Ben tornato a Giuliano Ferraradopo la pausa impostagli da un infarto superato come solo lui avrebbe potuto e voluto, con quell’ostinazione di vivere, combattere e pensare che lo contraddistingue. E di cui hanno fatto le spese in tanti, fra televisione e carta stampata, compreso il sottoscritto in un’occasione ormai lontana. Che fu da lui stesso sanata assai signorilmente, a dispetto della frequente irruenza, con una collaborazione al suo Foglio di cui serbo un buon ricordo, dopo l’esperienza della direzione del Giorno che era stata l’occasione del nostro scontro
Giuliano, col quale ho peraltro scoperto di avere condiviso, sia pure in anni diversi, avendo lui tredici anni meno di me, la frequentazione del liceo classico del Convitto Nazionale di Roma, ha ripreso a scrivere con la sua inconfondibile “firma” dell’elefantino rosso occupandosi della crisi internazionale che occupa le prime pagine dei giornali: tra le minacce di Putin di invadere l’Ucraina, anche a costo di danneggiarsi, e la solita debolezza dell’Europa “di nuovo in ballo sull’abisso”.
La precedenza data da Giuliano ai temi internazionali è stata forse dettata da motivi di sicurezza che né la moglie, né il fratello, né gli amici, né i medici hanno avuto bisogno -credo- di segnalargli o consigliargli. A rioccuparsi subito della politica interna italiana, dei partiti che l’affollano, dei leader, leaderini e comparse che vi salgono e ne scendono come da una giostra, peraltro all’indomani della mancata elezione di Mario Draghi al Quirinale, da lui fortemente sostenuta già dall’estate scorsa, Giulianone avrebbe rischiato di rimettere a troppo dura prova il suo cuore appena riparato a dovere. Ma, statene certi, questa coda di pausa, diciamo così, durerà poco. E guai a chi gli capiterà sotto.
Paolo Mieli ci aveva già provato una volta, e di recente, sul Corriere della Sera a denunciare l’indolenza dei partiti -ben più grave della confusione e delle tensioni che li attraversano un pò tutti- procurandosi ironie e critiche con l’idea che ormai potremmo fare a meno di votare, tanto scontato è poi il ricorso del presidente di turno della Repubblica a qualche tecnico più o meno illustre, o persino di passaggio, per improvvisare un governo purchessia.
L’editoriale del Corriere della Sera
Ora, dopo il siparietto non so se più divertente o nervoso di Mario Draghi indisponibile a restare a Palazzo Chigi nella prossima legislatura per concezione o promozione di chissà quali o quanti partiti perché è in grado di trovarsi un lavoro da solo, l’editorialista del più diffuso giornale italiano, e insieme storico giustamente apprezzato, è tornato sull’argomento. E ha infierito contro “le scarse ambizioni” delle forze politiche, tanto combattive al loro interno quanto, chi più e chi meno, refrattarie all’idea di misurarsi davvero nelle urne, con adeguate norme elettorali, per uscirne vincitrici o sconfitte, L’ideale per loro è chiudere le partite elettorali senza vincitori e quindi anche senza sconfitti, o tutti sconfitti, in modo da affollare il Parlamento di “minoranze”, come ha quasi rivendicato -anche se Meli non lo ha ricordato- il segretario del Pd Enrico Letta nelle scorse settimane contestando alla coalizione -sulla carta- del centrodestra di sentirsi maggioranza relativa e rivendicare il diritto di mandare per la prima volta un suo candidato al Quirinale per la successione a Mattarella.
L’analisi politica -e storica, ripeto- di Paolo Mieli dopo quasi trent’anni di seconda, terza e forse anche quarta Repubblica, tutte contrassegnate da leader più che da partiti, gli uni e gli altri precari ancor più delle apparenze, deve avere contribuito alle riflessioni del direttore dello stesso Corriere della Sera, Luciano Fontana, in risposta ad un lettore impressionato dalla profondità ormai della crisi del partito di maggioranza relativa di questa legislatura: il MoVimento 5 Stelle. Di cui non si sa neppure di quanti regolamenti disponga di fronte all’ordinanza del tribunale di Napoli che ne ha sospeso i vertici.
