Le confusioni parallele del centrodestra e del centrosinistra

Impaziente com’è sempre quando vede un affare a portata di mano – e che affare in questo caso, trattandosi dell’autoliquidazione di Giuseppe Conte e di ciò che gli resta o resterà del MoVimento 5 Stelle- Silvio Berlusconi in asse con Matteo Salvini ha posto dal suo buon ritiro in Sardegna un veto a Mario Draghi contro la permanenza dei grillini al governo. Ed ha cercato di accelerare la crisi verso le elezioni anticipate, se e quando i presidenti del Consiglio e della Repubblica la scongeleranno: il primo confermando le dimissioni dopo la verifica parlamentare di mercoledì e il secondo firmando, forse senza neppure il rito delle consultazioni, il decreto di scioglimento delle Camere elette nel 2018. Nelle quali francamente è accaduto di tutto perché si possa scommettere senza imbarazzo su qualche altra cosa eccentrica sino al compimento ordinario di una legislatura nata all’insegna della “centralità” dei grillini, come addirittura dei democristiani nella cosiddetta prima Repubblica. 

Eppure c’è qualcosa di forse troppo affrettato nello scatto di Berlusconi. Che mi sembra più smanioso -ripeto- di arrivare alle elezioni che di arrivarvi nelle migliori condizioni possibili per un centrodestra che continua -per carità- ad essere  in testa in tutti i sondaggi, ma è attraversato anch’esso al suo interno da tensioni e confusioni che potrebbero nuocergli in campagna elettorale. 

Berlusconi alla Stampa del 13 luglio

Diversamente dalla campagna del 2018, quando Berlusconi disse che in caso di vittoria Palazzo Chigi sarebbe spettato al partito più votato della coalizione, non immaginando forse che davvero la sua Forza Italia sarebbe stata sorpassata dalla Lega di Matteo Salvini, questa volta l’ex presidente del Consiglio ha voluto lasciare aperta la questione. In una intervista alla Stampa del 13 luglio egli ha detto come più riservato non poteva che “alla fine del percorso, non certo all’inizio, individueremo insieme la figura col profilo più adeguato” alla Presidenza del Consiglio. Ma la domanda era stata altrettanto chiarissima: “Se Meloni fosse la più votata del centrodestra alle prossime elezioni, Palazzo Chigi toccherebbe a lei?”. 

Neppure in versione, diciamo così sublimale, la domanda aveva smosso Berlusconi dalla paura di riconoscere alla leader dichiaratamente conservatrice del centrodestra, non più in versione ex Movimento Sociale o ex Alleanza Nazionale, un diritto di prelazione sulla guida del governo se più baciata dagli elettori. L’Europa -gli era stato chiesto- accetterebbe Meloni a Palazzo Chigi? E lui: “L’Europa non sceglie il nostro presidente del Consiglio. E’ una prerogativa che spetta esclusivamente al capo dello Stato, sulla base delle scelte del corpo elettorale”. Una risposta francamente diversa, anzi contraria all’abitudine del Cavaliere, in passato, di attendersi dal Quirinale ben altra discrezionalità dopo le elezioni. 

Non so, francamente, se questo problema così sbrigativamente rimosso da Berlusconi potrà risultare irrilevante in una campagna elettorale per la confusione che nasconde, e per quella che gli avversari saranno interessati invece a ingigantire. E ciò specie se costoro non saranno più raccolti nel “campo santo”, come lo stesso Berlusconi lo ha definito,  del Pd e 5 Stelle ma nel campo del Pd e fritto misto di centro. 

Fedele Confalonieri
Fedele Confalonieri al Corriere della Sera di ieri

Eppure un amico di Berlusconi fedele di nome e di fatto come Confalonieri, appena intervistato per il Corriere della Sera da Aldo Cazzullo fra le guglie del Duomo di Milano, della cui Veneranda Fabbrica è presidente, si è sentito di spendere una parola a favore della Meloni piuttosto che di Salvini. Il quale “dà l’impressione di parlare tanto e girare un pò a vuoto”. La Meloni invece “piace molto“ a Confalonieri. “Da ragazza -ha detto- era pure lei un pò fascistina, però adesso che le puoi dire? Ci proveranno, l’attaccheranno. Ma se dovessi dare un consiglio a Silvio, gli direi di puntare sulla Meloni. E’ lei che può riportare il centrodestra a Palazzo Chigi”. 

Incalzato da Cazzullo sul terreno del “populismo” rimproverato alla giovane leader della destra, sentite che cosa ha risposto Confalonieri: “Io nel Silvio delle origini vedevo una punta di populismo: quel rifiuto del teatrino della politica, che un pò è anche stato dei 5 Stelle. Oggi Berlusconi dice tutte cose giuste: l’Europa, l’atlantismo, la moderazione. Ma ai poveri chi pensa? Ai ragazzi che non trovano lavoro e vanno all’estero?”. 

Fedele Confalonieri ancora al Corriere della Sera di ieri

Questo Confalonieri così comprensivo o aperto al populismo francamente non lo ricordavo, pur avendolo frequentato. E neppure il Confalonieri su Draghi e la guerra in Ucraina ascoltato da Cazzullo in risposta alla domanda se l’attuale presidente del Consiglio debba “andarsene o restare”: “Meglio che resti. Certo, non è bello che un Paese sia commissariato, ma è il destino di chi ha troppi debiti. Però- ha detto il primo e più sincero amico di Berlusconi- non mi piace la linea di Draghi sulla guerra, sulle armi. Noi siamo un popolo di santi e di navigatori, non di guerrieri”. 

