Quel sabato galeotto di Paola in tv alla Rai

            Trovo un pò sospette la coralità e la rapidità censorie -perché di censura si è trattato, sia pure a diffusione avvenuta- contro il sabato galeotto di Paola Perego in televisione, alla Rai.

            Ad occhio e croce, sul piano giornalistico, l’argomento c’era. Non era inventato perché basta frequentare un bar, un autobus, un mercato, un barbiere o un parrucchiere per sentir parlare degli italiani attratti dalle donne dell’est, e a volte persino delle proteste delle mogli e fidanzate italiane per la concorrenza che viene dal freddo, si sarebbe detto negli anni della omonima cortina. E ciò senza dare per forza delle mignotte -scusate la parolaccia- alle straniere, o dei maniaci a chi le corteggia.

            La rivolta contro la Perego -ma curiosamente non contro i responsabili della struttura da cui doveva dipendere per forza la sua trasmissione- mi puzza tanto di conformismo.

            Non è che si è voluto approfittare della prima occasione per far pagare alla conduttrice, intrattenitrice o come altro la vogliamo chiamare alcune “colpe” quali quelle di essere brava e carina? E di avere avuto una trasmissione alla quale aspirava, magari, una o un concorrente troppo deluso? L’invidia è il più conformistico e diffuso dei vizi umani.

            Adesso insultatemi pure, sospettando magari che io sia a “libro paga” del danaroso compagno di Paola Perego, anche se non conosco né l’uno né l’altra.

Il sorpasso di Grillo annunciato dal Corriere

Dunque, ci siamo. Più Beppe Grillo ha rogne, più se le cerca, più fa quello che vuole, sino a stufare e allarmare uno come Marco Travaglio, che si è deciso a prenderne le distanze sul suo Fatto Quotidiano declassando a “grillarie” le comunarie e ogni altro livello di selezione digitale dei candidati pentastellati a “portavoce” parlamentari o consiliari, annullandole quando non danno i risultati che si aspettava o confermandole in caso contrario, più guadagna voti. Li guadagna almeno nei sondaggi di Nando Pagnoncelli fatti per il Corriere della Sera, si spera non con lo stesso sistema o criterio digitale di Grillo. Siamo così arrivati all’annuncio sul giornale più diffuso d’Italia del “sorpasso” appena compiuto dal movimento 5 stelle sul Pd.

E che sorpasso, signori. Di ben cinque punti, per cui i grillini sarebbero ormai al 32,31 per cento dei voti, fortunatamente quasi 8 in meno del 40 per cento col quale la legge elettorale in vigore per la Camera conferirebbe loro quasi il 55 per cento dei seggi di Montecitorio. E il Pd del Renzi uscente e rientrante come segretario sarebbe a circa il 25,5 per cento, col diritto di sorridere solo della debacle degli scissionisti. Che sono fuggiti da Renzi pensando di guadagnare almeno il 10 per cento dei voti e possono invece contare solo sul 3, sempre per i sondaggi di Pagnoncelli. Che, se veramente riflettessero l’opinione e le tendenze degli elettori italiani, dovrebbero farci dire che in questo Paese piace più il polso che la democrazia: il polso purtroppo di Grillo, in questo disgraziatissimo 2017, piuttosto che il polso attribuito a Renzi dai suoi avversari interni ed esterni.

Temo che a questo punto, sempre stando ai sondaggi di Pagnoncelli, se al comico genovese saltasse in mente il gusto o il capriccio di dare uno dei suoi spettacoli dal balcone di Palazzo Venezia, facendoselo prestare per una mattina o un pomeriggio, o anche una sera, dal proprietario, la gente accorrerebbe nella piazza sottostante come ai tempi della Buonanima. D’altronde, sui tetti del dirimpettaio Campidoglio già usa salire, fare colazione, godersi lo spettacolo di Roma e scampare a qualche inopportuna intercettazione immaginata dai soliti patiti della dietrologia la sindaca pentastellata Virginia Raggi.

 

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Sono passati 42 anni -sembrano tanti, troppi, ma non lo sono- dal 1975, quando Indro Montanelli alla direzione del Giornale da lui fondato solo un anno prima trasecolò davanti ai risultati delle elezioni regionali. Che avevano ridotto a meno di due punti -esattamente 1,81 per cento- le distanze fra la Dc di un ormai declinante Amintore Fanfani e il Pci di Enrico Berlinguer, usciti dalle urne, rispettivamente, con il 35,27 e il 33,46 per cento dei voti.

La sera dei risultati un folto gruppo di militanti e simpatizzanti comunisti raggiunse Piazza di Pietra, dove si trovava la redazione romana del Giornale, per citofonarci e invitarci a “chiudere”. Quando glielo riferii, Montanelli mi rispose alla sua maniera: “Bischeri”.

L’anno dopo, nelle elezioni anticipate provocate dal segretario socialista Francesco De Martino con l’annuncio che il suo partito mai più avrebbe collaborato con la Dc senza l’appoggio dei comunisti, lo scudocrociato, nel frattempo passato dalle mani di Fanfani a quelle del medico moroteo Benigno Zaccagnini, riuscì a recuperare un bel po’ di voti e ad aumentare le distanze dall’inseguitore. Ma ciò avvenne a spese dei tradizionali alleati laici della Dc, danneggiati dall’appello proprio di Montanelli a votare per i democristiani “turandosi il naso”. “Non è stato bello, ma ci ha fatto un grandissimo comodo”, mi disse poi, sornione, Giulio Andreotti.

Mi chiedo se esiste oggi nel mondo del giornalismo un Montanelli in grado di aiutare il Pd di Renzi, che bene o male ha preso il posto della Dc di allora, a sottrarsi al sorpasso grillino. Ahimè, non ne vedo. E ciò specie dopo avere assistito alle botte, sia pure di carta, che sono riusciti di recente a scambiarsi fra di loro per farsi concorrenza nelle edicole due aspiranti alla successione a Montanelli: Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, l’uno desideroso di rappresentare l’altro come il più dipendente dal “padrone”, cioè dall’editore di turno. Altri tempi e, soprattutto, altri uomini.

Tempi curiosi, i nostri, anche per la paradossale sostituzione del Pci di Berlinguer, a proposito di sorpasso, col movimento di Grillo: due partiti e due uomini che più diversi non potrebbero essere. Così come più diverso non potrebbe essere il Renzi del Pd-post Dc di oggi e lo Zaccagnini dello scudocrociato di 41 anni fa.