Il direttore Luciano Fontana sul Corriere della Sera
Alle “stagioni effimere” dei leader, chiamiamoli così, che si succedono e si confrontano Luciano Fontana ha opposto giustamente -ma temo solo retoricamente, visto il poco tempo a disposizione delle Camere per esaminare prima della loro scadenza le misure necessarie- l’urgenza di una “rifondazione delle forze politiche” basata sul “radicamento nel territorio, partecipazione e regole democratiche, selezione attenta delle classi dirigenti, finanziamenti trasparenti”. “Altrimenti è inutile lamentarsi che si debba sempre invocare un tecnico per salvare la baracca”, ha concluso il direttore del Corriere, ammesso e non concesso naturalmente che l’appena confermato presidente della Repubblica Mattarella riesca a trovarne dopo il disimpegno preannunciato, minacciato e quant’altro da Draghi.
L’unico scenario oggi immaginabile è quello proposto dallo stesso Corriere, quasi a corredo dell’editoriale di Mieli, con una illustrazione di Domenico Solinas di un governo composto da punti interrogativi travestiti, peraltro, tutti da uomini, senza uno straccio femminile.
Siamo stati appena autorizzati a non metterci anche all’aperto la mascherina anti-Covid e rischiamo, secondo titoli e vignette di un pò tutti i giornali, di doverne usare una ancora pia ingombrante contro i gas di una guerra alle porte, in cui saremmo coinvolti con soldati e aerei, insieme con gli alleati della Nato, per non lasciare soli russi e ucraini a uccidersi fra loro.
Titolo di Repubblica
Titolo della Stampa
Per fortuna c’è qualcuno che butta acqua sul fuoco, diciamo così: qualcuno che tiene i nervi a posto e ci avverte che, pur non essendoci accordo fra le parti direttamente o indirettamente interessate a queste “prove di guerra”, come le ha chiamate Repubblica, o a questa “pace appesa a un filo”, come ha preferito titolare La Stampa sperando ch’esso sia tanto forte da non spezzarsi al primo che ci si appenda, “per ora” c’è “solo tanta isteria”. Che in quanto tale è da fondo pagina, con un richiamo quasi di ripiego, giusto per non esagerare troppo ignorando del tutto la questione.
Titolo del Fatto Quotidiano
Questo giornale ottimista, con i nervi a prova di fuoco, è quello che pure si considera quasi l’unico d’opposizione, con qualche aiutino da destra alternato fra Libero, La Verità e persino il Giornale della famiglia Berlusconi. E’ naturalmente il solito Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, la cui sofferenza cresce quanto più dura la partecipazione dei pur amati o preferiti grillini, o almeno la parte che si sente rappresentata da Giuseppe Conte, al governo di Mario Draghi. Dove i loro ministri siedono senza neppure le dovute misure igieniche di precauzione accanto a quelli della Lega di Matteo Salvini, di Forza Italia del Cavaliere e persino di Italia Viva di Matteo Renzi d’Arabia, altro che di Scandicci o Rignano sull’Arno.
E’ una ben altra guerra che avverte il giornale di Travaglio, stile più Lotta Continua che l’Unità di una volta, i primi ad essere sfogliati da noi cronisti politici di una cinquantina d’anni fa per capire l’aria che tirava dietro il solito ottimismo o le solite distrazioni della stampa più o meno governativa. Quella che Travaglio teme di più, o alla quale smania maggiormente di partecipare per darne di santa ragione agli avversari se proprio dovesse scoppiare contro le sue attese, è la campagna referendaria di primavera sui temi soprattutto della giustizia promossi da quei diavoli di leghisti e radicali: una campagna ancora più insidiosa, sia per il suo svolgimento sia per i suoi risultati, considerando la coincidenza col percorso parlamentare delle norme di modifica predisposte all’unanimità dal Consiglio dei Ministri ad un disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario che il governo in carica ha in qualche modo ereditato da quello precedente ma non condiviso, vista la mole degli emendamenti che ha approntato.
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
L’intimazione di Travaglio al presidente della Corte Costituzionale
Le fiamme che Travaglio ha visto alzarsi davvero minacciose sono quelle appiccate alla Costituzione -in un fotomontaggio- dal presidente in persona della Consulta Giuliano Amato fra i soddisfatti, anzi soddisfattissimi Berlusconi, Salvini e Renzi. “Amato deve tacere”, ha intimato Travaglio dopo che il reprobo- imperdonabilmente sottosegretario di Bettino Craxi a Palazzo Chigi negli anni Ottanta e poi sopravvissuto alla fine politica e anche fisica del leader socialista, sino a sfiorare almeno due volte l’arrivo al Quirinale come presidente della Repubblica- ha anticipato il suo parere almeno personale favorevole all’ammissibilità dei referendum arrivati all’esame ultimo, inappellabile e imminente, quasi ad horas, della Corte Costituzionale. Ah, il destino cinico e baro di Travaglio e di quei tanti magistrati che temono di vedersi tagliare direttamente dagli elettori i privilegi castali ottenuti dai costituenti e ancor più guadagnatisi successivamente con pratiche e leggi compiacenti.
