Senza voler togliere nulla al clamore di altri eventi politici che dominano sulle prime pagine dei giornali -dal drone americano abbattuto o caduto nel Mar Nero in coincidenza col passaggio di qualche caccia russo allo scivolamento lamentato dell’Italia verso l’est europeo solo perché la maggioranza di centrodestra, o destra-centro, ha praticamente bocciato al Senato il diritto rivendicato dalle coppie omosessuali di iscrivere all’anagrafe i figli ottenuti con l’utero in affitto- consentitemi di sottolineare quanto poco sia durato l’avviso di sfratto a “capibastone e cacicchi” partito lanciato domenica nella nuvola di Fuksas, a Roma, dalla nuova segretaria del Pd Elly Schlein.
Dopo qualche ora soltanto, nella stessa giornata, l’assemblea nazionale del partito ha eletto una direzione -l’una e l’altra di numero francamente incerto fra membri elettivi e di diritto- in cui sono entrati alla grande proprio gli sfrattati o sfrattandi.
I numeri -ripeto- sono incerti, ma cronache non smentite o rettificate di un pò tutti i giornali hanno attribuito dai 17 ai 20 posti alla corrente di Dario Franceschini, dai 12 ai 15 a quella di Nicola Zingaretti, fra i 12 e 14 ad Enrico Letta, fra i 10 e i 12 all’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, considerato a torto o a ragione un amico lasciato da Matteo Renzi nel partito da lui abbandonato nel 2019, fra i 7 e gli 8 all’ex ministro Andrea Orlando, fra i 3 e i 4 all’ex ministro Giuseppe Provenzano, che in verità non risultava titolare di una corrente. E’ rappresentato in direzione pure Vincenzo De Luca, il presidente della regione Campania, dal figlio Piero in veste di vice capogruppo uscente della Camera. Seguono altre frattaglie di correnti o sottocorrenti.
In qualche dibattito televisivo o intervista i più o meno interessati alla gestazione e al parto della nuova direzione hanno liquidato l’uscita della Schlein conto i capibastone e i cacicchi come un contributo enfatico dato e consentito al clima di entusiasmo e di attesa di impetuosi rivolgimenti creatosi attorno all’elezione della nuova e prima segretaria di genere del partito. Il cui naso è stato oggetto, anche vignettistico, di odiose allusioni razzistiche giustamente deplorate da tutti, ma di cui bastava e basterebbe forse lamentare solo la lunghezza pinocchiesca. Una lunghezza pari a quella della vita delle correnti e dei loro leader, o proprietari.
Com’era facile prevedere, Gorgia Meloni ha profittato dell’incontro da tempo programmato col Segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Pietro Parolin, in occasione della presentazione di un libro del direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, sui dieci anni del Papato di Francesco per confessarsi in pubblico e in privato coll’alto prelato. Al quale, per esempio, ha assicurato di avere “la coscienza a posto” sulla strage di migranti a Cutro e su ciò che sta accadendo ancora lungo le rotte dell’immigrazione clandestina. Dove ogni omesso o ritardato soccorso in mare dei disperati dei viaggi più della morte che della speranza gestiti dai trafficanti di carne umana è accollato dagli avversari alla coscienza, appunto, della presidente del Consiglio. Che sarebbe partecipe, complice e quant’altro di un sostanziale, odioso ed elettoralistico boicottaggio all’accoglienza perseguito dai ministri dell’Interno e delle Infrastrutture: i due Mattei del governo, Piantedosi e Salvini. Dei quali, uno espostosi anche pubblicamente con qualche infelice polemica con le stesse vittime del traffico di carne umana, e l’altro sottrattosi a qualsiasi confronto od esposizione parlamentare ma vantatosi, anche davanti alla premier, di avere avuto nella sua esperienza al Viminale il minor numero di morti grazie ai cosiddetti porti chiusi. Che per un pò gli erano stati permessi dagli allora alleati grillini.