Immagino il sorrisetto compiaciuto di Conte nell’ultima versione di un passo indietro ad Alessandro Di Battista. E la delusione dell’iperatllantista Meloni appena candidata dallo stesso Confalonieri a Palazzo Chigi. Grande è la confusione sotto il cielo, diceva Mao godendone sulla terra.

Pubblicato sul Dubbio

Non solo appelli ma anche frustate a Draghi perché non rinunci al governo

Titolo della Stampa

Fra i tanti appelli a Mario Draghi a restare  alla guida del governo -tantissimi, forse troppi pensando alle “lacrime finte” non a torto intraviste sulla Stampa da Lucia Annunziata- quello di Mario Monti, che lo ha preceduto a Palazzo Chigi anche lui in circostanze molto preoccupanti per l’Italia, si distingue per fermezza, non per sviolinatura.  

Dal Corriere della Sera

Più che  una supplica, come Giorgia Meloni ha interpretato la sortita dei mille sindaci protestando per una pretesa distorsione del loro ruolo istituzionale, quella di Monti sul Corriere della Sera è stata quasi una intimazione: col frustino dell’amico, se non con la frusta del superiore almeno di età, per quanto di poco. O di uno comunque senza complessi di inferiorità verso Draghi, disponendo a livello internazionale, o quanto meno europeo, di un prestigio personale uguale, o di poco inferiore. Che si è guadagnato come professore universitario e come commissario europeo di lunga esperienza, designato dall’Italia prima di centrodestra, con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, e poi di centrosinistra, con Romano Prodi alla presidenza dell’esecutivo di Bruxelles. 

Mario Monti sul Corriere della Sera

Una conferma, anzi una reiterazione delle dimissioni da presidente del Consiglio -respintegli la settimana scorsa dal capo dello Stato, che lo ha rinviato alle Camere per una verifica politica, alla luce del sole, dopo lo sbilenco rifiuto della fiducia dei grillini al Senato sul decreto degli aiuti a famiglie e imprese-  “sarebbe una mancanza di rispetto verso il Paese e i cittadini”, ha scritto Monte. “E potrebbe intaccare -ha aggiunto mirando ancora più in alto-  la legacy dello stesso Draghi, il suo posto nella storia”. 

Ancora Monti sul Corriere della Sera

Senza volersi in qualche modo immiserire nelle vicende interne al MoVimento 5 Stelle, che sono all’origine di questa crisi per ora congelata da Mattarella; in particolare, senza volere sottolineare il significato politico pur rilevante della scissione non ancora completa del “partito di Conte”, come lo chiama il fuoriuscito Luigi Di Maio, il senatore a vita Monti ha chiesto “cosa si direbbe dell’Italia all’estero se si dovesse constatare che perfino l’italiano più credibile e rispettato decide di lasciare prima del tempo un impegno di così grande responsabilità? Vogliamo -ha ancora più incisivamente chiesto- uno scudo antispread o anche uno scudo contro atti inattesi dei più credibili protagonisti della vita italiana?”. 

“Per tutti questi motivi -ha concluso l’ex presidente del Consiglio- faccio davvero fatica a immaginare che Mario Draghi rassegni in via definitiva le dimissioni da presidente del Consiglio. La forza della ragione, non solo la speranza, mi induce a credere che ciò non avverrà”.

Gabriele Albertini su Libero
Gabriele Albertini

Un altro appello si distingue dagli altri, proveniente pur dall’area del centrodestra da dove ieri è partito un annuncio moltiplicatore delle difficoltà politiche di Draghi, cioè il rifiuto congiunto di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini di continuare a stare in maggioranza e al governo con le 5 Stelle. Ben più prudentemente e realisticamente, considerando proprio la scissione continua in corso nel movimento grillino, da cui starebbero per uscire almeno un’altra trentina di parlamentari, altro che le “poche defezioni” annunciate dal Fatto Quotidiano; ben più prudentemente di Berlusconi e Salvini, dicevo, l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini  scrivendo su  Libero ha invocato Draghi a seguire gli insegnamenti ricevuti da entrambi a scuola dai gesuiti: “Rigidi nei principi ma duttili nei comportamenti”.

Il presidente del Consiglio ci starà forse riflettendo in Algeria, dove è volato per quella che comunque non sarà la sua ultima missione internazionale perché, male che vada, sarà difficile a Mattarella sostituirlo a Palazzo Chigi prima delle eventuali elezioni anticipate d’autunno. Alla cui gestione il governo di Draghi sarebbe adattissimo.

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Si stringe il cappio di Conte al collo di Draghi in vista della verifica parlamentare

Titolo di Avvenire

Mentre si moltiplicano in Italia e all’estero, al di là e al di qua dell’Atlantico, fatta eccezione per Mosca, gli appelli a favore di Draghi in vista della verifica parlamentare di mercoledì, in quella il giornale dei vescovi italiani Avvenire ha definito “l’ora dei doveri”, Giuseppe Conte ha stretto ulteriormente il cappio al collo del presidente del Consiglio. O, se preferite un linguaggio più lieve, gli ha lanciato l’ennesimo ultimatum, che una volta persino il suo sfottente “garante” Beppe Grillo definiva “penultimatum”. Ma che stavolta potrebbe rivelarsi un ultimatum vero, destinato tuttavia ad esplodere in mano al presidente del MoVimento 5 Stelle con una ulteriore scissione a favore di Luigi Di Maio. La cui uscita con una sessantina di parlamentari al seguito è in fondo alla vera origine della crisi congelata dal presidente della Repubblica respingendo le dimissioni del presidente del Consiglio e rinviandolo alle Camere. 

