Grazie, presidente Zelensky, ma ancor più grazie al presidente Draghi

L’aula di Montecitorio

Non voglio neppure pensare che cosa avremmo potuto sentire da un altro presidente del Consiglio nell’aula di Montecitorio dopo il collegamento fra il Parlamento italiano e il presidente della Ucraina aggredita dalla Russia di Putin. Non voglio pensare alle trattative che egli avrebbe dovuto condurre con leader e leaderini della sua maggioranza di governo per concordare le sue dichiarazioni. Più in particolare, se consentite, non voglio neppure pensare a cosa avrebbe voluto e potuto dire, al posto di Draghi, il suo predecessore Giuseppe Conte. Che ancora qualche sera fa, in un salotto televisivo, ho sentito parlare di Putin, e di un lungo colloquio avuto con lui quand’era presidente del Consiglio italiano, come neppure Silvio Berlusconi avrebbe trovato il coraggio di fare se messo alle strette e costretto ad occuparsi degli affari di Stato, non delle sue famiglie in senso lato. 

          E’ perciò con enorme sollievo e orgoglio nazionale che riporto testualmente la conclusione dell’intervento di Draghi, rivolto direttamente al pur lontano ospite collegato grazie alla tecniche moderne della comunicazione: 

“Quando l’orrore e la violenza sembrano avere il sopravvento, proprio allora dobbiamo difendere i diritti umani e civili, i valori democratici. A chi scappa dalla guerra dobbiamo offrire accoglienza. Di fronte ai massacri dobbiamo rispondere con gli aiuti, anche militari, alla resistenza. Al crescente isolamento del Presidente Putin dobbiamo opporre l’unità della comunità internazionale, L’Ucraina ha il diritto di essere sicura, libera, democratica. L’Italia -il Governo, il Parlamento e tutti i cittadini- sono con voi, Presidente Zelensly. Grazie”. 

                Chi non si riconosce in queste parole non è  un buon italiano. Anzi, semplicemente non è un uomo. 

La sordida vendetta di Putin nascosta in dieci milioni di profughi

Titolo del Fatto Quotidiano

    Gli edifici distrutti, le case sventrate e rimaste appese con i loro mobili ai resti delle facciate, i cadaveri abbandonati per strada accanto a un bagaglio o, peggio ancora, ad una madre o un padre che non è riuscito ad abbracciare per l’ultima volta il figlio caduto accanto, le voragini grandi quanto i quartieri che vi sorgevano prima, le fosse comuni nelle quali vengono gettati in tanti come e senza sacchi, gli spiragli attraverso i quali s’intravvede o si immagina il sottosuolo affollato, cui  il manifesto ha dedicato la sua foto di copertina, “il grande cratere” che pure al Fatto Quotidiano si sono accorti essere diventata Kiev non per le armi  ricevute e usate degli ucraini per difendersi ma per le bombe russe di ogni tipo che vi stanno cadendo sopra da giorni; tutto questo, diffuso in centinaia e centinaia di foto fra cui c’è solo l’imbarazzo delle scelta per chi confeziona un giornale o le fa proiettare sulle pareti del salotto televisivo di turno , dove si parla della guerra qualche volta persino con gli occhi umidi davvero di lacrime, non mi sembra riflettere davvero o più efficacemente il dramma anche di questa carneficina in corso. Che per fortuna di alcuni di noi spettatori televisivi è la prima o qualcuna delle poche cui ci è capitato di assistere in diretta, diciamo così, essendoci state risparmiate per ragioni anagrafiche le guerre addirittura mondiali del secolo scorso. 

        Più ancora del fuoco e delle fiamme, delle ceneri e dei cadaveri, mi ha impressionato sulla prima pagina della Stampa di oggi l’immagine apparentemente salvifica o meno tragica dei profughi che lasciano le loro terre distrutte o insicure per rifugiarsi altrove. Dieci milioni di profughi, ha calcolato probabilmente per difetto il giornale di Torino. Dieci milioni e più di morti sinora mancati che Putin e i suoi cinici generali che ancora gli ubbidiscono, scattando sull’attenti al solo vederlo, senza neppure bisogno di sentirlo parlare, stanno spingendo di fatto verso altri paesi che hanno la colpa di non avere sostenuto e di non sostenere le operazioni speciali di denazificazione e simili. 