La presidente del Consiglio ha inoltre riconosciuto alla Santa Sede di trovarsi, non avendo “interessi da difendere”, nella “condizione più idonea a favore di una soluzione negoziale” della guerra della Russia all’Ucraina: più idonea degli altri mediatori reali o potenziali che si alternano nelle cronache e nei retroscena internazionali. Andiamo dal presidente turco Erdogan a quello francese Macron, dal presidente cinese appena confermato al presidente indiano col quale la Meloni peraltro si è incontrata di recente. Il Papa in persona, d’altronde, si è più volte offerto pubblicamente in prima persona per un viaggio a Mosca e a Kiev, a condizione che Putin gli lasci “una finestra” aperta di negoziato, ricevendo dal ministro degli Esteri una lettera di indisponibilità pur momentanea.
Non so francamente se davvero il cardinale Parolin ne abbia parlato con la premier nei colloqui che hanno preceduto e seguito la parte pubblica del loro incontro, ma mi risulta da buona fonte che in Vaticano siano rimasti un pò spiazzati dall’iniziativa assunta proprio ieri dal governo, a più voci, di mettere nel contenzioso della guerra in Ucraina anche l’improvvisamente aumentato traffico di migranti, particolarmente dalle coste africane. Dietro al quale ci sarebbe direttamente o indirettamente la Russia di Putin per destabilizzare i paesi europei, a cominciare dall’Italia, che stanno aiutando l’Ucraina a difendere la propria sovranità ed esistenza.
L’aver dovuto rinunciare al progetto di sottomettere un pò l’antagonista sconfitto nelle primarie sino a farne il suo vice segretario, e rassegnarsi invece alla “diarchia” indicata da Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera nella presidenza del partito affidata a Stefano Bonaccini, ha reso ancora più sfaccettata di quanto già non fosse prima dell’insediamento la figura della nuova leader del Pd Elly Schlein. I cui rapporti con Giuseppe Conte forse anche per questo sono già cambiati rispetto alla cordialità ostentata nell’incontro recente a Firenze, durante la manifestazione antifascista organizzata dai sindacati, con quell’abbraccio pur non immortalato da una fotografia, o da un fermo-immagine tv.
Intervistato dal Fatto Quotidiano, in vista della formalizzazione della “diarchia” nel Pd, sulla più volte confermata convinzione della Schlein che fosse necessaria la prosecuzione degli aiuti militari all’Ucraina aggredita dai russi, l’ex presidente del Consiglio e ormai capo consolidato del Movimento 5 Stelle ha laconicamente preso atto che “non c’è alcuna svolta rispetto alla linea bellicista di Letta”, il predecessore al Nazareno. “Con tutto il rispetto per le sensibilità personali, valgono le posizioni ufficiali e le votazioni”, ha aggiunto Conte alludendo alle adesioni parlamentari alle quali la Schlein ha già partecipato in materia di armi a Kiev dopo averne mancato qualcuna. Giustamente, osservava domenica Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, “sono soprattutto le sfide internazionali a cambiare le prospettive, a incidere sulla vita delle democrazie, sui comportamenti dei governi come delle opposizioni”.
Il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, non commentando ma in qualche modo completando umori e pensieri dell’intervistato, ha espresso il timore -dopo tutta l’attenzione riservata alla Schlein sotto le cinque stelle, sino alla partecipazione di qualche nome anche di rilievo alle primarie “aperte” del Pd da lei vinte- che si possa registrare l’esplosione di una rana troppo imprudentemente gonfiata. Ed ha concluso il suo editoriale ripromettendosi di verificare, questa volta assai più prudentemente di altri, se alla fine “la Schelin avrà cambiato il Pd o il Pd avrà cambiato la Schlein”. Sarebbe, quest’ultimo, evidentemente il Pd dei “cacicchi e capibastone” che la nuova segretaria ha invece sfrattato nel suo discorso di insediamento sulla nuvola di Fuksas, all’Eur, dicendo praticamente che per loro è finita. Ed è arrivato invece il momento auspicato anche da Bonaccini di indossare tutti una stessa maglietta, dismettendo quelle delle correnti e simili.