 

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Qualcuno potrebbe chiedermi dove mettere, in questo gioco differito di specchi, Silvio Berlusconi. Non saprei, francamente, almeno sino a quando l’ex presidente del Consiglio non si deciderà a prendere atto di quanto è cambiato lo scenario politico anche dal suo esordio nel 1994. E non sceglierà davvero, una volta per tutte, fra il leghismo lepenista di Salvini, al netto di tutti i momentanei ripiegamenti tattici, e il popolarismo europeo cui Forza Italia aderisce formalmente.

Non credo che per il recupero non tanto e non solo della sua agibilità, intesa come candidabilità elettorale, ma del suo spazio politico possano bastare a Berlusconi le soddisfazioni che gli danno di tanto in tanto le cronache politiche e giudiziarie.

Alludo, naturalmente, all’appena mancata decadenza da senatore dell’amico Augusto Minzolini per effetto di una legge -quella che porta il nome della guardasigilli di Mario Monti, Paola Severino- costata invece il seggio a Berlusconi nel 2013, a dimostrazione di quanto essa sia bislacca e possa cadere nella censura della Corte di Strasburgo alla quale lui ha fatto ricorso. Ma ancor più alludo ai crescenti guai giudiziari di Gianfranco Fini e della famiglia acquisita unendosi a Elisabetta Tulliani. Il cui fratello è scampato per ora all’arresto per riciclaggio standosene lontano dall’Italia.

Con tutto il garantismo cui ha diritto pure lui, per carità, coinvolto in pieno nelle indagini, Fini paga anche lo scotto politico di avere cavalcato di fatto il giustizialismo contro l’allora alleato Berlusconi. Che pure lo aveva portato prima alla Farnesina e poi al vertice di Montecitorio, dove l’ultimo governo berlusconiano rischiò la sfiducia con una mozione preparata addirittura nello studio del presidente della Camera.

 

 

 

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La corsa a Palazzo Chigi per il dopo-elezioni

Sarà per la crescente confusione politica, che rende più rischiosa la postazione di Palazzo Chigi nella prossima legislatura, sarà per tattica congressuale, sarà per i consigli di Eugenio Scalfari, dal quale si lascia indicare anche i libri da leggere, e su cui riferire nell’incontro successivo, come un diligente allievo col professore, Matteo Renzi si è corretto sul problema del doppio incarico di segretario del partito e di presidente del Consiglio.

“Certamente desidero vincere il congresso -ha confessato proprio a Scalfari, che ne ha riferito ai lettori di Repubblica da scrupoloso cronista- ma non è detto che voglia ridiventare presidente del Consiglio. Forse sarebbe meglio che restassi alla guida del partito e della sinistra in Italia, e soprattutto in Europa. Vedrò “.

A parte l’ambizione al solito altissima di guidare la sinistra addirittura in Europa, peraltro mentre in Germania Schulz cerca di contendere davvero il cancellierato alla Merkel, il Renzi di Scalfari non è certamente quello pur recentissimo del Lingotto, a Torino. Che rivendicò il doppio incarico perché “così si fa in Europa”. E che aveva sostenuto, alla vigilia dello stesso Lingotto, di avere a suo tempo ottenuto a Bruxelles maggiore flessibilità nell’esame dei conti italiani per la stabilità politica e istituzionale dell’Italia da lui garantita come presidente del Consiglio e insieme segretario del maggiore partito, peraltro anche della sinistra europea. Cosa, quest’ultima, che spiega forse l’ambizione confessata a Scalfari di guidarla, anche dopo avere subito la scissione che persino il suo amico Graziano Delrio in un fuori onda galeotto gli ha rimproverato di non aver voluto evitare davvero, bastando forse che facesse solo qualche telefonata in più.

Di quel rimprovero poi Delrio ha cercato di scusarsi e farsi perdonare sino ad amplificare l’altro ieri, in una curiosa intervista a Repubblica, il dissenso attribuito da indiscrezioni di stampa a Renzi per i 19 senatori piddini, dei quali 15 attribuibili peraltro all’area renziana del partito, che giovedì scorso hanno votato in modo palese contro la decadenza del forzista Augusto Minzolini, usando della “libertà di coscienza” concessa dal capogruppo Luigi Zanda. E salvandolo dall’applicazione retroattiva della controversa legge Severino, già costata nel 2013 il seggio a Silvio Berlusconi per essere stato condannato tre mesi prima in via definitiva per frode fiscale. Per Minzolini invece la condanna, 17 mesi fa, è stata per peculato alla Rai con l’uso della carta aziendale assegnatagli come direttore del Tg1.

Ma torniamo, dopo questo inciso che pure ha una sua valenza politica, alla questione del doppio incarico di segretario del partito e di presidente del Consiglio, dopo che Renzi non ha escluso di potervi rinunciare. Ciò riapre o rafforza obiettivamente la corsa quanto meno mediatica a Palazzo Chigi per il dopo ritorno dello stesso Renzi alla guida del Pd e soprattutto per il dopo-elezioni.

Tutto dipenderà naturalmente dalle alleanze che nel nuovo Parlamento il Pd sceglierà per garantire un governo al Paese, nel presupposto o nella presunzione che il voto col sistema elettorale proporzionale non farà uscire dalle urne nessun governo o nessuna combinazione precostituita, né a destra né a sinistra, e neppure dalle parti dei grillini, a dispetto della loro speranza di poter vincere e fare tutto da soli, nonostante i problemi che hanno anche loro in casa.

Se per vocazione, come gli addebitano a torto o a ragione gli avversari interni ed esterni, o per necessità Renzi dovesse rivolgersi al centro, spingendosi sino a Berlusconi, il candidato a Palazzo Chigi potrebbe diventare il presidente uscente del Consiglio Paolo Gentiloni. Per il quale i forzisti non hanno certamente nascosto le loro simpatie, apprezzandone lo “stile” diverso dal suo predecessore e la sensibilità “patriottica” mostrata nella difesa di Mediaset dalla scalata borsistica dei francesi di Vivendi.

Se invece Renzi volesse o dovesse cercare i suoi interlocutori di governo a sinistra, l’uomo che potrebbe aiutarlo come candidato a Palazzo Chigi sarebbe il concorrente attuale alla segreteria, e già partecipe della maggioranza interna di partito, Andrea Orlando.