            Costoro, i profughi,  sono naturalmente tutti benvenuti fra noi che potremo e vorremo accoglierli, facilitati dal fatto di conoscere e apprezzarne i familiari ai quali siano abituati da tempo ad affidare quello che di più prezioso abbiamo: i nostri vecchi e/o malati. Ma non facciamoci molte illusioni sulla capacità che avremo, circondati o rappresentati come siamo dai partiti che abbiamo, di nuove ma anche di vecchie tradizioni, di conservare la lucidità e la commozione di questi giorni , non trasformandole via via in stanchezza, risentimento e rifiuto. Pensiamo un pò al favore col quale tanti di noi in anni e persino mesi neppure tanto lontani siamo riusciti a scaldarci il cuore non per le migliaia e migliaia, diciamo pure centinaia di migliaia in  fuga dall’Africa su imbarcazioni di fortuna solo per chi le allestiva e le faceva partire, ma per gli ordini che si davano dalle nostre coste di non lasciarli sbarcare. 

Speriamo che almeno questa guerraccia di Putin ci abbia fatto diventare più umani anche su quest’altro versante dell’umanità sofferente. Ma temo che sia una speranza destinata a scontrarsi con la prima campagna elettorale che torna sulle prime pagine dei giornali: ce n’è una lunga serie da qui all’anno prossimo, alla scadenza del mandato delle Camere attuali. 

Quella lunga e tutta personale avventura del centrodestra

   Comincio a temere di avere visto, seguito, incrociato, avvertito troppe edizioni del centrodestra e di finire per perderne il conto: un rischio dal quale vorrei cautelarmi elencando con la maggiore sintesi possibile ciò che mi è rimasto di loro nella memoria.

Titolo del Dubbio

Il primo centrodestra -o polo del buon governo, come mi risultava che preferisse chiamarlo il professore Giuliano Urbani parlandone con Gianni Agnelli, fino a quando il mitico “avvocato” non lo dirottò da Silvio Berlusconi, sapendolo preoccupatissimo delle cattive acque politiche in cui erano finiti insieme gli uomini politici dei quali maggiormente si fidava il Cavaliere, cioè Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani, in ordine rigorosamente alfabetico- fu solo uno stato d’animo, una pulsione, il desiderio di fare qualcosa di indefinito per impedire che i comunisti, o come diavolo avevano cercato di chiamarsi o travestirsi, vincessero le elezioni del 1994 rovesciando addosso agli anticomunisti le macerie del muro di Berlino crollato nel 1989. 

           Da stato d’animo, pulsione e simili, in cui Fedele Confalonieri e Marcello Dell’Ultri mi coinvolsero chiedendomi di insegnare al personale di Pubblitalia, la lettura -pensate un po’- dei giornali, tanto malfatti i due consideravano evidentemente i quotidiani, o sprovveduti i dipendenti che andavano ad acquistarli nelle edicole, allora ancora fiorenti per tutti quegli arresti più o meno eccellenti che attiravano folle di lettori davanti alle locandine, il centrodestra divenne un piano politico organico del Cavaliere in funzione di una sua ascesa alla guida del governo, e non più di una coalizione da affidare alla leadership di qualche  volenteroso di esporsi.

Mario Segni

           Me ne accorsi quando, cortesemente interpellato su chi avrebbe dovuto allearsi nel caso in cui egli avesse deciso di impegnarsi in politica, proposi a Berlusconi di mettersi con la Dc ancora di Mino Martinazzoli, che nel frattempo aveva candidato il nostro comune amico Mario Segni a Palazzo Chigi. “Ma la Lega preferisce me”, mi sentii rispondere. E infatti Segni, precedentemente accordatosi con i leghisti in una trattativa condotta per il Carroccio da Roberto Maroni, era stato appena scaricato e svillaneggiato da Umberto Bossi in persona.