Al Nazareno e dintorni, al di fuori della stretta cerchia degli ammiratori della prima ora e degli ex appena rientrati o rientrandi nel Pd, sono state alte e numerose le voci che hanno consigliato cautela alla nuova segretaria nell’approccio con i grillini. La più autorevole è stata quella di Romano Prodi, al quale un pò la Schlein deve la notorietà guadagnatasi in politica guidando dieci anni fa nel Pd l’incitamento ad occuparne le sedi per protesta contro la mancata elezione dell’ex premier al Quirinale, alla scadenza del primo mandato di Giorgio Napolitano. Una occupazione -mi permetto di ricordare- alla quale la Schlein non aveva minimamente pensato nei giorni precedenti, quando a fare le spese dei cosiddetti “franchi tiratori” nelle votazioni per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica era stato persino il presidente del Pd Franco Marini. Alla cui candidatura era favorevole anche il centrodestra memore della provenienza dell’interessato dalla sinistra sociale democristiana di Carlo Donat-Cattin. Che prima e anche subito dopo la caduta del muro di Berlino per il suo anticomunismo dichiarato si distingueva dall’altra sinistra, chiamata “Base” e guidata da Ciriaco De Mita segretario del partito dal 1982 al 1989: una sinistra, quest’ultima, talmente diffidente verso il Psi anche, o soprattutto, di Bettino Craxi da preferire “la scommessa” -come la chiamava con un pò di vasellina Arnaldo Forlani- “sulla evoluzione del Pci” di Enrico Berlinguer e successori.
Prodi, per tornare a lui, ha pubblicamente consigliato alla Schlein di non considerare prioritario il problema pur importante delle alleanze, oggi all’opposizione e in futuro al governo, perché occorre prima definire bene e finalmente l’identità evidentemente un pò smarrita del Pd. Smarrita, direi, quanto meno dal momento dell’amalgama mal riuscito lamentato da Massimo D’Alema già l’anno dopo, poco più o poco meno, della confluenza fra gli eredi del Pci, della sinistra democristiana e cespugli verdi e liberali.
Già allora, ripeto, come oggi Prodi e tanti altri, si poteva dire con Eugenio Montale solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, anziché ciò che siamo e vogliamo: sia per stare all’opposizione in questa legislatura o tornare al governo nella prossima, se e quando si sarà consumata l’esperienza, l’avventura -chiamatela come volete- del centrodestra di una Meloni appena declamata “i n v i n c i b i l e” persino da Berlusconi nella cena di festeggiamento dei primi 50 anni di Matteo Salvini, solo quattro in più della premier. Una cena purtroppo approdata sulle prime pagine dei giornali soprattutto per il karaoke non proprio felice, viste anche le circostanze esterne, sull’infelice emigrata calabrese Marinella resa famosa da Fabrizio de Andrè per la tragica fine da prostituta in un fiume del ricco Nord.
Anche se tradita in tante altre occasioni politiche che non tanto in Italia quanto nel mondo vi si sono ispirate, dalla Cecoslovacchia ancora comunista di Dubcek nel 1968 alle meno remote esperienze arabe della costa mediterranea, la stagione della primavera -una “nuova primavera”, ha detto Elly Schlein insediandosi come segretaria nell’avveniristica nuvola di Fuksas, a Roma- si è aperta festosamente con qualche giorno di anticipo rispetto al calendario nel e sul Pd. Che è finalmente uscito davvero dal lunghissimo percorso congressuale imboccato dopo la sconfitta elettorale del 25 settembre scorso.
E’ una primavera che la Schlein, convinta di potersi sottrarre a “capibastone e cacicchi”cresciuti coltivando gli orti delle loro correnti, dovrà fare proseguire fuori stagione almeno fino alle elezioni europee dell’anno prossimo. Che svolgendosi col sistema proporzionale, e svincolate dal gioco delle alleanze o delle combinazioni di maggioranza e di opposizione al governo nazionale, potranno consentire alla nuova segretaria del Pd di misurare davvero la sua capacità attrattiva, da investire poi nel resto della corrente legislatura italiana, in vista della prossima.
Un assaggio di questa capacità attrattiva, nella quale potrà certo aiutarla una certa garanzia unitaria fornita dalla promozione dello sconfitto interno Stefano Bonaccini a presidente del partito, anziché vice segretario gerarchicamente subordinato, Elly Schlein ha potuto farlo nell’operazione voluta di riapertura delle iscrizioni dopo la vittoria nelle primarie del 26 febbraio. Dei diecimila che hanno risposto all’appello della segretaria, una buona parte è fatta di persone adulte, non giovani né giovanissimi, non di ritorno al Pd ma di nuovo arrivo, senza altri precedenti di militanza politica. Sembrano quindi iscrizioni dettate non da infatuazioni improvvise ma da ragionamenti.