In verità, per un centrosinistra “aperto”, secondo l’aggettivo auspicato da Giuliano Pisapia nella presentazione del suo “Campo progressista”, si era pensato che potesse essere speso per la guida del governo lo stesso ex sindaco di Milano. Ma l’ipotesi era nata nel contesto di una sua presenza, per quanto autonoma, nelle liste elettorali del Pd, offertagli personalmente da Renzi, secondo indiscrezioni sinora non smentite. È però sopraggiunto un incontro fra Pisapia e Pier Luigi Bersani che ha complicato disponibilità o previsioni.

Se ne potrà parlare più concretamente, con tutta evidenza, solo dopo le primarie congressuali del Pd, in base anche alla consistenza della prevista vittoria di Renzi, salvo clamorose sorprese. O dopo le elezioni amministrative di giugno, che saranno un test importante per tante cose.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Di male in peggio per Graziano Delrio

         Di male in peggio per il ministro renziano Graziano Delrio dopo l’intervista a Repubblica di protesta contro “l’errore” che sarebbe stato commesso dal capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, lasciando libertà di voto, per ragioni di coscienza, sulla decadenza del forzista Augusto Minzolini da parlamentare, essendo stato condannato 17 mesi fa in via definitiva a più di due anni -due anni e mezzo- per peculato ai danni della Rai.

         Zanda, pur risparmiandosi una risposta in prima persona per non aggravare la questione, specie in piena campagna congressuale, e dopo avere garantito l’appoggio a Renzi rimasto per un po’ incerto, ha affidato agli amici della stessa Repubblica i propri argomenti di difesa.

         Innanzitutto si è appreso che quella di lasciare liberi i senatori del Pd di votare su Minzolini come volevano non è stata una decisione personale di Zanda, ma una valutazione espressa dal comitato direttivo del gruppo. Ed espressa all’unanimità, con l’assenso anche dell’esponente della corrente o area renziana. Area alla quale peraltro appartengono ben 15 dei senatori piddini che poi in aula hanno consentito a Minzolini di sottrarsi all’applicazione retroattiva della legge Severino, scattata invece nell’autunno del 2013 contro Silvio Berlusconi, quando il gruppo non fu liberato dalla disciplina. E non lo fu -aggiungo io- per la indisponibilità espressa, fuori dal Parlamento ma nel Pd, da Matteo Renzi, impegnato allora nella scalata alla segreteria del partito.

         Resta da capire, dopo le reazioni sia pure indirette di Zanda, se Delrio abbia davvero protestato contro l’aiuto a Minzolini a nome e per conto anche di Renzi. E per quale motivo, in questo caso, l’ex presidente del Consiglio abbia voluto assumere una simile posizione complicando il già difficile e teso dibattito interno al partito per le primarie congressuali di fine aprile.

La frenata di Salvini nella corsa contro Berlusconi

Un Matteo Salvini alquanto inedito da Lucia Annunziata, a Rai 3, sta facendo sognare dentro Forza Italia i vari Renato Brunetta, Giovanni Toti e Daniela Santanchè, convinti non solo che della Lega non si possa fare a meno per rifondare il centrodestra, ma che si possano e si debbano tentare assemblaggi dei due e più partiti e/o gruppi parlamentari e consiliari, a livello nazionale, regionale e comunale, coinvolgendo anche la sorella dei Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.

Eppure non più tardi della scorsa settimana al Senato si è avuta la rappresentazione plastica delle distanze fra i tre partiti, quando i forzisti hanno disertato la votazione sulla sfiducia “individuale” al ministro renziano dello sport Luca Lotti, aiutandolo ad abbassare il quorum della maggioranza che gli serviva per vincere la partita del no, mentre leghisti e meloniani hanno votato con i grillini e l’estrema sinistra.

Più ancora di Lotti, del suo amico Matteo Renzi e dei rapporti col Pd era in ballo quella sera nell’aula di Palazzo Madama una questione identitaria enorme come il garantismo, essendosi pretesa la sfiducia al ministro da parte dei grillini perché indagato nella vicenda Consip per violazione del segreto istruttorio e conseguente favoreggiamento degli altri inquisiti, non perché mandato al processo, e tanto meno condannato in qualche grado di giudizio.

La parola magica che, archiviata in fretta la vicenda Lotti, ha fatto sognare i forzaleghisti è “federazione”, usata da Salvini per prospettarne l’esperimento nelle prossime elezioni politiche, ma forse anche prima perché, se si facesse in tempo, potrebbe essere tentata già in qualcuno dei numerosi e grandi comuni in cui si voterà a giugno per le amministrative. Magari, a cominciare da Genova, dove la sinistra ancora soffre per l’autorete compiuta nelle elezioni regionali del 2015, facendo vincere il forzaleghista Toti, e i grillini si sono appena spaccati sulla candidatura a sindaco di una professoressa votata con i computer ma spazzata via con un no gridato dal “garante” del movimento. Che ha liquidato la faccenda salendo in auto, furente per la bocciatura elettronica di un tenore fidato che in quattro e quattr’otto egli ha fatto rivotare, sempre al computer. Ma la professoressa, Marika Cassimatis, non ha nessuna intenzione di farsele cantare e suonare così.

 

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Oltre alla parola magica della “federazione”, Salvini ha anche regalato ai forzaleghisti qualche presa di distanza, finalmente, dai lepenisti antieuropei.

Il segretario del Carroccio si è probabilmente fatto più prudente sul fronte antieuropeista dopo la sconfitta del suo omologo nelle elezioni politiche olandesi, che potrebbe anche danneggiare nelle elezioni francesi la già difficile corsa di Marine Le Pen all’Eliseo.

Un altro scenario che può avere consigliato a Salvini più prudenza è quello rafforzatosi con la vicenda parlamentare di Augusto Minzolini. La cui mancata decadenza da senatore, reclamata invece in applicazione della legge Severino costata tre anni e mezzo fa il seggio di Palazzo Madama a Berlusconi per una condanna definitiva a più di due anni, ha fatto salire le quotazioni del ricorso presentato alla Corte di Strasburgo dal presidente di Forza Italia. Che pertanto spera ora di rimuovere gli ostacoli contro una sua candidatura alle prossime elezioni politiche.

Non si può infine escludere qualche preoccupazione di Salvini per la situazione all’interno della Lega, dove Umberto Bossi sarà pure invecchiato ma rimane il fondatore del movimento e non nasconde di certo il suo dissenso, anche colorito, verso le scelte e le ambizioni da premier di Salvini. Che -altro fatto non casuale- si è finora sottratto anche alla convocazione del congresso reclamata dal “senatur”, statuto alla mano.

