non si capi bene se esplorativo o vero e proprio. Ma, come egli stesso aveva preannunciato a Ciampi, dovette rinunciare abbastanza rapidamente, non essendo disposto a chiedere un soccorso a Cossiga. Che d’altronde era già poco disposto verso di lui per ragioni caratteriali, pur avendo votato già un suo documento di programmazione economica e finanziaria e apprezzato l’avviamento delle procedure per mettere a disposizione della Nato le basi italiane per un intervento armato nei Balcani sconvolti dai conflitti etnici fomentati dalla Serbia.

Ma oltre a diffidare di Prodi, l’ex presidente della Repubblica con i suoi “straccioni di Valmy” non voleva saperne neppure di Ciampi, annunciandolo pubblicamente perché a Scalfaro non saltasse l’idea di convocarlo al Quirinale per l’incarico. In realtà, Cossiga aveva in testa un solo uomo, che era D’Alema, ritenuto più affidabile di tutti per una partecipazione, pur da uomo di sinistra, alla guerra nei Balcani, con i bombardamenti già progettati su Belgrado. E fu proprio al segretario dei Democratici di sinistra che Scalfaro decise di rivolgersi, lasciando di stucco Ciampi. Che già il 14 ottobre, sette giorni prima che D’Alema sciogliesse la riserva e formasse il suo governo, annotò sui suoi diari la volontà di non entrarvi. A fargli cambiare idea con una certa fatica fu Veltroni, con la cui telefonata di soli tre giorni prima era cominciata tutta la storia dell’incarico fantasma.

Fu forse anche o soprattutto per riparare a quel pasticcio che nella primavera successiva proprio Veltroni, nel frattempo subentrato a D’Alema alla segreteria del partito, si mobilitò per trovare in Ciampi il successore di Scalfaro al Quirinale. L’elezione avvenne il 13 maggio 1999 al primo scrutinio, con 707 voti, soffocando nella culla ogni altra candidatura, compresa quella, in verità più mediatica che politica, di Giuliano Amato. Che però subentrò a Ciampi come ministro del Tesoro di D’Alema. Il quale a sua volta procurò a Prodi la presidenza della Commissione europea a Bruxelles.

L’unico a rimetterci nella partita fu l’Ulivo, che non diede più frutti elettorali sufficienti ad evitare nel 2001, sotto la guida improvvisata di Francesco Rutelli, il ritorno di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi per l’intero quinquennio della nuova legislatura.

 

 

 

 

Pubblicato da Il Dubbio del 16 giugno 2017 a pagina 14 dei commenti col titolo: Così nel 1998 D’Alema ingannò Ciampi e diede un colpo ferale all’Ulivo- Dopo la caduta del primo governo Prodi, il ministro del Tesoro fu contattato dal “leader maximo” per andare a Palazzo Chigi, ma poi fu lui ad essere incoronato. (L’inganno lamentato nel titolo fu naturalmente quello avvertito da Ciampi, che se ne dolse nei ricordi raccolti anche dal suo consigliere Arrigo Levi)

Ripreso da http://www.formiche.net domenica 18 giugno 2017

 

 

 

 

Quando Matteo Renzi se le va a cercare

         Al netto delle buone ragioni che avrebbe di lamentarsi del trattamento ricevuto nello studio televisivo de la 7, dove ha dovuto difendersi sia dalla conduttrice Lilli Gruber, smaniosa di togliergli la parola ogni volta che non la condivideva, cioè sempre, sia da un Vittorio Zucconi che per poco non lo ha paragonato a Donald Trump, il presidente che da cittadino americano il giornalista di Repubblica non ha votato parendogli forse il suo ciuffo la versione bionda o rossiccia di quello di Hitler, il risegretario del Pd Matteo Renzi dovrebbe darsi una regolata quando evoca orgogliosamente le sue dimissioni da presidente del Consiglio, dopo la batosta referendaria del 4 dicembre scorso. E’ un merito che egli rivendica ogni volta che ha un microfono, un interlocutore o soltanto una telecamera di fronte. Cioè, sempre.