La nuova segretaria del Pd è forse riuscita davvero a fare incursione nel mondo tanto cresciuto dell’astensionismo. E nella parte più rischiosa per una democrazia come quella degli indifferenti. Che fra tutti gli avversari reali o potenziali erano i più temuti, e insieme disprezzati, da Antonio Gramsci negli anni in cui in Italia maturava il fascismo. E il socialismo si lasciava svuotare dal mito rivoluzionario del comunismo.Di cui lo stesso Gramsci rimase in qualche modo vittima, pur se la sua figura era destinata a diventare un’icona della sinistra marxista.
La “nuova primavera”, ripeto, annunciata dalla Schlein potrà forse rivelarsi per la Meloni -come si è detto ottimisticamente sicuro ieri Carlo De Benedetti nella sua “radicalità” tradotta anche in un libro- più pericolosa di quanto abbia mostrato di ritenere la premier dicendo carinerie solidali della sua avversaria. Ma ancor più negativi credo che risulteranno i suoi effetti su ciò che è rimasto del MoVimento 5 Stelle ed è stato ereditato da Giuseppe Conte, mentre Grillo si è praticamente restituito alla sua professione di comico.
Sarà pure vero, come ha fatto notare il presente vicedirettore del Giornale Nicola Porro, spalleggiato dal direttore di Libero, Alessandro Sallusti, che è difficile pensare ad una maggioranza e a un governo travolti dai contrasti interni dopo una festa di compleanno di Matteo Salvini come quella organizzata dalla fidanzata Francesca Verdini nel Comasco, con la partecipazione di Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi, familiari e un centinaio di amici. Sarà pure vero, ripeto, ma francamente neppure a me – come alle opposizioni, che hanno protestato, magari esagerando nel “delirio” denunciato dal Giornale per un compleanno trasformato in “reato”- quella festa differita di un giorno è sembrata una grande idea, specie col karaoke che l’ha coronata o accompagnata. Si è cantata, in particolare, la celebre e sfortunata Marinella di Fabrizio de Andrè, quanto meno inadatta per le circostanze, trattandosi di un’emigrata calabrese finita prostituta e morta in un fiume del Nord.
Le “circostanze” che avrebbero consigliato almeno un altro repertorio sono naturalmente quelle della strage di migranti nelle acque di Cutro, delle bare che la premier non ha avuto il tempo di visitare neppure nella trasferta sul posto di un Consiglio dei Ministri straordinario, delle proteste ancora in corso in Calabria e altrove e di una difficile conferenza stampa, diciamo così, della stessa premier, sempre a Cutro, infelicemente chiusa -direi- sul piano politico ed anche umano dal vice presidente del Consiglio Salvini rivendicando i suoi cosiddetti porti chiusi del 2019. E il numero più basso di morti in mare con la sua gestione del Viminale, all’epoca della partecipazione al primo governo del grillino Giuseppe Conte.
Beh, al netto -ripeto- di tutte le esagerazioni nelle proteste delle opposizioni, compresa “la cattiveria” di giornata del Fatto Quotidiano sull’immaginario karaoke al suono della “barca va”, penso che un pò di imbarazzo sia lecito attenderselo dai leader di governo e di maggioranza accorsi alla festa dei “primi 50 anni” di Salvini. Della cui fidanzata e organizzatrice quel birbante di Giuliano Ferrara aveva ieri tessuto gli elogi sulla prima pagina del Foglio attribuendole la capacità di ammorbidire il “truce” Matteo, avendo iil suo “cuore immacolato temperato l’uso a portachiavi del rosario e di Maria Vergine da parte del ministro dei Trasporti e vice presidente del Consiglio”.
Meno male- direi- che alle opposizioni non si è aggiunta questa volta la prima pagina di Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. Che ha lasciato nascosto o ammortizzato all’interno la notizia della festa e le relative polemiche, come anche il manifesto e, sul fronte filogovernativo, La Verità di Maurizio Belpietro, Il Tempo, Il Messaggero, Il Mattino, Il Gazzettino, Domani e i giornali del gruppo Riffeser Monti. Che hanno definito “grottesca” la polemica, senza tuttavia contestarla in prima pagina come Il Giornale nella sua vistosa apertura.