Paola Taverna

Se nelle sue comunicazioni di mercoledì Draghi non dovesse accettare le nove condizioni  di “discontinuità” e “cambio di passo” postegli dal movimento in un documento consegnatogli personalmente da Conte a Palazzo Chigi, i parlamentari gli negherebbero la fiducia non più uscendo dall’aula ma rispondendo no all’appello nominale. Ma se Draghi, orientato sino a ieri a non arrivare neppure alla votazione, andando al Quirinale a confermare le sue dimissioni dopo avere replicato agli interventi nella discussione, dovesse accettare la sfida di Conte e lasciare quindi votare, dai 30 ai 50 parlamentari del movimento -secondo le valutazioni, rispettivamente, di Repubblica e del Corriere della Sera- potrebbero accordargli la fiducia ugualmente. A quel punto a dimettersi dovrebbe decentemente essere non Draghi da presidente del Consiglio ma Conte da presidente, peraltro neppure parlamentare, di un movimento ridotto davvero ai minimi termini. Gli rimarrebbe forse solo la solidarietà di quella specie di passionaria delle 5 Stelle che è diventata la vice presidente del Senato Paola Taverna, avvolta nel suo linguaggio romanesco di lotta. 

Dal blog di Beppe Grillo

Draghi, dal canto suo, come lo ha appena  incitato praticamente il segretario del Pd Enrico Letta, potrebbe anche accettare di rimanere, perdendo forse solo qualche ministro o sottosegretario. E Conte non potrebbe più accusarlo o solo sospettarlo di avere fomentato la scissione di Di Maio, essendo chiara la responsabilità tutta sua della crisi pentastellata. Forse anche il silente Beppe Grillo, neppure lui estraneo a tale deriva col suo disordine politico e caratteriale, smetterà sul proprio blog di distrarsi al telescopio ammirando le stelle ben più lontane di quelle del movimento da lui fondato nel 2009 col compianto Gianroberto Casaleggio. 

Il ministro Stefano Patuanelli

Stelle poi? Polvere di stelle, direi, parafrasando un ben più fortunato film commedia del 1973 diretto e interpretato da Alberto Sordi, e Monica Vitti co-protagonista. Volete metterli davvero a confronto coi pentastellati di oggi? Dallo stesso Grillo a Conte, dalla Taverna al capo- addirittura- della delegazione al governo Stefano Patuanelli, senatore della Repubblica? Il quale ultimo prima rimane al suo posto di ministro dell’Agricoltura pur non avendo votato la fiducia nell’aula di Palazzo Madama, poi rifiuta le dimissioni chieste a lui e agli altri ministri -ma smentite in poche ore- da Conte, infine si dichiara disposto a lasciare solo se davvero lo stesso Conte glielo chiedesse prima della verifica parlamentare di mercoledì.  

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Non ditelo a nessuno, ma Conte ha “il boccino” della crisi in mano

Titolo di Repubblica
Titolo del Corriere della Sera

Il partito di Conte -come lo chiama Luigi  Di Maio non so se più con sarcasmo o con troppo ottimismo, presumendo che l’ex presidente del Consiglio controlli davvero ciò che resta del MoVimento 5 Stelle – ha sequestrato anche questa lunga vigilia della verifica parlamentare di mercoledì prossimo. Che è il giorno in cui Mario Draghi, su esplicita indicazione del Quirinale, si presenterà alle Camere per esporre le ragioni delle dimissioni da presidente del Consiglio respintegli dal capo dello Stato. 

Sergio Mattarella

Sergio Mattarella non è del tutto convinto che il governo non disponga più della sua maggioranza originaria. Ne vuole comunque una conferma chiara in Parlamento prima di decidersi, probabilmente e finalmente, a scioglierlo e a mandare gli italiani alle urne in autunno, per la prima e significativa volta nella storia della Repubblica, dove finora si è sempre votato in primavera, o sulla sua soglia. 

C’è sempre una prima volta in tutte le storie. Lo fu, quattro anni fa, all’inizio di questa legislatura, anche quella -ammessa dallo stesso Mattarella- di affidare la guida del governo a uno come Conte: professore di diritto, per carità, avvocato con clientela molto abbiente, pur col vezzo di considerarsi al servizio del “popolo”, ma completamento digiuno di politica e amministrazione. E se ne sono visti francamente gli effetti, per quanti aiuti avesse ricevuto l’improvvisato presidente del Consiglio dallo stesso Mattarella e collaboratori al Quirinale nelle due esperienze vissute a Palazzo Chigi: la prima con una maggioranza gialloverde e la seconda giallorossa, o giallorosa volendo salvaguardare i colori della Roma calcistica. 

Luca De Carolis sul Fatto Quotidiano di ieri
Titolo del Fatto Quotidiano di ieri

Sicuro non di averla fatta grossa -come gli avrebbe detto la buonanima di Amintore Fanfani invitandolo a “coprirla”- ma addirittura di avere “il pallino” o di “guidare il gioco”, secondo le parole attribuitegli dal giornale che più lo sostiene, cioè Il Fatto Quotidiano, Conte sta cercando a suo modo di togliere l’ultima erba sotto i piedi dell’odiato Draghi: l’intruso che un anno e mezzo  fa gli soffiò, diciamo così, la Presidenza del Consiglio. 