         Non è per niente vero che Renzi sia stato nei 71 anni storia della Repubblica italiana, per non parlare anche del Regno, l’unico capo del governo a sentire il dovere, e persino l’orgoglio, di dimettersi dopo una sconfitta elettorale, peraltro disattendendo l’impegno di ritirarsi anche dalla politica. Lo ha sicuramente preceduto almeno una persona, e sino a qualche mese fa anche compagno di partito, che l’ex sindaco di Firenze dovrebbe conoscere abbastanza bene, sia per averlo riguardosamente ricevuto a suo tempo nel Palazzo Vecchio sia per la disistima, se non per l’odio, o il disprezzo, che da qualche tempo i due si scambiano sistematicamente in pubblico.

         Mi riferisco naturalmente a Massimo D’Alema, arrivato in modo improprio -è vero- a Palazzo Chigi nel 1998 cambiando disinvoltamente maggioranza, cioè sostituendo come alleato, o quasi, Fausto Bertinotti con la buonanima di Francesco Cossiga, ma affrettatosi a dimettersi volontariamente un anno e mezzo dopo per avere mancato in un turno di elezioni regionali il numero di vittorie che si era proposto. O, come preferite, per avere perduto più regioni di quante non ne avesse previste. E francamente mi pare che quell’infortunio occorso nel 2000 a D’Alema fosse un po’ meno grave e clamoroso di quello occorso a Renzi nel referendum del 2016 sulla riforma costituzionale, da lui stesso incautamente trasformato in un referendum su se stesso, contribuendo non poco a perderlo con una ventina di punti di distacco fra il no e il sì. E con una spesa, per il partito, di cica 14 milioni di euro.

         Visto che ci sono, avrei qualcosa da ridire, sempre per la punta un po’ qualunquistica e farlocca che sottintende, alla maniera grillina, anche sul vanto che egli rivendica di essere rimasto con quelle dimissioni nello scorso mese di dicembre senza stipendio, non essendo parlamentare e non potendo rientrare in qualche posto da cui si fosse messo in aspettativa. Anche questa è una storia un po’ stucchevole dopo la notizia dei centomila euro e rotti ricevuti da una casa editrice, proprio per la notorietà conquistatasi con la politica, come anticipo per un libro che peraltro egli sta tardando a completare, come l’implacabile Lilli Gruber gli ha ricordato prima di togliergli la parola per fine trasmissione.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Cosa ha dimenticato di dire Matteo Renzi da Lilli Gruber a la 7

Prodi in bicicletta, Berlusconi e Pisapia a piedi

         E’ un uomo sicuramente simpatico e molto educato Giuliano Pisapia, giù sindaco di Milano, già bertinottiano, oggi impegnato in un cantiere dove si cerca di ricostruire un centrosinistra che lui vorrebbe il più largo possibile: più ancora delle edizioni pur fallite dell’Ulivo prima e dell’Unione poi, entrambe guidate, almeno in prima battuta, dal professore emiliano Romano Prodi. Che è quello -per intenderci- della famosa seduta spiritica in cui nel 1978 tentò di scoprire dove i brigatisi rossi tenessero nascosto il povero Aldo Moro prima di ucciderlo. Chiunque di noi, coi tempi che correvano, avesse tentato di raccontare una cosa del genere ad un magistrato, dopo che si era fatto con quella seduta il nome di una strada romana -Gradoli- scambiato per qualche ora per un borgo reatino ma poi risultato pertinente davvero col sequestro di Moro, sarebbe finito francamente in galera per reticenza e forse anche per qualcosa di ancora più grave. A Prodi, e agli amici partecipi di quella chiacchierata coi morti, andò per loro fortuna assai meglio. Se la cavarono con qualche interrogatorio e sfottimento. Prodi poi sarebbe diventato un leader.