Non saranno certamente i soccorsi in mare seguiti alla strage di migranti a Cutro, con i mille e più salvati di cui il vignettista del Foglio fa vantare la presidente del Consiglio con l’auspicio di “pareggiare” la partita apertasi sulle coste calabresi, a far cambiare il clima politico e mediatico attorno a Giorgia Meloni. Che ormai, volente o nolente, con quel Mattarella lasciato andare solo a omaggiare le salme e a consolare familiari e superstiti, non visitati peraltro da lei neppure in occasione della trasferta del Consiglio dei Ministri a Cutro, si è non dico guadagnata ma certamente procurata l’immagine di una premier poco accorta. Gliel’ha appena rimproverato sul Dubbio il direttore Davide Varì suggerendole di cambiare registro, certamente con più grazia di quanto non avesse fatto il giorno prima sulla Stampa Lucia Annunziata.
Debbo scrivere con franchezza che non ha aiutato Meloni a migliorare la situazione, o a contrastare la rappresentazione demonizzata o demonizzante della sua posizione di fronte al fenomeno inevitabilmente drammatico dell’immigrazione clandestina gestita dagli scafisti, o dalla loro manovalanza, come sostiene non senza ragione il presidente dei penalisti italiani Gian Domenico Caiazza; non l’ha aiutata, dicevo, l’iniziativa presa ieri di volare da Roma a Milano, dopo l’incontro col premier israeliano, per festeggiare a cena con Berlusconi il compleanno di Matteo Salvini. Un volo perfidamente enfatizzato in un titolo da Repubblica accanto alla vignetta di Altan nella quale La Meloni è rappresentata come una specie di bambola di Salvini.
Di quest’ultimo, evidentemente, la presidente del Consiglio non si è accorta, o gli ha già perdonata la perfidia con la quale ha voluto chiudere lui la conferenza stampa di governo a Cutro vantandosi del minore numero di morti in mare verificatosi quando egli fu ministro dell’Interno nel primo governo con i grillini sventolando la formula pur approssimativa dei “porti chiusi”. Che fu alla fine contestata anche dall’allora presidente del Consiglio con un duro discorso di rottura al Senato.
Questi sono errori che non si debbono compiere né permettere. Errori che non consentono solo al vignettista di Repubblica di ridurre la premier ad una bambola di Salvini, ma anche al Foglio di attribuirle in prima pagina “l’eredità del trucismo”, Così dice un titolo spiegato così in quello che tecnicamente si chiama sommario: “Una Meloni in affanno fa sì che Salvini rivendichi quel 2019 dei porti chiusi, che fu un disastro”, finito non a caso in un processo ancora in corso in Sicilia consentito dal Parlamento grazie al voltafaccia grillino.
Peraltro l’occasione di fare gli auguri a Salvini per i suoi “primi 50 anni” vantati da Libero, soltanto quattro in più di lei, la premier l’aveva già avuta proprio a Cutro fra una cosa e l’altra. O, sarebbe forse meglio dire, fra uno sgambetto e l’altro.
A leggere certe cronache politiche da e su Cutro, dove si è tenuta la riunione straordinaria del Consiglio dei Ministri per inasprire “la guerra agli scafisti” e insieme allargare le maglie dell’immigrazione regolare dopo la strage nella notte del 26 febbraio, la foto “opportunity” dell’evento non dovrebbe essere quella della presidente del Consiglio, dei due vice presidenti, dei ministri e del principale sottosegretario di Palazzo Chigi schierati davanti ai giornalisti per la conferenza stampa. Dovrebbe essere invece quella più ristretta di Giorgia Meloni con le dita appoggiate sulla fronte che subisce l’incontenibile Matteo Salvini, riuscito a festeggiare i suoi “primi 50 anni”, come li ha salutati Libero, spogliandola di ruolo e funzioni, cioè imponendole la propria linea. Sua, per esempio, è rimasta la gestione dei porti e della Guardia Costiera, a dispetto della norma del decreto legge, saltata all’ultimo momento, che cercava di aumentare le funzioni del ministro della Difesa, e collega di partito della presidente del Consiglio: il fisicamente gigante Guido Crosetto.