Giuseppe Conte

A suo modo, dicevo: correndo e frenando, dicendo e smentendo, gettando la pietra e nascondendo la mano. In ballo questa volta sono le dimissioni dei ministri pentastellati prima di mercoledì per chiudere il cerchio della fiducia negata al governo sul decreto degli aiuti alle famiglie e imprese, neppure votato d’altronde alla Camera, dove tuttavia la fiducia gli era stata accordata grazie a votazioni separate consentite da un regolamento un pò pasticciato. Ma i ministri, e neppure i sottosegretari, sono tutti disposti a soddisfare Conte, pronti anzi a seguire Di Maio nei suoi nuovi gruppi parlamentari: insieme per il futuro. 

Tutto il resto in questa crisi congelata o sospesa come una partita di calcio in attesa dei tempi supplementari -credetemi- è posticcio: dalle pressioni del Pd di Enrico Letta per il recupero in extremis di una maggioranza senza la quale diventa davvero un camposanto, come dicono da opposte visioni Romano Prodi e Silvio Berlusconi, il cosiddetto campo largo con le 5 Stelle, o ciò che ne rimane, ai contrasti nel centrodestra fra chi vuole davvero le elezioni subito e chi invece cerca ancora di ritardarle per non trovarsi, in caso di vittoria, di fronte al problema di sostenere, subire, contrastare la candidatura di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. 

Titolo del manifesto

L’onnipotenza attribuitasi da Conte fa diventare paradossalmente posticcia persino l’eco internazionale delle dimissioni di Draghi, nel bel mezzo della guerra in Ucraina e dei suoi riflessi geopolitici, economici e sociali. Draghi, secondo la solitamente felice rappresentazione giornalistica che il manifesto sa fare delle situazioni complicate, è tra “le stelle e le strisce”: le stelle cadenti di Conte e le strisce americane di Biden, che fa il tifo per lui in buona compagnia europea.  

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Il rinvio di Draghi alle Camere equivale ai tempi supplementari della crisi

La votazione di fiducia al Senato

Il previsto rinvio del governo alle Camere – dopo le dimissioni altrettanto previste di Mario Draghi di fronte alla fiducia negatagli dai grillini al Senato non partecipando alla votazione conclusiva della conversione in legge del decreto sugli aiuti alle famiglie e alle imprese-  è stato visto da qualcuno come un “congelamento” della crisi. Il che sottintende forse la speranza che nei cinque giorni fra le dimissioni e il ritorno di Draghi in Parlamento, mercoledì prossimo, si scongeli il suo malumore così abrasivamente espresso in Consiglio dei Ministri con l’annuncio, testuale, che “la maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più”. O “è venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo”. 

Dal Fatto Quotidiano

In tempi in cui si sciolgono i ghiacciai -ma con quali effetti si è appena visto sulla Marmolada- c’è chi ha evidentemente pensato che possa sbollire anche la presunta rabbia del presidente del Consiglio, abituato a comandare -secondo la rappresentazione dei suoi avversari- e perciò preso alla sprovvista dall’ultima versione di Giuseppe Conte: “radicale”, in senso estremistico. Che il sociologo Domenico De Masi, arrivato sulle prime pagine dei giornali gridando ai quattro venti la presunta confidenza ricevuta da Beppe Grillo su pressioni di Draghi per “far fuori” il presidente del MoVimento 5 Stelle, si augura oggi sul Fatto Quotidiano -e dove, sennò?- sia la posizione non solo ultima ma definitiva dell’ex presidente del Consiglio. 

Più che di congelamento della crisi, parlerei -a proposito dell’iniziativa presa dal capo dello Stato- di un ricorso ai tempi supplementari per chiudere con un risultato che non sia un pareggio la partita giocata contro Draghi da Conte, appunto. Che peraltro detta da fuori, non essendo né un deputato né un senatore, la linea ai parlamentari pentastellati non passati, o non ancora, con Luigi  Di Maio. Ma siamo poi sicuri che l’ex presidente del Consiglio detti davvero la linea, e non si limiti invece a recepire quella malmostosa di gruppi ormai allo sbando, dove prevale l’illusione che ci sia ancora tempo per una lunga conclusione della legislatura in cui poter giocare all’opposizione per fermare l’emorragia elettorale o addirittura ricevere qualche provvidenziale trasfusione?

Vignetta del Fatto Quotidiano
Vignetta del Secolo XIX

A dispetto, tuttavia, di queste forti spinte alla “radicalità”, per rimanere nel linguaggio di De Masi, sono già arrivate voci e disponibilità ad una conferma della fiducia da parte dei grillini, forse con la riserva di uscire dal governo in un altro momento, visto che ora un disimpegno rischia non di attenuare ma di aumentare la impopolarità del MoVimento 5 Stelle. La ciliegina sulla torta gliel’hanno appena messa a Mosca applaudendo alle dimissioni di Draghi, pur respinte da Mattarella: un Draghi considerato evidentemente “bollito” anche al Cremlino, e non solo sulla prima pagina del Fatto Quotidiano nella vignetta di Riccardo Mannelli. 

Se c’è comunque una volontà, o mezza volontà, di approfittare dei tempi supplementari ottenuti dal presidente della Repubblica per procrastinare la rottura, occorre che i grillini in Parlamento adottino un linguaggio un pò meno greve e provocatorio di quello abituale e  appena ripetuto al Senato. Dove Draghi ha trovato nelle parole dei pentastellati il segno della fine della maggioranza.

Conte ha voluto e ottenuto il riconoscimento dell’essenzialità del suo movimento anche dopo la scissione di Di Maio, tanto da fare escludere dall’interessato un cosiddetto Draghi bis senza i grillini al governo? Ed ora -è il succo del ragionamento del presidente del Consiglio- si dimostri all’altezza delle sue responsabilità. 