                Il centrodestra, diventato così il convoglio destinato a portare Berlusconi a Palazzo Chigi con le carrozze della Lega agganciate nei viaggi elettorali al Nord e quelle della destra ancora missina di Gianfranco Fini al Centro-Sud, vinse alla grande le elezioni svoltesi col nuovo sistema per un quarto proporzionale e tre quarti maggioritario, battezzato Mattarellum dal nome del relatore della legge alla Camera: l’attuale presidente della Repubblica. 

     Affondato in meno di sei mesi da un Bossi padano-scissionista fra le solenni promesse a caldo di Berlusconi e di Fini di non prendere più neppure un caffè col leader leghista, il centrodestra risorse come se nulla fosse accaduto nel 2001 in chiave dichiaratamente federalista: ma di un federalismo perfidamente introdotto in Costituzione come una supposta tossica prima delle elezioni dal centrosinistra. Che riuscì così a bucare  le  gomme al nuovo governo Berlusconi, ereditandole a sua volta senza riuscire a mettervi una pezza. Pertanto il Belpaese bipolare di cui tutti scrivevamo come di una conquista dopo le nequizie della Prima Repubblica bloccata e un po’ anche ladrona,  finì per diventare un pasticcio ingovernabile  anche con le migliori intenzioni

Poiché i guai non vengono mai da soli, Berlusconi aggiunse a quelli politici i suoi personalissimi e personali: i primi scambiati dai magistrati addirittura per induzione alla prostituzione minorile, sfociata in un’assoluzione definitiva ma ciò nonostante tradotta da più Procure in una serie di processi ancora aperti, nella follia che solo un sistema giudiziario come quello italiano può produrre, e per frode fiscale con tanto di decadenza dal Parlamento. I problemi personali sono quelli intervenuti quasi sistematicamente con i suoi alleati e gli stessi amici di partito per la quasi incapacità fisica che egli ha, spesso senza neppure rendersene conto, di prendere la politica per quello che è: una missione, certo, anche una missione, ma pur sempre un mestiere, una professione, un’arte -direbbe il suo amico Vittorio Sgarbi- dove non puoi fare sempre e solo quello che vuoi, neppure della roba che ti appartiene. 

Matteo Salvini a Vila Cernetto
Titolo di Libero di ieri

Ed ecco l’ultima edizione del centrodestra cui mi capita di assistere, dopo  quella non so se più disordinata o fantasiosa del centrodestra di Villa Grande, a Roma, che avrebbe dovuto portarlo al Quirinale ma alla fine si è tradotta nella conversione, all’ultimo momento, alla prevedibile conferma di Sergio Mattarella. Parlo ora della versione del centrodestra di Villa Cernetto, selezionato personalmente da Berlusconi per la sua festa di simil-matrimonio con l’onorevole Marta Fascina. Alla quale, senza parlare -per carità- dei suoi familiarissimi e personalissimi problemi di primo e secondo letto -ha ritenuto di dover o poter evitare solo un alleato: Matteo Salvini. Che ha incoronato davanti alla torta nuziale ed altro come l’”unico vero, grande leaeder” del Paese, se giornali e agenzie hanno riferito bene. 

Mario Draghi
Vladimiro Plutin

Tutti hanno pensato e fantasticato sulla sorpresa e sui pensierini di Giorgia Meloni. Io invece, che sono il solito ingenuo e forse l’unico amico di cui Berlusconi dispone, pur se ormai più di là che di qua, ho pensato alla leadership in assoluto negata così incautamente e ingiustamente a Mario Draghi. E in un momento come questo, in cui Berlusconi deve pregare Iddio che al carissimo Putin non spunti mai la tentazione di affacciarsi in qualche modo alle sue feste. 

Pubblicato sul Dubbio

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