 

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Come se avesse avvertito nell’aria qualcosa in arrivo dal fronte leghista, a sinistra Walter Veltroni aveva colto l’occasione del suo appuntamento domenicale con i lettori dell’Unità per avvertire i compagni di partito, o di galassia, volendo includere anche gli scissionisti del Pd e compagni già fuori, che più ancora dei pur temibili grillini andrebbe temuto elettoralmente un ritorno della destra e, più in particolare, di Berlusconi.

Anche Pier Luigi Bersani, prima di fuggire da Renzi con Massimo D’Alema, aveva avvertito e denunciato un incombente ritorno della destra, da lui rappresentata con l’immagine della “mucca nei corridoi del partito”, più ispirando però la fantasia di Maurizio Crozza che incutendo paura ai renziani. Che allora erano ancora fiduciosi di vincere o di non perdere troppo male il referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale.

D’altronde, Bersani non ha mai visto e non vede tuttora un pericolo nei grillini considerandoli un po’ una costola della sinistra, come una volta D’Alema disse dei leghisti pensando di immunizzarli così dalla tentazione di riaccordarsi con Berlusconi dopo averne fatto cadere il primo governo, alla fine dello stesso anno -1994- in cui l’avevano fatto nascere infilandoci dentro, fra gli altri, anche un loro ministro dell’Interno.

Ai grillini l’onorevole Bersani nel 2013, ottenuto dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’incarico -o pre-incarico, come si disse poi al Quirinale- di presidente del Consiglio, tentò addirittura di strappare un aiutino alla formazione di un governo “di combattimento”, per quanto di minoranza, non avendo alcuna intenzione Grillo di negoziare la partecipazione ad una maggioranza.

L’aiutino avrebbe dovuto consistere nella predisposizione ad esaminare senza pregiudizi i provvedimenti e le iniziative dell’esecutivo, di volta in volta. E ciò ammesso e non concesso -come non fu concesso- che il capo dello Stato accettasse uno scenario del genere, consentendo quindi a Bersani di fare il governo e presentarsi alle Camere per sfidare le opposizioni a votargli contro, piuttosto che cercare prima un’intesa con Berlusconi, disposto a negoziarla. Come l’allora Cavaliere fece poi con Enrico Letta.

 

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Ma che Graziano. Sgraziato Delrio contro Minzolini

Dopo il dissenso attribuito a Matteo Renzi, per il timore -si è detto- degli effetti sulle primarie congressuali del Pd, troppo esposte agli umori dei soliti giustizialisti, sono arrivate le dichiarazioni esplicite del ministro Graziano Delrio a Repubblica, sorprendenti sotto vari aspetti. Vediamoli.

         “Il caso Minzolini”, salvato dalla decadenza parlamentare 17 mesi dopo essere stato condannato per peculato alla Rai dopo essere stato assolto in sede civile, “va oltre il merito. Abbiamo dato un messaggio sbagliato”, ha detto il ministro.

         Ma di una questione così rilevante, se si esclude “il merito”, che cosa rimane? Solo gli aspetti propagandistici e/o demagogici, nello stile di Beppe Grillo e simili. Nessuna sentenza o decisione ragionevole può prescindere dal merito. Che nel caso, appunto, di Minzolini è apparso chiarissimo alla maggioranza del Senato. Dove il diritto e il dovere di pronunciarsi sulla decadenza di un parlamentare sono sanciti dall’articolo 66 della Costituzione. Da cui neppure il testo della legge Severino, invocata per togliere il seggio a Minzolini, ha potuto prescindere.

         “Nessuna legge è perfetta -ha detto, bontà sua, il ministro Delrio- ma questa ha un principio giusto, che difendo : chi governa ha il dovere di essere più trasparente di chi è governato”. Trasparenza? Ma di che cosa parla il ministro? I diciannove senatori della sua parte politica che hanno condiviso e sostenuto le ragioni di Minzolini lo hanno fatto alla luce del sole, con voto palese, esponendosi alla gogna degli elenchi e dei manifesti di Grillo e del giornale di Travaglio. E poi rilasciando dichiarazioni e interviste per esprimere le ragioni del loro voto. Più trasparenti di così non potevano essere.

         “Non avrei lasciato libertà di coscienza”, ha infine detto il ministro in polemica col capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda. Che invece questa libertà ha concesso liberando voti come quello di Massimo Mucchetti, dichiaratosi incerto prima di ottenere via libera appunto da Zanda. Ma Delrio si rende conto dell’enormità che ha detto teorizzando la necessità che i parlamentari mettano via la coscienza quando votano su questioni così importanti per obbedire solo alle indicazioni, alle ragioni, alle convenienze politiche? Ma questa è la fine del mondo. Una libertà di voto senza coscienza che libertà è? La libertà di un incosciente.

         Già è un’enormità che quando il Senato o la Camera vota in sede paragiurisdizionale come quella del caso Minzolini, trattandosi dell’esecuzione di una legge in relazione ad una sentenza giudiziaria, vi siano le dichiarazioni di gruppo fatte dal presidente. La libertà di coscienza è di ogni singolo parlamentare, per cui o dovrebbero parlare tutti o tutti tacere per votare e basta, come sarebbe meglio. E, in più, votare a scrutinio segreto, come si fa per ogni questione personale, senza ricorrere al trucco di promuovere tale questione ad una generale tirando in ballo “la composizione” dell’assemblea, secondo una innovazione interpretativa introdotta quando si votò sulla decadenza della preda grossa di tutte costituita nell’autunno del 2013 da Silvio Berlusconi.

         No. Non ci siamo, caro Delrio e cari renziani, se gli amici del segretario uscente e rientrante del Pd la pensano davvero tutti così. Il garantismo evidentemente sta a voi come la luce al buio. Se poi avete altri motivi per temere le conseguenze di quel che è avvenuto col caso Minzolini, ad esempio l’inasprimento dei rapporti con i magistrati mentre sono in corso indagini in cui sono coinvolti il padre e amici dell’ex presidente del Consiglio, fate bene a non dirlo. E non dico di più.