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Le ragioni posticce della crisi più pazza del mondo provocata da Conte

Titolo del Dubbio

In una  visione retrospettiva della crisi di governo, senza volere risalire all’anno scorso, quando Giuseppe Conte si sentì ingiustamente estromesso da Palazzo Chigi, il momento preciso in cui il presidente del MoVimento 5 Stelle ha acceso, volente o nolente, l’incendio in corso è quello della scissione di Luigi Di Maio, attribuendone la regìa, o qualcosa del genere, a Mario Draghi. Un sospetto, questo, che Conte ha sovrapposto allo spazio, lasciato per un pò anche dallo stesso Grillo, alle polemiche sulle presunte pressioni esercitate sempre da Draghi sul garante del movimento per “farne fuori” il presidente.  

Tutto il resto -compresa la richiesta di una “forte discontinuità” e di un “cambio di passo” nell’azione di governo- è venuto dopo. E a me è francamente apparso posticcio in tutti i sensi, come un tentativo di dare alla vertenza politica un contenuto diverso, sul piano propagandistico più spendibile di una crisi di nervi, o qualcosa di simile. 

Quando neppure la smentita di Grillo – e la sua rilettura della Divina Commedia di Dante Alighieri per mettere nel girone infernale dei traditori quanti gli avevano attribuito confidenze e quant’altro sulle pressioni da Palazzo Chigi contro un Conte “inadeguato”- ha tranquillizzato il suo predecessore, Draghi ha escluso di poter guidare un governo senza la partecipazione -ma convinta- dei grillini. Se non lo avesse fatto, o si fosse mostrato minimamente disponibile al cosiddetto Draghi bis senza le 5 Stelle, o col solo loro appoggio esterno, egli avrebbe ridotto la credibilità della smentita opposta alla regia della scissione attribuitagli. 

Mario Draghi

Più che un generoso riconoscimento della importanza, essenzialità e quant’altro del movimento pentastellato pur abbandonato da una sessantina di parlamentari, e privo della maggioranza relativa dei seggi parlamentari conquistata nelle elezioni politiche del 2018, Draghi ha fatto col suo rifiuto di guidare un governo senza i grillini un’operazione politica di avveduto incastro di Conte alle sue responsabilità. Ha cioè tolto al suo predecessore ogni pretesto di sospettarlo sleale. E ciò anche a costo -va aggiunto- di infliggere alla scissione di Luigi Di Maio un colpo forse addirittura fatale, come la dimostrazione della sua inutilità ai fini della stabilità e della chiarezza della maggioranza su un terreno peraltro così delicato com’è quello della politica estera dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Un terreno, quello della politica estera e della guerra scatenata da Putin, su cui Di Maio aveva avvertito e denunciato con anticipo il pericolo -ma qualcosa anche più di un pericolo- che Conte perseguisse il famoso “disallineamento” dell’Italia dall’Europa e dalla Nato interrompendo la partecipazione agli aiuti militari all’Ucraina. 

Luigi Di Maio

Bisogna riconoscere con obiettività che dal momento in cui Draghi ha riconosciuto  come più non si poteva l’importanza o essenzialità di ciò che è rimasto del MoVimento 5 Stelle dopo la scissione, Di Maio si è trovato nella condizione non certo incoraggiante di un suo predecessore alla Farnesina: Angelino Alfano. Che nella scorsa legislatura da “diversamente berlusconiano” – ricordate? -aiutò prima Enrico Letta e poi Matteo Renzi a governare senza Silvio Berlusconi, passato all’opposizione dopo l’estromissione dal Senato a causa di una controversa ma definitiva condanna per frode fiscale, prenotando però solo il proprio  pensionamento politico. Ora Alfano è solo un ex col suo -ricordate anche questo ?- “nuovo centro destra”. Di politico, in senso però più culturale o mussale che pratico, egli ha solo la presidenza della Fondazione Alcide De Gasperi. Cui deve -credo- l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica conferitagli di recente e consegnatagli personalmente dal capo dello Stato. 

Più particolarmente nel nostro caso,  Di Maio rischia, con la possibile accelerazione elettorale derivante dalla crisi, di non avere più neppure il tempo di predisporre materialmente per il suo progetto “Insieme per il futuro” la rete di collegamento con sindaci e liste civiche che lo ha già visto impegnato in un incontro, fra gli altri, con Beppe Sala a Milano. 

Ma se il ministro degli Esteri non avrà il tempo di tessere il suo progetto con i sindaci, o con l’affollata area di centro, neppure Conte avrà il tempo di quella specie di rigenerazione politica all’opposizione per la quale premono in tanti su di lui, in ciò che resta del suo movimento, nel tentativo o nella illusione di fermare la discesa elettorale, o addirittura di invertire la tendenza. L’ex presidente del Consiglio si è insomma infilato nel più pazzo vicolo cieco, “coerentemente” -come ha detto per spiegare il rifiuto della fiducia al Senato- con la legislatura, anch’essa più pazza del mondo, cominciata quattro anni fa con la vittoria elettorale dei grillini e col suo davvero imprevisto approdo a Palazzo Chigi.