Più che per la parziale ma ugualmente importante riforma della giustizia finalmente sbloccata per affidarla al percorso parlamentare nel tratto ormai conclusivo della legislatura, la seduta del Consiglio dei Ministri e la conferenza stampa che ne è seguita ieri rimarranno nella memoria dei cronisti politici per lo sbotto, chiamiamolo così, contro i partiti da parte di Mario Draghi quando si è sentito coinvolto da una domanda nel gioco a piattello che da quelle parti si sta cercando di fare su di lui. E questa volta per trascinarlo non nella prossima e troppo lontana edizione della corsa al Quirinale, com’è accaduto prima della conferma di Sergio Mattarella, ma nella campagna elettorale ormai già cominciata, immaginandolo “federatore”, punto di riferimento e quant’altro della fantomatica area di centro. “Il premier nervoso”, come lo ha definito sul Fatto Quotidianoun insolitamente moderato Marco Travaglio, abituato a ben altri aggettivi nelle polemiche, ha detto che a tempo debito un altro lavoro saprà cercarselo “da solo”, con tutto il credito di cui dispone nel mondo, ancor più che in Italia.
Titolo della Stampa
Ancora dalla Stampa
La risposta è apparsa “uno schiaffo ai partiti” nel titolo di apertura della Stampa, o una “vendetta” nel commento dell’ex direttore Marcello Sorgi, o un calcio in quel posto ben assestato secondo altri. Eppure meritato secondo testate e articolisti che pure non sono stati teneri col presidente del Consiglio, secondo loro espostosi troppo sulla strada del Colle con quel “nonno a disposizione delle istituzioni” attribuitosi nella conferenza stampa di fine anno scorso, anticipata forse proprio per questo al 22 dicembre.
Fu un’espressione -permettetemi di aggiungere- troppo franca o spontanea, come preferite, per l’ipocrisia abituale della politica. Che Draghi si sarebbe probabilmente risparmiata se non fosse stato indotto in errore pure lui dalla troppo insistita, direi ostentata indisponibilità alla conferma da parte di Sergio Mattarella. Anche al quale si potrebbe maliziosamente immaginare rivolta la risposta di Draghi sulla capacità di trovarsi da solo un lavoro se non fosse stato lo stesso Draghi, alla fine, a prodigarsi personalmente per un ripensamento del presidente della Repubblica sulla rielezione, non a caso seguita dal rifiuto opposto dal presidente confermato alle dimissioni non necessariamente di esclusivo rito del governo in carica, come dimostra qualche precedente.
L’editoriale del Fatto Quotidiano
La vignetta del Foglio
Nella rassegna delle vignette guadagnatesi da Draghi col “nervosismo” attribuitogli da Travaglio, ora impegnato a fustigare il nuovo presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato per la sua disponibilità all’ammissione dei referendum sulla giustizia osteggiati al solito dall’associazione dei magistrati, si distingue per la sua discorsività quella di Makkox. Che sul Foglio ha cominciato “l’anno del Dragone” facendo dire al presidente del Consiglio: “Cosa farò nel 2028? Cazzi miei! Non m’hanno voluto presidente per 7 anni? Va beeene….Intanto si scordassero di fare campagna elettorale coi bonus facciata e le pergole sui terrazzi…Come dice? Rancore? Ma quale rancore, ancora manco ho iniziato col rancore…”. E’ naturalmente del tutto casuale o voluto, come preferite, ogni riferimento ai bonus facciate e alle pergole sui terrazzi sostenuti con particolare calore dal pur sospeso presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte. Che ha condiviso con Silvio Berlusconi e Matteo Salvini la campagna contro l’elezione di Draghi al Quirinale, pur avendo dovuto alla fine sorbire anche lui la conferma di Mattarella.
Con tanto ritardo rispetto alle aspettative da cogliermi di sorpresa, ve lo giuro, i politici che resistono, reagiscono e quant’altro alle iniziative giudiziarie che li investono, di solito mentre sono più esposti sul loro terreno professionale, diciamo così, sono stati paragonati addirittura a quei terroristi che contestavano allo Stato borghese, capitalistico e altre scemenze simili il diritto di processarli. E qualcuno ammazzava anche per strada che si ostinava a fare il suo mestiere. O minacciava di morte i giudici popolari, anch’essi borghesi, capitalisti e scemenze simili, selezionati con incolpevole sorteggio.
