Incredibile ma formidabile la roulette russa cui si è ridotto Putin

La testimonianza di Bernard-Henri Levy a favore di Zelensky su Repubblica

A leggere e rileggere su Repubblica di ieri quel mostro di bravura, di imprevedibilità, di anticonformismo nella testimonianza sul “guerriero per caso”, come ha chiamato l’amico e presidente ucraino Volodymir Zelensky, ho un pò vacillato. E mi sono chiesto se non avessi esagerato a pensare e a scrivere di lui come di un più giovane o meno anziano Beppe Grillo ucraino messosi a giocare con la politica sino a portare inconsapevolmente il suo paese alla guerra, e la carne della sua gente ai denti di un Dracula travestito da zar, come è già finito nelle caricature di piazza.

BHL su Zelensky e Grillo

Levy, che d’ora in poi per comodità chiamerò anch’io, come i suoi ammiratori, con l’acronimo BHL, pregandovi caldamente di non scambiarlo per la marca di un’auto, o di un fuoristrada, ha raccontato, fra l’altro, della forte protesta ricevuta dall’amico quella volta in cui egli osò paragonarlo, alla vigilia della sua elezione a presidente dell’Ucraina, a “quell’altro cabarettista fondatore del Movimento 5 Stelle in Italia”, cioè Beppe Grillo. Che l’anno prima aveva  mandato il suo movimento alle Camere facendogli rasentare la vittoria, conquistata invece cinque anni dopo, nel 2018, e producendo per giudizio quasi unanime degli esperti la legislatura più pazza del mondo. Che è stata raddrizzata in extremis, l’anno scorso, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella prima mandando a Palazzo Chigi uno come Mario Draghi e poi lasciandosi confermare al Quirinale per altri sette anni, non per l’uno o i due anni del predecessore Giorgio Napolitano, anche lui rieletto alla scadenza del primo mandato. 

      Ad un altro attore il buon Zelensky aveva invece accettato volentieri di essere paragonato, sapendo tutto di lui, non considerandolo affatto “quel commediante di film western di serie B” ritenuto invece dall’amico e avendolo persino imitato in teatro: l’americano Ronald Reagan, salito sino alla Casa Bianca.

BHL di Zelensky e Putin

      E Di Putin, “l’altro Vladimir” evocato con lui da BHL? Anche di quello Zelensky disse lì per lì di essere “sicuro che sarebbe riuscito a farlo ridere come tutti in Russia il giorno in cui si sarebbero trovati faccia a faccia”. Eppure dopo tanta spavalda sicurezza di attore, comico e ormai anche politico Zelensky “piegandosi sopra il tavolo e abbassando la voce” nel ristorante dove qualcuno avrebbe potuto sentirlo minacciandone già allora la vita, aggiunse: “C’è una cosa però: quell’uomo non ha sguardo. Ha degli occhi, ma non ha sguardo. O se ha uno sguardo è di ghiaccio, privo di qualsiasi espressione”.  

  Non se n’era accorto, e tanto meno se n’era chiesto il motivo o aveva tentato di darsene una spiegazione, neppure quell’intuitivo eccezionale, affascinatore senza rivali com’è stato a lungo ritenuto in Italia Silvio Berlusconi. Al quale, ritenendo di fargli un torto, all’inizio della carriera politica l’esigentissimo e diffidentissimo Eugenio Scalfari, avendolo provato già come concorrente editoriale, gli aveva dato dell’impresario”. Che quando è davvero tale non deve mai sbagliare -o sbagliare assai di rado- nel giudicare chi gli sta davanti. E con Putin penso che anche lui si sia convinto di avere sbagliato in regali, complimenti e altro. 