Pubblicato sul Dubbio

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In memoria di Eugenio Scalfari, grandissimo giornalista scomparso quasi centenario

Come la morte delle persone alle quali si tiene, si è avuto rispetto, anche nel dissenso delle opinioni e delle iniziative, quella di Eugenio Scalfari alla bella e venerabile età di 98 anni, quasi centenario quindi, mi ha colto non abbastanza preparato. Era da un pò che non lo si leggeva: lui che pure era puntuale negli appuntamenti con i lettori, magari negli ultimi tempi più per filosofare che per raccontare o commentare la sua seconda passione -dopo la filosofia appunto- della vita che è stata la politica. Alla quale egli ha partecipò anche attivamente per alcuni anni come deputato eletto a Milano nelle liste socialiste, ma ancor più profondamente e lungamente con i suoi editoriali, che spesso dettarono la linea a partiti anche imponenti come fu quello comunista guidato da Enrico Berlinguer. Che lui votò con orgoglio persino ostentato, dopo essere stato fascista da giovane, come d’altronde era accaduto a tanti suoi coetanei, compreso il suo rivale in giornalismo Indro Montanelli. Il cui Giornale, nato nel 1974 da una scissione a destra, diciamo così, del Corriere della Sera, indusse Scalfari a fondarne un altro, contrapposto, a sinistra. Che fu la Repubblica. 

Ho avuto la fortuna di essere testimone personale della correttezza dei loro rapporti. Nei tanti anni in cui, al Giornale appunto, partecipai alla contestazione del “compromesso storico” proposto da Berlinguer e sostenuto da Scalfari, arrivato con una intervista postuma ad Aldo Moro, appena ucciso dalle brigate rosse, per arruolarlo tra i favorevoli a quella prospettiva, e non solo ad una tregua parlamentare di “solidarietà nazionale” fra Dc e Pci com’era stata quella concordata nel 1976, Montanelli non si lasciò mai prendere dalla tentazione di una polemica personale con lui. E fra le sue rare direttive ai redattori, editorialisti, commentatori del Giornale c’era quella di risparmiare polemiche personali con Scalfari. 

Anche Scalfari aveva la sua classe. Avversario dichiarato di Bettino Craxi, del cui governo annunciava o auspicava quotidianamente la  caduta prematura, e al quale non rimproverava di avere “tagliato la barba a Marx” con quel saggio su Proudhon scritto a quattro mani con Luciano Pellicani, quando il leader socialista cadde sotto la ghigliottina giudiziaria di “Mani pulite” Scalfari smise di occuparsene. Molti altri invece ancora lo attaccano da morto da più di vent’anni e ne distorcono la storia politica e personale. 

Debbo dire che come i buoni vini, Scalfari migliorò invecchiando, sino a scandalizzare i suoi presunti o dichiarati discepoli, e persino quello che alla fine era diventato il suo editore: Carlo De Benedetti. Gli capitò, per esempio, di preferire pubblicamente Silvio Berlusconi – che lui definiva “impresario” anche dopo che era diventato presidente del Consiglio-ai grillini al governo. E di sostenere la riforma costituzionale di Matteo Renzi, osteggiata dagli amici Gustavo  Zagrebelsky e Ciriaco De Mita. Di Renzi peraltro  egli aveva cercato inutilmente di affinare il carattere e la cultura, raccontando -senza smentite- di avergli consigliato buone letture su cui poi lasciarsi interrogare, o quasi, da lui.  

Sarà stato vanitoso, superbo, indisponente con quel “cono d’ombra” nel quale soleva mettere chi usciva dalle sue sue simpatie, ma Scalfari è stato sicuramente un grande giornalista. Al quale peraltro le figlie donarono un documentario a tratti toccante realizzato con la sua partecipazione. Che personalmente mi gustai vedendolo in televisione.

Addio, direttore. O arrivederci, se mai il tuo amico Papa Bergoglio ti avesse intimamente convertito a forza di frequentarvi e di scambiarvi carinerie. 

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Giuseppe Conte è finito come una mosca in un bicchiere capovolto

Dalla prima pagina della Stampa
Titolo del Giornale

Più che nudo, come lo rappresenta nel titolo di prima pagina il Giornale, o incartato, come nel commento di Marcello Sorgi sulla prima pagina della Stampa, con la sua decisione di negare la fiducia al governo non facendo partecipare i grillini alla votazione unica al Senato sul decreto “Aiuti” . già non votato alla Camera in uno scrutinio separato, Giuseppe Conte è finito come una mosca in un bicchiere capovolto. Che nessuno sembra avere davvero la voglia di rigirare per liberarla.

Titolo del Messaggero
Titolo di Repubblica

L’ex presidente del Consiglio, pesantemente accusato dal segretario del Pd Enrico Letta di avere sparato contro il governo di Mario Draghi un colpo di pistola simile a quello che a Sarajevo sfociò nella prima guerra mondiale, è ormai il responsabile da tutti riconosciuto della rottura in corso. “Conte apre la crisi”, ha titolato la Stampa. “M5S apre la crisi”, il Messaggero. 

L’editoriale del Fatto Quotidiano
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

Pur nel tentativo di rovesciare le responsabilità, prendendosela col presidente del Consiglio rappresentato in un braccio di ferro con Conte, dopo un fotomontaggio in cui i due erano pugili con tanto di guantoni, anche il direttore del Fatto Quotidiano non ha potuto sottrarsi all’obbligo di definire “scene da un manicomio” quelle della crisi: un manicomio in cui comunque si è mosso e si muove anche l’ex presidente del Consiglio tanto stimato e sostenuto da Marco Travaglio. 

