
Il governo di Mario Draghi, specie per chi ha potuto vederlo da casa in televisione alle prese col dibattito parlamentare sulla crisi ucraina, non è cambiato. E’ sempre lo stesso, col medesimo presidente del Consiglio, con gli stessi ministri e gli stessi sottosegretari. Si è solo allargata ulteriormente, sulla gravissima situazione internazionale creatasi con l’invasione russa dell’Ucraina, la sua base parlamentare estendendosi sino alla destra di Giorgia Meloni.
Eppure non è del tutto lo stesso governo di prima. Nè quello formatosi poco più di un anno fa all’insegna della straordinarietà o emergenza certificata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nella impossibilità pandemica di mandare gli italiani alle elezioni anticipate. Nè quello che sembrava un pò ammaccato alla fine della recente corsa al Quirinale, conclusasi con la conferma di Mattarella ma che aveva purtroppo convolto anche Draghi come candidato alla successione. Ma ciò per i troppo insistiti -possiamo ben dirlo- rifiuti del presidente uscente di considerarsi disponibile ad una rielezione.

Per quanto fosse stato proprio Draghi a muoversi più decisamente e concretamente per la conferma di Mattarella, sul presidente del Consiglio era un pò rimasta l’ombra di un sostanziale o mezzo sconfitto, cui poter imporre persino un rimpasto o rimpastino, liquidato dal presidente appena confermato con la decisione di respingere le tradizionali dimissioni di cortesia del governo in carica. Ma erano rimasti fuochi o fuocherelli, o braci, tra le pieghe di una maggioranza troppo larga per essere davvero o sempre omogenea, e col maggiore partito della combinazione -il MoVimento 5 Stelle- persino a guida appesa ad un tribunale, a dimostrazione ulteriore di quanto squilibrato sia il sistema politico e persino istituzionale del Paese a 30 anni di distanza dallo straripamento del potere giudiziario.

Ogni velo di incertezza, di nebbia, di torbide manovre è stato spazzato via da quello che Draghi con dotta citazione ha definito in Parlamento “il ritorno alla giungla della storia”, di cui si è assunta la responsabilità a Mosca Putin aggredendo l’Ucraina. E cadendo, nella migliore delle ipotesi per lui, nelle provocazioni di un comico rivelatosi tuttavia più astuto del presunto nuovo zar, anche se con le idee ancora un pò confuse perché si è appena e giustamente appellato all’Europa, ottenendone una difesa immediata e concreta, e al tempo stesso ha invocato la mediazione della Cina. Che -francamente- non mi sembra una cosa molto coerente: più da comico, appunto, alla Beppe Grillo che della Cina è infatuato, che da statista, o da “guerriero per caso”, come Zelensky è stato felicemente incoronato da Bernard-Henri Levy. Il quale ha avuto modo di conoscerlo e frequentarlo.

Ora che è tornata -ripeto- la giungla della storia, e Putin attraversa la piazza rossa sul tappeto di teschi che impietosamente gli ha steso sotto gli stivali Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, il governo Draghi può ben considerarsi in Italia in una botte di ferro, con la linea che ha saputo adottare e nelle debolezze accresciute dei suoi disturbatori. E’ l’ossimoro di un governo uguale e nuovo allo stesso tempo. Di fronte al quale fanno semplicemente ridere sia il presidente pentastellato della commissione Esteri del Senato, che ha dissentito dalla linea della maggioranza, sia quegli otto forzisti -addirittura- assentatisi perché fermi forse alle immagini vacanziere di Berlusconi con Putin.


“Draghi più che politico”, ha titolato in prima pagina Il Foglio replicando in qualche modo all’interno: “Draghi non è più un tecnico”. Bei titoli, entrambi, per sua e nostra fortuna, per quanto indigesta al pentastellato incollato alla sedia di quella commissione al Senato.
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