         Sono sicuro che a Pisapia di partecipare a una seduta spiritica in quelle circostanze e di parlarne non sarebbe venuto neppure in mente. Gli è venuta invece l’idea, stimolato in un salotto televisivo dopo il primo turno di elezioni amministrative di questo giugno, incalzato dagli altri ospiti, di fare il nome di Prodi come del federatore che potrebbe aiutarlo e addirittura sostituirlo nel tentativo di mettere in piedi un centrosinstra largo come un mare, anzi come un oceano, favorito dal fatto di essere stato l’unico a battere per due volte, a distanza di dieci anni, Silvio Berlusconi nell’era bipolare della cosiddetta seconda Repubblica, sia pure durando con i suoi due governi molto meno di Berlusconi.

         Un giornalista impertinente, sempre in quel salotto televisivo, anche a costo di forzare un po’ l’anagrafe, ha fatto presente a Pisapia, mettendolo platealmente in crisi, facendolo cioè sorridere a vuoto, come per ammettere di averla detta o pensata troppo grossa, che l’anno prossimo, se si voterà alla scadenza ordinaria della legislatura, Prodi avrà 80 anni pure lui, come Berlusconi. Di che parliamo? Di un gerontocomio? Sembrava chiedere l’interlocutore di Pisapia, che sembrava a sua volta scomodamente colto in fallo.

         In verità, nel 2018, esattamente in agosto, Prodi compirà “solo” 79 anni. E il mese dopo Berlusconi 81. Due anni sono in effetti pochi. Con un po’ di buona volontà i due potrebbero essere anche considerati coetanei, pur se ad occhio e croce, almeno sinora, Prodi sembra portarsi i suoi anni meglio del rivale politico. Che, se sale in bicicletta, temo debba fermarsi al primo semaforo con l’affanno, mentre l’altro ancora macina pedalando i suoi quaranta chilometri e passa quando ne ha voglia e il tempo glielo permette, con tutta quell’agenda piena d’impegni che ha tra vari continenti per conferenze, affari, conoscenze e quant’altro.

         Non so se basti l’ironia a commentare l’ipotesi che nello scenario bipolare in qualche modo riaperto dalla crisi elettorale dei grillini, due ottantenni si giochino il destino di un Paese, come ai tempi dell’Unione Sovietica dei vari Breznev e Cernienko, mentre nella vicinissima Francia, se proprio non vogliamo parlare dell’odiatissino Matteo Renzi in Italia, il trentanovenne Emmanuel Macron ha appena sconvolto nel giro di qualche settimana partiti e schieramenti. E’ meglio forse riconoscersi in quel sorriso spiazzante e quasi di scuse del povero Pisapia.

Le lacrime a sorpresa ai capezzali dei grillini

C’è chi troppo ottimisticamente, magari incoraggiato da un’analisi spietata degli errori di Beppe Grillo firmata sul Fatto Quotidiano personalmente dal direttore Marco Travaglio, si è messo subito a scherzare sulla fatica di trovare ancora, nei giornaloni e dintorni, estimatori, simpatizzanti e simili del comico genovese e delle sue truppe. Troppo ottimisticamente, perché ci sarebbe piuttosto da sorprendersi non dico dalla nostalgia, che sarebbe eccessiva, ma dal disappunto o addirittura dalla preoccupazione che si avverte da varie parti per la crisi che si è sicuramente aperta nel movimento delle 5 stelle. Che è riuscito a rimanere in partita per i ballottaggi comunali del 25 giugno in 10 piccoli Comuni su 140: per esempio a Carrara. Dove magari, se riuscirà a vincere, il candidato di Grillo gli farà alzare in qualche piazza una bella statua in marmo locale.