Sue, di Salvini, sarebbero anche certe misure restringenti entrate nel decreto dopo un tentativo fallito di inserirle in un altro provvedimento all’esame del Parlamento. Una giornata, insomma, politicamente “nera” per la premier, come ha titolato il solito Fatto Quotidiano. Ma non solo politicamente, perché qualcuno l’ha messa anche sul piano morale impartendo lezioni, sotto forma di consigli, alla presidente del Consiglio vittima del suo “complesso di colpa”: passata anche per le strade di Cutro, nella sua auto blindata, senza un minimo di vera umanità. Non sentendo, per esempio, l’opportunità di passare prima o dopo la riunione di governo a Crotone, dove giacciono le bare ancora insepolte, e preannunciando invece la convocazione dei familiari delle vittime e dei sopravvissuti a Palazzo Chigi nei prossimi giorni.
Lucia Annunziata, l’editorialista della Stampa alla quale forse la Meloni avrebbe dovuto offrire -chissà- l’incarico di portavoce e di consigliere conferito invece a Mario Sechi, ha così commentato un certo nervosismo della premier di fronte alle domande incalzanti e proteste dei giornalisti nella conferenza stampa: “No, signora. L’abbiamo capito che Lei è forte, che lo Stato è presente a se stesso e che le pene sono pronte. Molti di noi tuttavia non dubitano della forza, ma della pietà. Uno dei peluche lanciato contro il corteo delle macchine del governo, era l’orsetto Winnie the Pooh. Dopo il passaggio del corteo di governo, è rimasto sull’asfalto, ignorato e guardato da un poliziotto in tenuta antisommossa. Forse sarebbe bastato fermare la macchina e raccogliere l’orsetto. Pensi che forza in questo salvataggio” dalla strada, mancando l’acqua. Ma se lo avesse fatto, vista certa pratica di giornalismo, qualcuno avrebbe cinicamente accusato la Meloni di avere raccolto l’orsetto solo per portarlo alla figlia, a Roma.
A torto o a ragione, avvertito nella vignetta di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera un tono polemico in quel “finalmente” attribuito al sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, accogliendo Giorgia Meloni nella trasferta del governo, convocato oggi nel Comune calabrese per discutere di immigrazione dopo l’orrenda strage locale del 26 febbraio. Temo che Giannelli sia rimasto fermo a quel primo rammarico espresso dal sindaco nei riguardi della premier per non avere avvertito “almeno come mamma” la necessità di correre immediatamente sul posto. Magari unendosi al presidente della Repubblica e ritardando di qualche ora la partenza per il programmato viaggio di Stato in India.
Oltre e dopo quel rammarico il sindaco Ceraso ha detto parole e compiuto gesti che lo hanno visto solidale con la posizione assunta dal governo sulle responsabilità dell’accaduto. In particolare, ha condiviso le reazioni pur esagerate, francamente, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi allo spazio che gli stessi migranti lasciano ai trafficanti di carne umana avventurandosi in viaggi non della speranza, come d’altronde ha lamentato anche il Papa, ma della morte in acqua, lasciandosi stipare come sardine su navi che al solo chiamarle così si compie un delitto.
Poi ancora il sindaco si è affrettato a mettere a disposizione del Consiglio dei Ministri la sede del Comune per la sua riunione straordinaria di oggi procurandosi un pesante, incredibile attacco del segretario provinciale del Pd. Che lo ha accusato di essere un “dipendente del governo” rimediandosi come risposta -a testimonianza degli umori politici, chiamiamoli così, del primo cittadino di Cutro- la liquidazione a “comunista”.
Anche a sinistra, d’altronde, nonostante le apparenze, fra le quali il comizio lasciato pronunciare in aula alla Camera all’ex ministro Giuseppe Provenzano dalla nuova segretaria del Pd Elly Schlein, limitatasi a sedergli accanto e ad applaudirlo -direi- d’ufficio, si cominciano ad avvertire segni di stanchezza o di dubbio in un assalto al governo che rischia di essere scambiato per una sottovalutazione dell’infamia dei “trafficanti” denunciati anche dal Papa, pur con la postilla del Segretario di Stato sull’obbligo invariato del soccorso e dell’accoglienza alle vittime. Cui neppure il governo ha certamente dichiarato di volersi sottrarre.