Renzi a ripetizione nella scuderia di Scalfari

Matteo Renzi, segretario uscente ma anche rientrante del Pd, salvo improbabili sorprese alle primarie di fine aprile, è andato a farsi esaminare in questi giorni da Eugenio Scalfari, da tempo prodigo con lui di consigli ed anche di rimbrotti. Come quando gli rimproverò, dopo la pur bruciante sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, di non essere rimasto alla guida del governo. Ma il toscano non ne volle sapere, neppure quando a chiederglielo fu il capo dello Stato in persona. Da segretario del partito pienamente in carica egli preferì proporre a Sergio Mattarella di sostituirlo a Palazzo Chigi con l’amico e fidato conte Paolo Gentiloni Silverj, trasferendolo dal Ministero degli Esteri. Il che fu fatto.

Il successore di Renzi gli è tanto legato, a dispetto di tutti i tentativi mediatici e politici di rivoltarglielo contro, che si trova in queste ore dileggiato, o quasi, su molti giornali, e non solo sul solito Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, per essersi fatto praticamente indicare dall’amico le novità e le conferme ai vertici delle maggiori aziende pubbliche arrivati a scadenza.

Ebbene, se sono vere queste voci o rappresentazioni, Renzi non deve avere faticato molto a raccogliere e dare informazioni, consigli e quant’altro, si spera senza che venga a qualche magistrato la tentazione di contestargli, come al papà nell’inchiesta sugli appalti della Consip, il reato di traffico di influenze illecite. Eh, sì, perché mancherebbe solo un passaggio del genere per completare il quadro di quella “Repubblica giudiziaria” recentemente denunciata dal filosofo Biagio De Giovanni al raduno degli amici e sostenitori proprio di Renzi al Lingotto di Torino.

Non deve avere faticato molto -dicevo- l’ex presidente del Consiglio se, fra una telefonata o una riunione e l’altra, ha trovato il tempo di andare a fare gli esami da Scalfari, che ha avuto la solita cortesia di informarne poi i lettori nell’appuntamento domenicale su Repubblica.

 

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         Renzi ha ragguagliato l’autorevole amico sui libri consigliatigli per saperne di più di Camillo Benso di Cavour, indicatogli tempo fa come modello cui ispirarsi nella sua attività politica. E anche sui libri, sempre consigliatigli da Scalfari, di Giustino Fortunato, di Gaetano Salvemini e di Antonio Labriola.

Incoraggiato ma non sazio di tanta diligenza, Scalfari ha suggerito a Renzi di leggere adesso anche “alcune pagine” -se la caverà quindi con poco- della storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis. Ed essendosi forse insospettito di tanta, deferente disponibilità a seguire i consigli, come capita specie ad una certa età parlando con uno molto giovane, si è piacevolmente sentito proporre dall’allievo di riferire alla prossima occasione sul supplemento di lettura, per fargli verificare l’esecuzione reale del compito. Scalfari, compiaciuto, ne ha riferito ai suoi lettori perché “questo va detto”, a dimostrazione di quanto Renzi sia serio: un Renzi che il fondatore di Repubblica ha piacevolmente trovato “molto cambiato” rispetto ai primi tempi di osservazione o frequentazione. Cambiato, naturalmente, in meglio, checché ne possano dire e scrivere altri sul giornale di “Barpapà”.

Ciò che soprattutto piace di Renzi a Scalfari è la capacità e volontà di coniugare la sinistra col riformismo e con l’europeismo, spinto sino alla proposta dell’elezione diretta del presidente della Commissione di Bruxelles, con relative primarie, come il candidato alla segreteria del Pd -se non ricordo male- ha detto ai suoi al Lingotto.

Piace a Scalfari anche il fermo proposito di Renzi di riformare il suo partito “soprattutto nella struttura territoriale”: si spera meglio di quanto non abbia fatto con la Costituzione. Anche per dimostrare l’importanza che Renzi attribuisce alla riforma e al potenziamento del Pd, di cui colpevolmente si è occupato poco durante la sua prima segreteria, Scalfari ha riportato la risposta ricevuta sul problema del doppio incarico di segretario del partito e di presidente del Consiglio, evocato al Lingotto come una prenotazione. E che non dev’essere forse piaciuto tanto a don Eugenio.

“Certamente desidero vincere ma non è detto -ecco le parole di Renzi a Scalfari- che voglia ridiventare presidente del Consiglio. Forse sarebbe meglio che restassi alla guida del partito e della sinistra in Italia e soprattutto in Europa. Vedrò”. Se non è un’apertura ad una corsa d’altri a Palazzo Chigi, mi pare che poco ci manchi.

 

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Questo resoconto interessante dell’incontro con Renzi è stato preceduto da Scalfari con una curiosa ricerca nello scenario politico italiano dei “cavalli di razza”, come una volta si chiamavano nella Dc i leader più autorevoli, tipo Amintore Fanfani ed Aldo Moro.

Di cavalli italiani di razza, a parte Mario Draghi che però opera per adesso a Francoforte come presidente della Banca Centrale Europea, Scalfari ne ha indicati un po’ troppo generosamente -come vedremo- ben 16. Sono, nel suo ordine anche di galanteria, la presidente della Camera Laura Boldrini, la senatrice a vita Elena Cattaneo, Enrico Letta, Walter Veltroni, Paolo Gentiloni, Matteo Renzi, Romano Prodi, Marco Minniti, Luigi Zanda, Andrea Orlando, Michele Emiliano, Dario Franceschini, Pietro Carlo Padoan, Gustavo Zagrebelsky, Pier Luigi Bersani e Parisi. Di cui Scalfari non ha chiarito se debba intendersi Arturo, già ministro di Prodi, o Stefano, messo in pista e poi azzoppato da Silvio Berlusconi come riorganizzatore non si è mai capito bene se solo di Forza Italia o anche di quello che fu il centrodestra.

A parte la singolare e troppo generosa -come accennavo- promozione a cavallo di razza del governatore pugliese Emiliano, che a me personalmente sembra più un cinghiale, e neppure di razza, gli assenti fanno più rumore dei presenti, come sempre accade in queste circostanze.

Gli esclusi dalla scuderia selezionata da Scalfari sono, per esempio, Massimo D’Alema a sinistra e Angelino Alfano al centro, visto che il ministro degli Esteri ha appena cambiato nome al suo partito, passando dall’Unione di Centro Destra ad Alternativa Popolare. Che sembra scelta apposta per ridurre le distanze da Renzi e dal Pd e aumentarle da Berlusconi, accusato dal suo ex delfino di non volere o poter fare a meno dei rapporti con la destra antieuropeista e lepenista di Matteo Salvini e con la sorella dei fratelli d’Italia Giorgia Meloni.