         “Meglio non vendere la pelle del Grillo”, ha ammonito su Repubblica Ilvo Diamanti. La sconfitta è solo frutto del sistema elettorale per i Comuni, ha detto Massimo Cacciari prevedendo risultati del tutto diversi nelle elezioni politiche, alle quali peraltro non si sa ancora con quali regole si potrà o dovrà andare. E comunque dimenticando che il sistema elettorale dei Comuni è lo stesso che un anno fa ha permesso ai grillini non di vincere ma di stravincere, portandoli in molti ballottaggi e portandoli alla conquista di città come Roma e Torino.

         Altri dall’alto dei loro incubi si sono chiesti che cosa potrà accadere del o col quaranta per cento di astenuti registrato domenica scorsa, ora che rischia di franare la diga contro chissà quali e quante rivolte rappresentata -pensate un pò- da quel movimento di moderati che tutto sommato sarebbero, secondo loro, i seguaci del comico genovese.

         Persino Silvio Berlusconi, dato anche dai suoi più incalliti avversari come un possibile beneficiario della crisi grillina in uno scenario nuovamente bipolare, e preferito sotto sotto, ma neppure tanto, da molti nemici di Renzi a sinistra, ha invitato alla calma, spiazzando il direttore del Giornale di famiglia, che nel suo editoriale già ne gustava la vittoria alle prossime elezioni politiche.

         Con sintesi felice, anche se un po’ volgarotta, come al solito, su Libero hanno titolato su tutta la prima pagina che lo stesso Berlusconi e il segretario leghista Matteo Salvini “anzichè approfittare” della crisi sia di Grillo sia di Renzi,”fanno a gara a chi ce l’ha più lungo”. E infatti l’ex Cavaliere continua a reclamare il ritorno al sistema proporzionale per non avere il fastidio di doversi davvero alleare con Salvini, non avendo più l’età, i voti e quindi la capacità contrattuale degli anni della Lega di Umberto Bossi.

         Questo ed altri spettacoli mi ricordano un po’ i tempi di Ciriaco De Mita alla segreteria della Dc, che per paura di Bettino Craxi, al quale comunque sarebbe stato costretto a cedere Palazzo Chigi nel 1983 per quattro anni, si rammaricava di ogni arretramento elettorale del Pci. Che pure era, o avrebbe dovuto essere, l’avversario storico dello scudo crociato.

         Gli anni passano ma i vizi di certa politica -quella del risentimento e del partito preso- evidentemente restano.

                                                 

E’ finalmente esaurita nelle urne l’emergenza grillina

         Pur con tutta la prudenza consigliata da un professionista dell’analisi politica quale sicuramente è l’amico Stefano Folli, sulla Repubblica, mi sento di scrivere che è finita l’emergenza dei grillini di fronte ai risultati del primo turno delle elezioni amministrative, senza timore di smentite dai ballottaggi del 25 giugno, dove i pentastellati saranno non a caso generalmente assenti.

         Potranno ancora vincere, come sperano ancora per ragioni non foss’altro di comprensibile propaganda, le elezioni regionali siciliane di novembre, nonostante il fiasco nelle comunali a Palermo, ma i grillini hanno smesso di fare paura. Il loro qualunquismo, anche se in tempi meno rapidi di quello originario e autentico dell’omonimo movimento del commediografo, anziché comico, Guglielmo Giannini nel secondo dopoguerra, ha cominciato a stancare. E stancherà sempre di più, dopo l’imprudenza di cercare e ottenere l’avventura di amministrare Comuni delle dimensioni di Roma e di Torino.

         Il qualunquismo, o la demagogia, come preferite, quella fissazione di stimolare più la pancia che la testa degli elettori, quel senso ossessivo di diversità, che costò caro persino ad un partito organizzato come il Pci e ad un leader davvero carismatico come Enrico Berlinguer, è un po’ un fenomeno -scusate la franchezza dell’immagine e dell’espressione- di erezione politica. Che non può umanamente e fisiologicamente durare in eterno, per quante stimolazioni si possano cercare e ottenere.