      Ma cerchiamo di non uscire di tema. E permettetemi di concludere che, pur con tutto il rispetto e l’ammirazione che merita BHL, resto convinto che Zelensky proprio per avere capito così bene quell’uomo senza sguardo, o con lo sguardo di ghiaccio, avrebbe dovuto muoversi con più cautela e non dargli pretesti. Per il resto naturalmente auguro la vittoria non a Putin, che ormai gioca al Cremlino la roulette russa, ma al “guerriero per caso”, come l’amico filosofo.ha felicemente definito il presidente ucraino. Non vorrei però che Grillo si montasse la testa.

I conti che non tornano fra le sponde dell’Atlantico sulla crisi ucraina

Paolo Mieli ieri sul Corriere della Sera

 Sia pure col pessimismo della ragione, avrebbe detto Antonio Gramsci, o dello storico di professione come riesce a rimanere anche quando scrive da giornalista, temo che Paolo Mieli sia stato facile profeta nel prevedere ieri sul Corriere della Sera che “verrà il momento in cui molti torneranno a domandarsi pubblicamente se vale la pena fare dei sacrifici per gli ucraini. I quali, a ben guardare, se la sono cercata. Si dirà che Zelensky e i suoi -ha scritto l’editorialista- sono responsabili dei torti subiti a causa della protervia con la quale, “sotto insegne naziste” (Putin), intendevano puntare dei missili contro Mosca e San Pietroburgo. Torneranno a sottolineare, quei molti, che l’impatto delle sanzioni è asimmetrico, nel senso che danneggia l’Italia più di quanto nuoccia agli Stat Unti. E concluderanno che è giunta l’ora di prestar ascolto alle “ragioni dei  russi”. Cose già viste e sentite in passato, con altri dittatori, altre asimmetrie e altre “ragioni” dei prepotenti”. 

           Il guaio è che proprio il mio carissimo amico Paolo, nell’onestà del racconto a cui da storico non ha potuto sottrarsi, ha indicato un momento di questa lunga crisi ucraina in cui i conti non sono più tornati al giornalista. O all’osservatore, come preferite. Fu quando, nel 2009, appena eletto presidente degli Stati Uniti, il buon Obama si mise a studiare “la pratica” della possibile adesione della Georgia e dell’Ucraina alla Nato, di cui ora fanno parte ben 15 delle ex Repubbliche sovietiche, e ne andò poi a parlare con Putin direttamente senza litigare, anzi fra fiori e sorrisi, nella reciproca consapevolezza che le cose potessero andare avanti senza scambiarsi addosso missili e persino bombe atomiche, a sentire gli ultimi segnali giunti da Mosca. 

La rivoluzione arancione a Kiev

  Purtroppo dopo quel 2009 di fiori e sorrisi esplose a Kiev nel 2014 la rivoluzione arancione, come l’anno prima era scoppiata in Italia la mezza rivoluzione gialla dei grillini, con il loro sbarco in Parlamento, il tentativo di dettare la formazione del governo, anche se non avevano conquistato ancora la maggioranza relativa, e la pretesa di eleggere in piazza, davanti alla Camera, la buonanima di Stefano Rodotà a presidente della Repubblica, succedendo allo scaduto Giorgio Napolitano. 

    Qualcuno a Kiev, collega professionale di Beppe Grillo, il signor Volododymir Zelensky, apprezzato sullo schermo nei panni di un presidente onesto come un cristallo, lo seguì superandolo, cioè facendosi eleggere nel 2019 presidente dell’Ucraina. E maneggiò con l’imprudenza, la fantasia, la dabbenaggine e chissà cos’altro di un comico quella specie di bomba atomica che, nella realtà geopolitica del suo Paese, era diventata nel frattempo l’adesione alla Nato. E trasformò Putin, già strano e pericoloso di suo, in un Dracula insaziabile. 

      Ci sarà magari qualche esagerazione in questa rappresentazione dei fatti, ma di certo i comici in politica sembrano lì per lì baciati dalla fortuna, ma poi deludono: come Guglielmo Giannini proprio in Italia ai suoi tempi. 

Pubblicato sul Dubbio

       

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