 

 

 

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Angelino Alfano cambia insegna, più che identità

E’ dunque fatta. Dopo circa tre anni e mezzo dalla fondazione, nel 2013,  Angelino Alfano, che nel frattempo da vice presidente del Consiglio è rimasto ministro dell’Interno e poi ministro degli Esteri passando per tre capi di governo, da Enrico Letta a Matteo Renzi e da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni, ha sciolto il suo Nuovo Centro Destra per sostituirlo con Alternativa Popolare.

         Con questo nuovo nome l’ex delfino di Silvio Berlusconi, che dalla mattina alla sera gli tolse il famoso quid necessario per succedergli davvero, mira a guadagnare alla sua causa centrista personalità e gruppi che mai avrebbe potuto attirare continuando a tenere la destra nel nome del suo partito.

Si è tempestivamente prenotato, a questo proposito, Marco Follini, già segretario dell’Udc creata da Pier Fernando Casini, già senatore del Pd, ora dichiaratamente convinto che si torni finalmente a respirare davvero aria democristiana. Lo ha detto in una intervista al Corriere della Sera parlando proprio dell’interesse suscitatogli dall’iniziativa di Alfano e assicurando di voler fare “l’allenatore”, piuttosto che “illudersi di calciare un rigore”.

L’adesione annunciata da Follini aiuta a capire che le distanze di Alfano da Berlusconi sono destinate ad aumentare, anziché ridursi, essendo stato proprio Follini l’alleato più recalcitrante di Berlusconi negli anni del centrodestra al governo. Ne fu persino per un po’ vice presidente del Consiglio, ma solo per diventarne più diffidente. E alla fine per rompere, lasciando anche Casini perché indugiava a rompere davvero pure lui.

D’altronde, Berlusconi non aveva alcuna voglia di raccordarsi con Alfano quando era in maggiori difficoltà di oggi. Figuriamoci adesso che il presidente di Forza Italia ritiene di avere carte da giocare col ritorno al sistema elettorale proporzionale e con l’allentamento della presa della cosiddetta legge Severino. Che gli ha tolto il seggio al Senato e la candidabilità, ma che è stata appena beffeggiata a Palazzo Madama col caso Minzolini, giudiziariamente analogo a quello del suo amico e presidente di partito.

Con Alternativa Popolare, e il combinato disposto -si potrebbe dire- proprio del ritorno al sistema proporzionale, Alfano ritiene di potersi proporre meglio come alleato del Pd anche dopo le prossime elezioni, quando il partito che sta per tornare sotto la guida di Matteo Renzi dovrà allestire una coalizione di governo. E anche quelli che sono rimasti nel Pd, rifiutando la scissione da sinistra realizzata da Pier Luigi Bersani e da Massimo D’Alema, non vorrebbero estendere a destra nella nuova legislatura, oltre la linea di confine di centro, l’area di governo.

Di centro, e dichiaratamente “non di destra”, si sente e si proclama notoriamente anche Berlusconi. Che tuttavia riesce solo a borbottare, non a rompere con il leghismo lepenista di Matteo Salvini e con “l’appendice” -come la chiama Gianfranco Fini- della destra di Giorgia Meloni. Così egli rischia di avere sì molti più voti di Alfano, ma di non poterli investire politicamente.

Il curioso antigrillismo di Silvio Berlusconi

Il Corriere della Sera ha appena attribuito in prima pagina queste parole a Silvio Berlusconi: “Già solo una sentenza a mio favore della Corte di Giustizia europea mi farebbe recuperare cinque punti percentuali. Il resto ce lo metterei io”.

Quasi a rafforzare il concetto, e a spiegarne il contesto, il maggiore giornale italiano ha pubblicato accanto una vignetta, al solito, imperdibile di Giannelli. In cui al Berlusconi con i capelli è affiancato un altro, davanti alla Corte europea, travestito da Augusto Minzolini, appena sottratto dall’assemblea di Palazzo Madama ad una legge del 2012 applicata invece all’ex presidente del Consiglio, e contro la quale pende il suo ricorso a Strasburgo.

Ad aggravare la disparità di trattamento riservato non da un altro, ma dallo stesso Senato tre anni fa a Berlusconi e ora al suo amico Minzolini, Minzo per noi colleghi giornalisti che lo conosciamo e lo frequentiamo da una vita, c’è il tempo trascorso fra la condanna definitiva dei due e il pronunciamento dell’assemblea di Palazzo Madama.

Nel 2013, quando Berlusconi fu fatto decadere dal Senato con una votazione a scrutinio curiosamente palese, erano trascorsi meno di tre mesi dalla sua condanna definitiva per frode fiscale, comminatagli dalla Cassazione in sessione feriale -da ferie, estive- per evitare che scattasse la prescrizione.

Con Minzolini i mesi trascorsi fra la condanna per peculato alla Rai e il voto, questa volta, liberatorio del Senato sono trascorsi -tenetevi forte- 17 mesi:   non i tre di Berlusconi, e neppure i sette da me indicati qualche giorno fa, e dei quali mi scuso con i lettori confessando di essermi fidato, una volta tanto, di una informazione presa leggendo rapidamente quella mattina il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Mi sembrava, in verità, più lontana la condanna del mio amico Minzo, ma di fronte alla dimestichezza, chiamiamola così, di quel giornale con la cronaca, i retroscena, gli scoop e quant’altro dei tribunali, mi ero fidato. Malissimo.

Far passare 17 mesi, dal novembre 2015 a marzo 2017, per chiudere al Senato, tra giunta e aula, la pratica del “pregiudicato”, come Travaglio chiama Minzo, casellario giudiziario alla mano, significa già di suo qualcosa, anzi parecchio. Se poi aggiungiamo il fatto che la giunta si era pronunciata contro Minzolini con il voto determinante del presidente, convinto ora -come ha appena dichiarato- che la legge così malamente applicata vada modificata, la situazione mi sembra abbastanza chiara per liquidarla come un dannato pasticcio, frutto del giustizialismo che intossica da almeno 25 anni, in realtà molti di più, la politica italiana.