Dalla prima pagina della Stampa di ieri
Sentite che cosa ha appena sostenuto sulla Stampa non un Camillo Davigo particolarmente polemico in qualcuno dei salotti televisivi più o meno di casa ma un magistrato molto più accorto di lui nell’uso delle parole, iperboli e simili come Gian Carlo Caselli: “In Italia dai primi anni Novanta del secolo scorso si riscontra una pessima anomala. l’ostilità verso la giurisdizione, il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”; una sorta di impropria edizione del cosiddetto processo di “rottura”, utilizzato però da uomini dello Stato, anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi”.
Con quel riferimento esplicito agli “anni di piombo” non credo di avere esagerato nel vedere tra le righe e le parole di Caselli una certa affinità, ripeto, fra i terroristi che rifiutavano i processi e i politici che dagli anni Novanta in poi -o gli inquisiti “celebri”, come li chiama l’ex capo di celebri Procure italiane- contestano i magistrati che si occupano di loro e le iniziative che assumono nell’esercizio delle proprie funzioni. E mi perdonerà il buon Caselli, col quale ho avuto già altre occasioni di polemiche, se mi permetto di dissentire ancora una volta da lui. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, questo riferimento agli anni di piombo e ai terroristi mi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Qui si spara solo -se si spara- con parole e carte bollate, come ha appena fatto Matteo Renzi contestando i magistrati che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio, insieme col cosiddetto “cerchio magico” degli anni altrettanto magici della sua fulminante carriera politica, per finanziamento illegale dei partiti e tutti gli altri reati che di solito -dai tempi lontani di “Mani pulite”- si porta appresso una simile imputazione.
Vignetta del Corriere della Sera di ieri
Sono il primo a riconoscere, per carità, che Renzi fa poco, anzi assai poco, per risultare simpatico, persino a uno come me che votò con molta convinzione nel 2016 la “sua” riforma costituzionale, anche dopo che lui l’aveva imprudentemente personalizzata a tal punto da farne un plebiscito su di lui perdendolo. Ma vederlo direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, a ragione o a torto, come uno di quelli che dietro le sbarre gridavano contro la Corte di turno che doveva giudicarli, mi fa mettere le mani fra i capelli che fortunatamente mi sono rimasti.
Anche a costo di sembrarvi un pò lombrosiano, vi confesso che più guardo le foto di Beppe Grillo sceso a Roma per la sua missione d’ordine, diciamo così, nel MoVimento 5 Stelle decapitato da un’ordinanza sospensiva dei vertici emessa dal tribunale di Napoli; più ne vedo le immagini diurne e serali in quell’albergo con vista su Villa Borghese anzichè sui ruderi forse troppo sfigati e sfiganti del Foro e dintorni delle missioni precedenti, più mi chiedo com’è potuto accadere alla politica italiana di finire appesa a un uomo così e a tanti altri che lo inseguono, lo cercano, si fanno da lui convocare e sconvocare, assegnare ruoli e farseli togliere, sognare, ridere e piangere ai suoi segnali, divertiti o rapiti, come preferite, come gli spettatori dei suoi spettacoli comici, prima che, già rallentati dagli impegni politici, la pandemia non li fermasse del tutto.
Titolo di Post Internazionale
Titolo del manifesto
Persino Giulio Gambino sul suo Post Internazionale leggendo le cronache della nuova missione a Roma “in cerca di scappatoie”, secondo l’urticante titolo del manifesto, ha scritto che “Grillo è l’uomo sbagliato per il Movimento giusto”. E ha pensato di salvare Giuseppe Conte definendolo “l’uomo giusto per il Movimento sbagliato”. Stiamo freschi pensando all’anno e poco più che deve ancora trascorrere per la fine di una legislatura in cui una forza politica di questo genere misterioso e paradossale svolge, per i numeri di cui ancora dispone alla Camera e al Senato, un ruolo dichiaratamente e orgogliosamente “centrale”, per quanto mitigato per fortuna da un uomo come Mario Draghi spedito l’anno scorso, proprio di questi tempi, in tutta fretta a Palazzo Chigi dal preoccupatissimo presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che si è guadagnato proprio per questo -credo- la conferma al Quirinale.