Più ancora del governo nel suo complesso -di cui alcuni ministri come il già citato titolare del Viminale e il collega leghista delle Infrastrutture, Matteo Salvini, sono trattati come mezzi delinquenti- a sinistra si comincia ad essere preoccupati della popolarità e credibilità della Meloni. Della quale, ospite di Mattarella al Quirinale nella festa della donna, Concetto Vecchio ha scritto sull’insospettabile Repubblica, commentando l’accoglienza ricevuta dalla premier, che “è una statista, e anche da sinistra si mettono in fila per farsi un selfie”.
Flavia Perina, l’ex direttrice del Secolo d’Italia che la conosce bene e ne apprezza, come ha scritto sulla Stampa, “la velocità con cui sta conducendo il suo mondo verso nuove sponde”, più europeiste o meno sovraniste della destra cui eravamo abituati, ha mostrato qualche preoccupazione per il proposito appena annunciato da Giorgia Meloni di fare arrivare per la prima volta una donna alla carica di amministratore delegato di una società a partecipazione statale, cioè pubblica. Se non all’Eni, dove Claudio De Scalzi è dato per intoccabile, una mimosa potrebbe arrivare altrove inavvertita, come la stessa Meloni dice delle donne che avanzano condividendo le parole pronunciate da Elly Schlein a proposito della propria elezione imprevista al vertice del Pd. Dove invece era stata generalmente prevista l’elezione dell’ennesimo uomo, il ben piantato Stefano Bonaccini, preferito dai circoli nelle votazioni riservate agli iscritti.
All’annuncio, anzi proposito, di una mimosa al vertice operativo di un’azienda pubblica “l’attenzione -ha riferito la Perina- si desta all’improvviso, il sussulto nel parterre dei rappresentanti della maggioranza è quasi percepibile. Perché -ha proseguito la brillante editorialista della Stampa- va bene tutta questa roba da donne -l’Europa, il grazie a Boldrini, il riconoscimento a Schlein- ma sulle nomine, sulle partecipate, sull’eterna trincea del potere maschile, ecco, lì uno strappo diventerebbe davvero difficile da deglutire”.
Sarà pur vero quello che ha pensato e scritto la Perina liquidando come “più lontano e simbolico” il “riferimento alle sue prossime ambizioni e progetti” avvertibile nella prospettiva di una donna al Quirinale indicata dalla Meloni in una festa a Montecitorio, davanti al suo ritratto aggiunto a quelle di altre signore entrate nella storia delle istituzioni repubblicane; sarà pur vero, dicevo, quello che ha pensato e scritto la Perina, ma da cronista purtroppo molto più avanti di lei negli anni posso assicurarvi che dietro le quinte, specialmente a sinistra, un Quirinale al femminile oggi fa più impressione di una donna al vertice di un’azienda partecipata. Oggi, perché la destra si trova in posizioni di vantaggio.
La scadenza del Quirinale è lontana effettivamente, come accennato dalla Perina, finendo nel 2029 il secondo mandato di Sergio Mattarella, cioè nell’anno successivo all’inizio della prossima legislatura in tempi ordinari. Che mi sembra difficile compromettere con una crisi, com’è avvenuto nella scorsa estate interrompendo il percorso del governo di Mario Draghi e della legislatura.
Per quanto abbia i suoi problemi, per carità, anche al netto delle amplificazioni cui possono essere legittimamente interessate le varie opposizioni, la maggioranza di centrodestra o destra-centro ha buone possibilità di resistere sino alla conclusione ordinaria -ripeto- della legislatura e quindi del suo mandato. E nella prossima non è affatto detto che la Schlein, per quanto potrà ancora sorprendere o arrivare inavvertita chissà dove, riuscirà a capovolgere davvero i rapporti di forza usciti dalle urne del 25 settembre scorso.
Di certo, invece, nella nuova legislatura e, più in particolare nel 2029, alla scadenza-ripeto- del secondo mandato di Mattarella, la premier avrà 52 anni: due in più del minimo richiesto anagraficamente dall’articolo 84 della Costituzione per aspirare al Quirinale. Silvio Berlusconi ne avrebbe 92, validi di certo per ritentare la corsa fallita l’anno scorso ma forse troppi, superiori persino agli 82 anni maturati dall’indimenticato Sandro Pertini quando fu eletto al Quirinale, nel 1978, e agli 89 che lo stesso Pertini avrebbe compiuto sul colle più alto di Roma se fosse riuscito a ottenere la rielezione, inseguita nel 1985 dietro le quinte a dispetto dei dinieghi o smentite ufficiali, prima che venisse chiamato a succedergli Francesco Cossiga.