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Convinto, in verità, già qualche giorno prima della piacevole sorpresa Minzolini, della possibilità di giocarsi bene la prossima partita elettorale, specie ora che si è allontanato il pericolo di uno scioglimento anticipato delle Camere, salvo ripensamenti di Matteo Renzi una volta tornato alla segreteria del Pd, Berlusconi si è offerto all’opinione pubblica che si è ancora abituati a definire “moderata” come campione di lotta al grillismo. Che ha preso il posto nella sua testa, e forse non a torto, del comunismo.

E’ sicuramente lodevole il proposito di Berlusconi, pur al netto dei problemi che gli procura quotidianamente Matteo Salvini nell’area che fu di centrodestra. E che non so francamente se si possa davvero ricomporre.

Fra Salvini e Beppe Grillo spesso non si sa chi scegliere se fosse possibile sbarazzarsi politicamente di uno solo dei due. Non a caso, del resto, ognitanto si pensa alla possibilità che l’uno e l’altro, avendo comuni nemici e comuni idiosincrasie, si alleino anche in sede nazionale, magari all’indomani delle elezioni, come hanno già fatto d’istinto prima delle elezioni in sede locale. Virginia Raggi divenne sindaca di Roma l’anno scorso grazie anche ai voti, per quanto pochi, dei leghisti incitati da Salvini contro il concorrente renziano Roberto Giachetti. Lo stesso fece la Giorgia Meloni con i suoi fratelli d’Italia.

Grillo ne ha appena fatta un’altra delle sue per essere giudicato come merita. Alla faccia dell’”uno vale uno” e di tutta la democrazia elettronica con la quale vorrebbe sostituire quella delle elezioni cui siamo abituati da una vita, col certificato, il documento d’identità, il seggio, la matita, la scheda e l’urna, il comico prestato alla politica ha azzerato in un attimo la candidatura della pentastellata Marika Cassimatis a sindaca di Genova per sostituirla in un improvvisato nuovo turno elettronico con chi aveva perduto .

“Fidatevi di me”, ha detto il capo, garante e non so cos’altro del movimento 5 stelle. E come no? Basta vedere quello che è riuscito a combinare proprio lui a Roma con la sua Virginia: sua, intesa politicamente.

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Ma prima di proporsi come bandiera dell’antigrillismo, con migliore fortuna dell’anticomunismo, visto che per rottamare a sinistra uno come Massimo D’Alema, per non parlare del seguito secessionista del Pd, abbiamo dovuto aspettare Matteo Renzi, penso che Berlusconi debba guardarsi bene intorno e difendersi, prima ancora che da Grillo, dalle quinte colonne del grillismo in casa sua. E ciò non foss’altro per non ripetere, come dirò, gli errori commessi prima di entrare in politica.

Il caso vuole che si chiami proprio Quinta Colonna una trasmissione televisiva di Mediaset il cui conduttore, Paolo Del Debbio, coltiva così imprudentemente la piazza leghista che di recente un suo ospite di studio, il deputato forzista Gianfranco Rotondi, insultato a distanza dagli amici di Luigi Di Maio collegati dalla Campania, ha dovuto andar via protestando. Come capitò a me, allora direttore del Giorno, 25 anni fa, in una trasmissione del Biscione condotta dalla buonanima di Gianfranco Funari, che divideva le sue simpatie politiche fra Umberto Bossi e D’Alema.

Qualche giorno fa il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri si è lasciato andare con gli amici del Foglio a qualche osservazione autocritica, alludendo proprio alla quinta colonna grillina in casa e facendo contento Giuliano Ferrara, che se n’è appena compiaciuto nel contesto di una divertente e lunga “dichiarazione d’amore” alla collega ferocemente e sanamente antigrillina Laura Cesaretti. Per la quale egli ha proposto all’amico Fedele una trasmissione al posto di quelle da autorete da cui è costretto di tanto in tanto a prendere le pur cautissime distanze.

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Zanda “riabilita” Martinazzoli, ma dopo 24 anni

Per avere un’idea della svolta che può rappresentare ciò che è appena accaduto al Senato, prima con la sfiducia negata al ministro dello sport Luca Lotti e poi, nel giro di meno di 24 ore, con la decadenza negata al senatore forzista Augusto Minzolini, vorrei raccontarvi ciò che accadde alla Camera e dintorni 24 anni fa, in piena epoca di Mani pulite: la stagione giudiziaria e politica che segnò la fine della cosiddetta prima Repubblica.

E’ il 28 aprile del 1993. Carlo Azeglio Ciampi, trasferitosi dalla Banca d’Italia a Palazzo Chigi su disposizione del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, condivisa dai maggiori partiti, ha appena formato il suo governo. Che è succeduto a quello del socialista Giuliano Amato, dimessosi dopo meno di un anno di vita ritenendo concluso il suo compito col referendum elettorale che, sia pure riguardante solo la legge elettorale del Senato, ha archiviato il sistema proporzionale.

Al nuovo governo, di cui fanno parte anche tre ministri del Pds, discendente dal Pci estromesso dall’esecutivo nazionale nel lontano 1947, spetta il compito soprattutto di gestire l’approvazione di una nuova legge elettorale, valida sia per il Senato sia per la Camera e coerente con il verdetto referendario. Poi potrà essere rinnovato il Parlamento, nel frattempo affollatosi di inquisiti dalla Procura di Milano e da altre per finanziamento illegale dei partiti, corruzione, concussione, ricettazione ed altro ancora.

Il vecchio articolo 68 della Costituzione, che non permette ai magistrati di proseguire nelle indagini a carico dei parlamentari senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza, è ai suoi ultimi mesi di applicazione, prima della riforma che limiterà da ottobre in poi la necessità del permesso ai casi di arresto, perquisizione e intercettazione, salvo abusi dei magistrati, come poi si è scoperto.

In vista della discussione e delle votazioni nell’aula di Montecitorio di sei “autorizzazioni a procedere” contro l’ormai ex segretario socialista Bettino Craxi, dimessosi in febbraio dalla guida del Psi, il segretario del Pds Achille Occhetto chiede un incontro al segretario della Dc Mino Martinazzoli. Che riceve la richiesta mentre discorre con il capogruppo democristiano della Camera, Gerardo Bianco, della curiosa coincidenza di giornata, decisa dal presidente di Montecitorio Giulio Napolitano, fra presentazione del nuovo governo, proprio a Montecitorio, e le votazioni su Craxi, seppure in due sedute separate.