         Anche al più bravo dei comici capita ad un certo punto di far sorridere, più che ridere a crepapelle, se si ostina a lasciare invariato il suo repertorio. O, addirittura, a peggiorarlo con atteggiamenti rovesciati rispetto al grandissimo Charlie Chaplin. Che demolì con la sua comicità, ben prima che riuscissero a farlo gli eserciti di mezzo mondo, uno come Hitler. A Grillo sta invece capitando di essere demolito dai suoi imitatori all’interno del Movimento, poco importa se di prima o di seconda linea, in abito scuro o in jeans, con o senza la congiuntivite del vice presidente della Camera Luigi Di Maio.

         La crisi, finalmente, dell’emergenza grillina comincia a restituire allo scenario politico il cosiddetto bipolarismo di cui è visssuta bene o male, a volte in verità più male che bene, la cosiddetta seconda Repubblica. Le città oggi e l’intero Paese domani, o dopodomani, secondo le scadenze elettorali sulle quali l’ultima parola ce l’ha il presidente della Repubblica, potranno riprendere ad essere contesi dal centrodestra e dal centrosinistra. Ma con due varianti rispetto al passato.

         Nel centrodestra sono cambiati gli equilibri tra la Forza Italia che fu ed è ancora di Silvio Berlusconi e la Lega che fu di Umberto Bossi ed è adesso di Matteo Salvini. L’ex Cavaliere non se ne capacita. Ha sperato di aggirare il problema puntando proprio sull’emergenza grillina e sull’altra conseguente emergenza delle cosiddette larghe, anzi larghissime intese, in cui l’interlocutore principale, se non unico, del centrosinistra poteva essere solo lui, arrivato nelle scorse settimane a imporre praticamente al risegretario del Pd Matteo Renzi il ripiegamento sul sistema elettorale proporzionale della prima e spesso a torto odiata prima Repubblica.

         Nel centrosinistra, diversamente dal centrodestra, la componente di sinistra si è ulteriormente divisa con l’umorale scissione consumata dai vari Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. Che dovranno rassegnarsi, specie ora che sono costretti dai loro numeri inconsistenti ad affidarsi alla mediazione dell’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, a contenersi davanti ad un Renzi che non è uscito dalle urne amministrative come loro speravano, cioè a brandelli.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Ecco cosa è successo a Grillo, Renzi, Berlusconi e Salvini alle elezioni amministrative 2017

Scalfari diserta la domenica elettorale

         Non è la prima e probabilmente non sarà neppure l’ultima domenica in qualche modo disertata da Eugenio Scalfari, che ha abituato i suoi lettori ad un appuntamento festivo dove spesso si trovano primizie per i tanti contatti che il fondatore di Repubblica continua ad avere riferendone al suo pubblico, a cominciare da quelli con Papa Francesco. Che non è ancora riuscito a convertirlo, ma manca poco, a meno di ancora più clamorose sorprese, come la conversione del Pontefice allo scetticismo religioso del suo amico.

         Questa che si è chiusa oggi è stata, del resto, una settimana più faticosa del solito per Scalfari, che si è dilungato nei giorni feriali sulla nuova amicizia politica contratta: quella col ministro piddino dell’Interno Marco Minniti, di origini calabresi come lui, ma nato proprio in Calabria, non a Civitavecchia, come Barbapapà. Vedrete che prima o dopo anche Minniti approderà nella scuderia dove Scalfari fa entrare e uscire i cavalli di razza della politica italiana, intesi anche come riserve della Repubblica, quella vera, cui potersi rivolgere nei momenti di emergenza.

         Ma, più che la stanchezza per l’interessamento a Minniti, hanno forse giocato sul silenzio domenicale di Scalfari lo sconcerto procuratogli dall’incidente occorso nell’aula di Montecitorio alla riforma elettorale e, soprattutto, la confusione che ne è derivata. O la salutare paura di mettere becco nelle elezioni amministrative alle quali sono stati chiamati oggi un migliaio di Comuni.

         A presto, comunque, carissimo Barbapapà.