La Meloni, insomma, qualche carta da giocare l’avrebbe di sicuro, specie se nel frattempo riuscisse a produrre nell’Unione Europea e relativo Parlamento i cambiamenti che persegue sostituendo alle solite maggioranze di popolari e socialisti una di popolari e conservatori.
Se sono rose, con le sue spine naturalmente per la sinistra di qualsiasi trazione, fioriranno. Sennò rimarrà alla Meloni il privilegio non non certo irrilevante di avere rotto -come si è soliti dire-il soffitto di cristallo maschile di Palazzo Chigi. Che non è francamente poco, vista anche la velocità con la quale ha saputo o potuto decuplicare la forza del suo partito fondato dopo l’eclisse di Gianfranco Fini, vittima non so se più del famoso infortunio della casa di Montecarlo, appena ammesso pubblicamente in un’aula di tribunale, o della smania di affrancarsi dalla leadership di Berlusconi. Che pure aveva sdoganato politicamente la destra, esclusa per tantissimi anni dal cosiddetto arco costituzionale di conio demitiano, scendendo in campo nel 1994 e vincendo le prime elezioni della cosiddetta secondo Repubblica in alleanza anche con l’ancòra Movimento Sociale.
Questa del 2023 è un’edizione della festa delle donne politicamente particolare in Italia, anzi particolarissima. Una donna per la prima volta è a Palazzo Chigi a capo del governo, un’altra è appena arrivata al cosiddetto Palazzaccio, sempre per la prima volta, alla presidenza della Corte di Cassazione. Un’altra è già passata alla presidenza della Corte Costituzionale. Altre donne – e che donna nel caso della compianta Nilde Jotti, senza volere offendere le altre felicemente in vita- sono passate per le presidenze delle Camere. Resta ormai da rompere metaforicamente solo il soffitto di cristallo del Quirinale, dove quattro donne -la democristiana Rosa Russo Jervolino, la piddina Anna Finocchiaro, la forzista Elisabetta Casellati e l’attuale capa dei servizi segreti Elisabetta Belloni- si sono solo affacciate inutilmente come candidate possibili o reali.
Ebbene proprio Giorgia Meloni, la premier ospite ieri di una cerimonia alla Camera nella Sala delle Donne, dove è stato aggiunto il suo ritratto a quelli delle signore più titolate nella storia delle istituzioni, ha posto il problema del colle più alto di Roma al femminile definendo “non lontano il giorno di una donna al Quirinale”. Vi ha titolato in apertura di prima pagina a Napoli Il Mattino, non a caso dei compianti Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao.
E se dovesse o potesse capitare proprio alla Meloni di rompere anche quel soffitto di cristallo, e non solo di raggiungere il più modesto e vicino obiettivo propostosi di fare arrivare per la prima volta una donna anche alla carica di amministratore delegato di un’azienda partecipata, cioè pubblica? E’ una domanda troppo impertinente o avventata? Non ha osato porsela, forse scaramanticamente, neppure la sua amica Flavia Perina, ex direttrice del Secolo d’Italia, scrivendo oggi con ammirazione sulla Stampa della “velocità con cui la premier sta conducendo il suo mondo verso nuove sponde”. Dove ormai le donne arrivano senza essere neppure avvertite, come ha detto di sé l’appena eletta segretaria del Pd Elly Schlein con parole non a caso festosamente condivise dalla Meloni.
Pare obiettivamente difficile, nonostante i problemi reali e quelli immaginari che ha anche il suo governo, prevedere un’uscita della Meloni da Palazzo Chigi prima della conclusione ordinaria di questa legislatura. Ma in quella successiva, quando scadrà nel 2029 il secondo mandato presidenziale di Sergio Mattarella, l’attuale presidente del Consiglio avrà sei anni in più dei suoi attuali 46. Avrà cioè più dei 50 anni compiuti richiesti dall’articolo 84 della Costituzione a un candidato al Quirinale. Chi vivrà vedrà, con tutte le cautele naturalmente imposte dalla nota imprevedibilità della politica. E con le stesse dita incrociate, anche per lei, prudentemente evocate dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti annunciando l’altro ieri che è o sembra “scongiurato il rischio di una recessione”.