La richiesta di Occhetto viene immediatamente accolta dal segretario della Dc, che chiede a Bianco se gli può prestare l’ufficio di capogruppo per l’evenienza. Ma quando Occhetto si presenta con il capogruppo del Pds a Montecitorio, Massimo D’Alema, anche Bianco rimane. E il suo l’ufficio diventa la sede di un vero e proprio vertice politico.

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Occhetto chiede a Martinazzoli, senza perdere tempo con diversivi di alcun tipo, ”un segno concreto di cambiamento politico”, come dopo qualche anno mi racconterà Bianco, consentendomi anche di scriverne.

Il segno del cambiamento atteso dal principale partito della ex opposizione consiste nella concessione delle sei autorizzazioni a procedere per via giudiziaria contro Craxi, delle quali quattro giunte dalla Procura di Milano e due dalla Procura di Roma.

Martinazzoli, peraltro di professione avvocato, già ministro della Giustizia, fa osservare a Occhetto che l’abitudine del proprio partito è di lasciare libertà di coscienza ai parlamentari quando sono chiamati a pronunciarsi su vicende come quelle di Craxi.

Occhetto ci resta un po’ male, guarda D’Alema, muto come un pesce, e torna alla carica. Ma Martinazzoli non molla e, quasi per sottolineare l’importanza che dà alla sua linea garantista, fa presente che essa sarà illustrata nell’aula di Montecitorio proprio dal capogruppo Bianco in sede di dichiarazione di voto.

In effetti, la sera del 29 aprile Bianco interviene in aula ricordando la lunga alleanza politica con i socialisti e lasciando i deputati del suo gruppo liberi di votare come riterranno, secondo coscienza.

Le sei votazioni a scrutinio segreto si risolvono in modo diverso. Nelle quattro riguardanti le richieste della Procura milanese la difesa di Craxi prevale con 291 voti contro 272. Nelle altre due soccombe per due voti.

In aula scoppia a questo punto il finimondo, con comunisti, leghisti e missini inviperiti contro i democristiani, colpevoli di avere salvato il “cinghialone”, come anche negli uffici della Procura milanese, bersagliati di telefonate, hanno imparato a chiamare Craxi. Volano insulti da tutte le parti. I commessi debbono faticare le proverbiali sette camicie per evitare scontri fisici.

Occhetto corre via, infuriato, negli uffici di partito alle Botteghe Oscure, dove annuncia ai giornalisti che i “nostri” tre ministri si dimetteranno per protesta: non contro la Camera presieduta da Napolitano, evidentemente, ma contro i democristiani. Dopo molti anni egli ammetterà, partecipando nei locali della Fondazione Craxi alla presentazione di un libro con Claudio Martelli, di essere stato allora troppo precipitoso.

I tre ministri tuttavia -Luigi Berlinguer all’Università e ricerca scientifica, Vincenzo Visco alle Finanze e Augusto Barbera ai rapporti con il Parlamento- formalizzeranno le dimissioni solo il 4 maggio. Saranno imitati, fuori dal Pds, dal post-radicale e ambientalista Francesco Rutelli. Che poi augurerà a Craxi per agenzie di provare il “rancio” del carcere rimediandosi in un ristorante dello “stronzo” dalla figlia di Bettino, Stefania, condannata poi a pagargli a rate non ricordo più quante centinaia di migliaia o milioni di lire.

La stessa sera del 29 aprile 1993 Craxi riceve nella sua residenza romana, all’albergo Raphael, la visita del festoso amico Sivio Berlusconi, che prudentemente lascia l’hotel dall’uscita posteriore. Cosa che la sera dopo, uscendo per raggiungere Giuliano Ferrara negli studi televisivi della Fininvest, Craxi rifiuta di fare, come invece gli suggerisce il fedele Nicola Mansi, imbattendosi perciò in una folla di scalmanati provenienti da un comizio di Occhetto nella vicina Piazza Navona.

Vola di tutto nella piazzetta antistante l’albergo dal pubblico contro Craxi: insulti, minacce, derisioni, ombrelli, bastoni, monete, monetine, soldi di carta, accendini, scarpe.

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Ebbene, proprio quella serata infame, una specie di edizione metaforica della macelleria di Piazzale Loreto del 1945, è stata evocata l’altra sera, collegato col salotto televisivo di Lilli Gruber, da Marco Travaglio -e da chi sennò ?- per dire, in pratica, che Craxi e i suoi amici se l’erano un po’ cercata sfidando l’indignazione popolare. Così come, fatte le debite proporzioni, se la sarebbero cercata se dovesse capitare la stessa cosa anche a loro, Augusto Minzolini e i senatori che, stavolta a viso aperto, a scrutinio cioè palese, lo hanno salvato dalla decadenza dal Parlamento sfidando l’ira e l’evocazione della piazza del vice presidente grillino della Camera Luigi Di Maio.

Per aiutare i suoi lettori a ricordarne bene i nomi Travaglio ha pubblicato come un manifesto sulla prima pagina del suo giornale l’elenco dei 19 senatori del Pd che hanno votato a favore di Minzolini avvalendosi della “libertà di coscienza autorizzata” -ha detto, in particolare, Massimo Mucchetti, uno dei 19- dal capogruppo Luigi Zanda. Una libertà di coscienza -va detto, pur apprezzando il ripensamento- non autorizzata, per dirla sempre con Mucchetti, nell’autunno del 2013, quando fu votata la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi, in applicazione della stessa legge Severino invocata l’altro ieri contro Minzolini, fatte anche questa volta, naturalmente, le debite proporzioni.

In verità, ai 19 -contro i 37 voti contrari dei piddini- Travaglio ha aggiunto nel suo manifesto anche i 14, sempre del gruppo del Pd, che si sono astenuti. Eppure il regolamento del Senato dà all’astensione gli stessi effetti del voto contrario. Evidentemente, anche l’astensione deve essere giudicata da quelle parti come un attentato alla legalità, giustizia, moralità eccetera eccetera.

Sono dovuti passare 23 anni perché quelle due paroline –libertà di coscienza– passassero dall’ormai compianto Martinazzoli ad un altro democristiano, Lugi Zanda, nel frattempo ritrovatosi nello stesso gruppo e partito con gli eredi -non i “reduci”, ha recentemente avvertito Matteo Renzi- del Pci.

Il passaggio di consegne, o di parole, personalmente non mi dispiace per niente. Ne sarei persino orgoglioso, da amico che sono stato di Martinazzoli, e sono di Zanda. Ma spero che duri.

Pubblicato su Il Dubbio

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