Il povero Mammì tradito dalla sua legge sulle Tv

         Peccato che di Oscar Mammì, spentosi a più di 90 anni dopo un lungo e volontario allontanamento da una politica per la quale si era molto speso ricavandone alla fine più delusioni che soddisfazioni, si sia ricordata in morte solo o soprattutto la omonima legge del 1990. Che disciplinò per la prima volta in modo organico il sistema radiotelevisivo italiano legittimando finalmente la televisione privata, o commerciale. Che era allora soprattutto la televisione del Biscione, cioè della Fininvest di Silvio Berlusconi. Fu una legittimazione -con le sue tre reti competitive con quelle della Rai, che però continuarono ad essere protette dal canone- contrastata a tal punto dalla sinistra democristiana, e in fondo anche dallo stesso partito di Mammì, quello repubblicano, da provocare per protesta le dimissioni di alcuni ministri, fra i quali l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che era a capo della Pubblica Istruzione nel sesto governo di Giulio Andreotti.

         L’allora capo dello Stato Francesco Cossiga deluse le aspettative della sinistra del suo partito e del Pri sostituendo e basta, su proposta del presidente del Consiglio, tutti i ministri dimissionari. La crisi di governo sopraggiunse però lo stesso l’anno dopo, nel 1991, quando ci fu la tentazione di anticipare di un anno le elezioni per profittare della crisi del Pci, costretto a cambiare nome e simbolo dopo il crollo del muro di Berlino, cioè del comunismo. Dal settimo ed ultimo governo Andreotti il Pri, allora guidato da Giorgio La Malfa, volle tenersi fuori. E a Mammì come ministro delle Poste subentrò il socialdemocratico Carlo Vizzini.

         Uomo di spirito e di ottima cultura, Mammì rifuggiva dall’acredine di cui già allora soffriva la politica italiana, divisa in quegli anni non più fra i comunisti e gli anticomunisti ma fra i craxiani e gli anticraxiani. L’esponente repubblicano era stato iscritto d’ufficio fra i craziani già nel 1983, quando era diventato ministro per i rapporti col Parlamento nel primo governo del segretario sociaista. Vi lascio immaginare che cosa gli anticraxiani dissero di lui quando la sua legge mise al sicuro la televisione privata, e quindi di Berlusconi, a difesa della quale Craxi da presidente del Consiglio era già intervenuto togliendo con un decreto legge il blocco delle trasmissioni imposto dalla magistratura. Che se fosse durato ancora qualche giorno, avrebbe determinato il fallimento della Fininvest.

         Eppure Mammì era convinto di non aver dato a Berlusconi niente di più di quanto non gli spettasse nel rispetto dei principi costituzionali, una volta cessato l’anacronistico monopolio della Tv pubblica. E quando seppe che il suo consigliere Davide Giacalone, partecipe della preparazione della sua legge, era stato coinvolto nelle indagini su Tangentopoli, finendo poi assolto per alcune accuse e prescritto per altre, ci rimase molto male. 

         Mammì era convinto che i favori a Berlusconi fossero stati compiuti dopo la sua sostituzione al Ministero delle Poste: per esempio, quando per aggirare l’incompatibilità fra editore televisivo e editore di giornali fissata proprio dalla sua legge, fu permesso al presidente della Fininvest di sanare la situazione passando al fratello Paolo la proprietà del Giornale fondato nel 1974 da Indro Montanelli. Se fosse dipeso da lui, quella roba lì non sarebbe stata permessa.

         Ma di Mammì, per ricordarne ed elogiarne insieme la linearità, il coraggio e la preveggenza, vorrei riferirvi ciò che per molti sarà un inedito. Era il 1971. Già assessore molto apprezzato all’Annona del Campidoglio, Mammì era allora sottosegretario all’Industria e Commercio. Lo inclusi in lungo elenco di interviste per Il Giornale d’Italia allora diretto da Alberto Giovannini, dov’ero approdato dal Momento Sera, sul tema della Repubblica presidenziale. Che era sostenuto, anche a costo di essere scambiato -lui, un antifascista di prim’ordine, per un uomo di estrema destra- da Randolfo Pacciardi, lo storico ministro della Difesa di Alcide De Gasperi, espulso dal Pri per decisione personale di Ugo La Malfa quando si era opposto al passaggio dal centrismo al centrosinistra.