Nel discorso pronunciato ai parlamentari di quel che resta del suo movimento Conte, reduce anche da una telefonata con Draghi, è arrivato ad attribuirsi il merito del decreto di fine mese anticipato dal presidente del Consiglio ai sindacati, sulla scia della “discontinuità” e del “cambio di passo” chiesti dal predecessore con un documento in nove punti. Ma neppure questo presunto, clamoroso successo ha indotto Conte a fermare la corsa verso il rifiuto della fiducia.

Marzio Breda sul Corriere della Sera

Ed ora che cosa farà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella? si chiedono tutti. Ai quali ha in qualche modo risposto il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda scrivendo, testualmente: “Si può solo dare per possibile che, nell’ipotesi di un Draghi azzoppato dalla prova della fiducia a Palazzo Madama, il presidente lo rinvii alle Camere. Ma -si badi- non come prova d’appello della coalizione per ricucire in extremis un tessuto che sia stato appena strappato, quanto per costringere i partiti ad assumersi solennemente le proprie responsabilità davanti al Paese. Esprimendo pubblicamente le rispettive posizioni, senza i mascheramenti tattici e i rilanci continui cui abbiamo assistito”.

“Poi, nel caso, Mattarella -ha scritto il quirinalista del Corriere- avvierà le consultazioni con le forze politiche e, numeri alla mano, prenderà una decisione. Sulla quale grava un punto interrogativo: chiedendo un nuovo sacrificio a Mario Draghi ?”. Proseguendo -ci sarebbe da chiedersi ancora- con l’attuale governo, nella presunzione di una permanenza pur contraddittoria dei grillini, o con un altro, il cosiddetto Draghi bis?

Ancora Marzio Breda sul Corriere della Sera

Ma anche a queste domande lo stesso Marzio Breda si era risposto da solo all’inizio della corrispondenza dal Quirinale smentendo “la voce” ricorrente “da un paio di giorni a Montecitorio” secondo la quale Mattarella “avrebbe detto a Mario Draghi: “Qualunque cosa succeda, tu da Palazzo Chigi non ti muovi…Ci siano capiti?”.

“Una intimazione -si legge nell’articolo di Breda- che non rientra nel lessico di Mattarella, un uomo per il quale la cultura della complessità (e questa è una fase estremamente complessa) si unisce a quella della mediazione (che non prevede un pressing così brutale). E’ insomma una frase “inverosimile”, sbottano al Quirinale, arricciando il naso. Non hanno tutti i torti, se non altro perché questo premier ha dato prova di voler decidere da solo, e senza tutori, il proprio destino”. Cosa che Conte evidentemente non ha messo in conto, finendo -ripeto- come una mosca sotto il bicchiere.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it 

Conte è riuscito a intossicare anche l’incontro del governo con i sindacati

Titolo di Avvenire
Titolo del Sole-24 Ore

Anche l’incontro di Mario Draghi e dei suoi ministri con i sindacati per “il cantiere” del salario minimo e del taglio al cuneo fiscale, come lo ha chiamato il giornale della Confindustria 24 Ore, o il “patto anticrisi”, secondo Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, ha risentito del clima politico di provvisorietà, instabilità e quant’altro creato dalle condizioni della maggioranza. Dove Giuseppe Conte e Matteo Salvini si inseguono nelle minacce e negli “ultimatum” lamentati dal presidente del Consiglio. Ma Conte primeggia per il caos del MoVimento 5 Stelle aggravatosi con la scissione, peraltro non ancora completa, di Luigi Di Maio. 

Titolo di Repubblica

Ora tutti sono “appesi a Conte”, come ha titolato la Repubblica: appesi come a un cappio, per la sua incapacità  -se non vogliamo parlare di cattiva volontà- di resistere alle fortissime tentazioni di rottura col governo serpeggianti fra i parlamentari destinati in gran parte a non tornare nelle nuove Camere. E ciò un pò per i tagli dei seggi  da essi stessi voluti e ancor più per i consensi perduti governando in questa legislatura con un pò tutti i partiti pur di stare al potere. Particolarmente forte è l’agitazione dei senatori, pronti a negare la fiducia al governo sul decreto “aiuti” che già alla Camera i pentastellati non hanno voluto approvare per via soprattutto della consentita realizzazione del termovalorizzatore a Roma, dove pure si vive tra incendi e rifiuti in pasto ai cinghiali nelle piazze e sulle strade. 

Maurizio Landini all’uscita da Palazzo Chigi

Ad un governo sotto scacco, forse anche  matto, era francamente difficile che i sindacati, pur accolti calorosamente da Draghi in persona a Palazzo Chigi, dessero credito più di tanto. E infatti non lo hanno dato, specialmente la Cgil di Maurizio Landini. Al quale non si può onestamente chiedere di lasciarsi scavalcare in silenzio da Conte che ha messo, fra le nove richieste di “discontinuità” e “cambiamento di marcia” avanzate per iscritto a Draghi, un altro sostanzioso “scostamento” di bilancio, cioè altro deficit e debito pubblico, per aumentare la spesa nell’ultimo anno di legislatura. E infatti Landini non si è lasciato scavalcare ed è tornato, pur dimagrito e vestito di blu, a fare il tribuno tra la selva dei microfoni all’uscita da Palazzo Chigi. 