         Ebbene, Mammì non solo condivise la prospettiva di una Repubblica presidenziale, che De Gaulle del resto aveva già realizzato in Francia senza essere per questo scambiato per un fascista, ma indicò un pericolo da nessuno avvertito in quel momento: che da parlamentare, quale era stata voluta dai costituenti, la Repubblica italiana finisse per diventare giudiziaria a causa del crescente potere dei magistrati. Che con le loro sentenze e iniziative cominciavano già allora a sostituirsi ai legislatori.

         Eravamo soltanto -pensate un pò- agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. Il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati sarebbe arrivato solo nel 1987, per essere peraltro tradito dopo qualche mese con una legge che vanificò il verdetto degli elettori. E la decapitazione giudiziaria della cosiddetta prima Repubblica sarebbe arrivata solo fra il 1992 e il 1993.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Oscar Mammì fra Tv, ironie e presidenzialismo

 

 

Troppo cerume nelle orecchie di Sergio Mattarella

         Il quirinalista principe, che naturalmente è Marzio Breda, del Corriere della Sera, ci ha riferito della sorpresa procurata a Sergio Mattarella dalle difficoltà incontrate alla Camera dalla riforma elettorale. Che il presidente della Repubblica si era tanto abituato a considerare ormai sicura da essersi predisposto alle elezioni anticipate, pronto a farle indire il più presto possibile, magari nella stessa domenica -24 settembre- in cui si voterà in Germania. Così ci saremmo una volta tanto allineati davvero all’Europa, almeno nei tempi di definizione dei nuovi equilibri politici.

         Ora che Matteo Renzi, a torto o a ragione, dopo avere mostrato una fretta incontenibile verso le urne, si dice rassegnato all’epilogo ordinario della legislatura, nella primavera del 2018, dandone la colpa ai grillini e contando sull’applicabilità certificata dalla Corte Costituzionale per le due leggi da essa modificate per l’elezione della Camera e del Senato, per quanto ritenute disomogenee dal Quirinale, ma aggiustabili con un decreto legge all’ultimo momento, Mattarella ha affidato a Breda un auspicio. “Che si eviti -ha riferito testualmente il giornalista del Corriere- di usare la battaglia sul sistema di voto”, destinata probabilmente a riprendere dopo la pausa impostasi dal Pd per il primo e il secondo turno del corposo rinnovo in corso delle amministrazioni locali,” per fare scattare subito una campagna elettorale che, sommandosi a quella lunghissima per il referendum di dicembre, sfiancherebbe i cittadini, col rischio di allontanarli ancora di più dalla politica”.

         Ora, con tutto il rispetto che meritano naturalmente il capo dello Stato e il suo confidente, temo che entrambi abbiano bisogno di una visita odontoiatrica. Entrambi debbono avere accumulato troppo cerume nelle orecchie se non si sono accorti che, per quanto non formalizzata con i soliti provvedimenti, l’Italia sia già da tempo in campagna elettorale. Per non parlare di quella in corso a tutti gli effetti per il rinnovo delle amministrazioni locali, siano in campagna elettorale almeno dal 5 dicembre, il giorno dopo la bocciatura del referendum costituzionale. Ma forse sta più semplicemente proseguendo la campagna elettorale di quel referendum.

         Più che rischiare lo stress, gli italiani sono già stressati dal clima elettorale nel quale agiscono i partiti e il governo. Non vi è proposta, non vi è decisione, non vi è minaccia o assicurazione che non sia motivata dalla necessità di guadagnare voti, o di non perderne.

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