La vignetta di Sergio Staino sulla Stampa
Titolo del Fatto Quotidiano

Non si sa, a questo punto, se il governo sarà ancora al suo posto, o comunque in condizioni di “fare”, che sono le uniche accettate da Draghi, per un successivo incontro, verso la fine del mese, programmato con i sindacati prima di un altro, corposo decreto di contenimento della crisi sociale. Ma se non avverrà, sarà ben difficile a Conte, e a ciò che sarà rimasto del suo movimento, scaricarne la responsabilità su altri: a cominciare dal “Draghi sottovuoto” gridato dal giornale che più rimpiange e sostiene l’ex presidente del Consiglio. Che è naturalmente Il Fatto Quotidiano, spesosi a rappresentare così l’incontro con i segretari dei sindacati a Palazzo Chigi: “La proposta che non c’è del governo che non c’è”, dal quale quindi i grillini dovrebbero affrettarsi ad uscire, e non limitarsi a negargli la fiducia o a non votarne i provvedimenti. Non è affatto escluso che Conte soddisfi alla fine, pur in un percorso assai tortuoso, quest’attesa spasmodica dei suoi estimatori. Che hanno riempito le tasche, diciamo così, anche ad un vecchio giornalista e militante di sinistra come Sergio Staino, ex direttore dell’Unità, sbottato sulla  prima pagina della Stampa a dire nella sua vignetta: “Io prima non ero molto convinto di Draghi. Adesso, grazie a Conte, me lo sposerei”. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Le tasche piene di Draghi, e un pò anche quelle di Mattarella

Titolo del Dubbio

Se fossero vere, come temo, le “tasche piene” attribuite dal Corriere della Sera a Mario Draghi in una “conversazione” con Antonio Tajani, che non ha smentito, ci sarebbe quanto meno da comprendere, se  non si volesse proprio condividerla, l’insofferenza del presidente del Consiglio. Che in un incontro chiesto e ottenuto con urgenza al Quirinale dopo il rifiuto dei grillini di approvare alla Camera il cosiddetto decreto aiuti, pur avendo accordato giorni fa la fiducia posta dal governo sull’articolato, è stato incoraggiato da Sergio Mattarella a resistere alla tentazione delle dimissioni. Che tuttavia il capo dello Stato avrebbe riconosciuto ragionevoli nel caso in cui al Senato i grillini rifiutassero, non partecipando al voto, anche la fiducia oltre all’approvazione del provvedimento, abbinate per regolamento a Palazzo Madama   diversamente da Montecitorio. 

Giuseppe Conte

Pur avendo riconosciuto la “serietà” di Draghi nell’essersi preso del tempo per rispondere -entro luglio, concordarono- alle richieste  di “discontinuità” e “cambiamento di marcia” contenute in un documento in nove punti consegnatogli a Palazzo Chigi , Giuseppe Conte ha sorpreso il presidente del Consiglio tollerando o addirittura fomentando una certa guerriglia contro il governo in Parlamento. E, non chiedendo direttamente ma facendogli arrivare per vie traverse, compresi i giornali, interventi e segnali anticipatori di una risposta positiva al contenzioso.

Ma quello che mi risulta avere maggiormente infastidito, o riempito “le tasche” di Draghi è stato il malessere che, volente o nolente, Conte ha provocato nel mondo sindacale con la sua corsa praticamente a sinistra. E ciò proprio mentre il presidente del Consiglio preparava l’incontro con i sindacati per spianare la strada all’azione di governo, e alle nuove misure di alleggerimento sociale che si stanno studiando tra Palazzo Chigi, Ministero dell’Economia, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero del Lavoro e anche Ministero della transizione ecologica, retto peraltro da un tecnico- il fisico Roberto Cingolani- che sotto le cinque stelle, o ciò che n’è rimasto dopo la scissione di Luigi Di Maio, viene sempre più considerato dai grillini un nemico. “Cingolani è da cacciare”, titolava ieri il Fatto Quotidiano a pagina 11 un articolo di Antonio Rizzo con rigoroso e compiaciuto    richiamo in prima. 

L’ultima cosa di cui il governo delle emergenze, ora anche sociale, com’è quello guidato da Draghi, aveva bisogno era ed è certamente una concorrenza di Conte col segretario generale della Cgil Maurizio Landini, pur dopo il riconoscimento della essenzialità della parte del movimento che gli è rimasta. 

Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini

Se sarà comunque verifica quella che aspetta il governo, ma più in generale il Paese, e che è stata formalmente sollecitata nella maggioranza da Silvio Berlusconi, condivisa da Matteo Salvini e un pò derisa nel centrodestra dall’oppositrice Giorgia Meloni, essa per fortuna non sarà quella anomala adombrata su qualche giornale attribuendone la gestione al presidente della Repubblica. Che, per quanto paziente e volenteroso, e anche lui preoccupato per una crisi di governo in mezzo a tante altre crisi, di carattere interno e internazionale, non sembra proprio avere la voglia di addossarsi anche un compito del genere, sempre affidato nella lunga storia della Repubblica al presidente del Consiglio. Lo si è capito bene dalla cronaca dell’incontro di Mattarella con Draghi fatta sul Corriere della Sera dal quirinalista principe Marzio Breda.

Se sarà crisi a causa delle dimissioni di Draghi con le tasche rotte a quel punto come le scatole, e non solo piene, Mattarella lo rinvierà alle Camere per verificare nel modo più trasparente possibile se e di quale maggioranza porrebbe ancora disporre. Il guaio -altra ragione, credo, dell’anomalia di questa conclusione della legislatura più pazza del mondo, com’è stata più volte definita- è che,  non facendo parte del Parlamento, Giuseppe Conte non potrà partecipare alla discussione. E non è detto, francamente, che i capigruppo siano  davvero in grado di rappresentarne la linea, se ne esiste davvero una, tale e tanta è la confusione esistente fra i deputati e i senatori di un movimento la cui scissione non è ancora completata. 

Pubblicato sul Dubbio

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