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano
Non solo Giulio Gambino ma anche un altro estimatore di Conte come Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano mi sembra sempre più spiazzato da ciò che accade sotto le cinque stelle, e sempre più deluso -in particolare- da Grillo. Al quale oggi dà, nel suo editoriale, le maggiori se non uniche colpe della confusione per niente foriera, com’era quella invece contemplata da Mao ai suoi tempi, di buoni sviluppi della situazione sulla terra. In particolare, Grillo si sarebbe rovinato, e rovinato i suoi amici, fidandosi del Pd in assoluto, sino ad allearvisi. Eppure -ha ricordato il quasi storico- “se il Pd fosse veramente il partito democratico, il Movimento 5 Stelle non esisterebbe”. Esso infatti “nacque nel 2009 -ha inferito Travaglio- perché il Pd fu così democratico da stracciare la tessera a Grillo che minacciava di candidarsi alle primarie col suo programma partecipato in Rete”, con la maiuscola. Seguì infatti il “vaffanculo” gridato in piazza a Bologna da Grillo in persona prima di andare da un notaio coll’amico Gianroberto Casaleggio e fondare il movimento col quale avrebbe dovuto denudare il Paese sotto tutti i punti di vista, o rivoltarlo come un calzino davvero, non come si erano inutilmente proposti nel 1992 magistrati e tifosi di “Mani pulite”.
Ancora Travaglio sul Fatto Quotidiano
Il Pd “nuovo vecchio del giovane vecchio Letta” — ha a suo modo diagnosticato Travaglio pensando forse al “giovane” Enrico e allo zio “vecchio” Gianni, l’uomo presumibilmente ancora d fiducia di Silvio Berlusconi, nonostante le turbolenze colte nei loro rapporti da qualche giornale durante l’ultima edizione della corsa al Quirinale- “è l’opposto di quello di Zingaretti”, che aveva visto e indicato in Conte “il punto di riferimento dei progressisti” italiani, grillini compresi. “Più i 5Stelle se ne terranno alla larga, meglio sarà per loro e per tutti”, ha concluso Travaglio sognando evidentemente un epilogo in fiamme di questa legislatura.
Convinto forse di fare un altro scoop dei suoi, sulla soglia ormai dei 79 anni portati con una certa spavalderia almeno verbale, fonte inesauribile degli spettacoli di Maurizio Crozza, il solerteVittorio Feltri ha anticipato di sette giorni su Libero la celebrazione del trentesimo anniversario dell’arresto del “povero” Mario Chiesa. Sì, “povero”, perché -ha ammesso il suo ex fustigatore- raccoglieva tangenti per il suo partito, il Psi, come facevano tutti per le loro formazioni politiche concorrenti di un Pci che si finanziava alla grande con i dollari rossi dell’allora Unione Sovietica, per inciso avversaria politica e militare dell’Italia partecipe della Nato.
Nel richiamo di prima pagina del suo articolo dichiaratamente di “scuse” per il forte contributo dato alle manipolazioni giornalistiche dell’inchiesta giudiziaria, già manipolata di suo col nome di “Mani pulite”, c’è una fotina di Antonio Di Pietro che potrebbe far pensare ad un’intervista con quello che fu il magistrato d’accusa allora più famoso.
No, non è un’intervista all’ormai Cincinnato di “Mani pulite”, tanto misteriosamente quanto improvvisamente ritiratosi dalla magistratura per lasciarsi poi tentare dalla politica e ritirarsi anche da questa, metaforicamente scoppiato come un palloncino per lo spillo infilatovi da una giornalista in televisione. Che raccontò del metodo di finanziamento e di gestione del partito un pò troppo enfaticamente chiamato “Italia dei valori”: bollati come le carte che hanno appena travolto, con tanto di sospensione giudiziaria, il vertice della formazione in qualche modo erede del partito di Di Pietro per la foga manettara, diciamo così, in cui nacque nel 2009. E’ naturalmente il MoVimento 5 Stelle.
Vittorio Fetri sul Libero
Questa volta Feltri non ha replicato. A intervistare nuovamente Di Pietro non ci ha neppure pensato. Gli è bastato richiamarsi alla prima intervista strappatagli in quegli anni falsamente magici di “Mani pulite”, quando ottenne una quantità tale di notizie sparabili come cannonate in prima pagina da moltiplicare nelle edicole le copie del giornale –l’Indipendente– che aveva ereditato sul punto di fallire.
Vittorio Feltri su Libero
Trent’anni dopo l’epico decollo di “Mani pulite”, come già riconosciuto dall’allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli e dal superstite Gherardo Colombo, per non parlare di Francesco Greco e Camillo Davigo, la corruzione sopravvive anche più sfacciatamente di prima. Per cui Feltri, di fronte all’attuale “classe politica di infimo livello”, ha voluto scusarsi coi lettori “se ho ecceduto nel menare le mani” contro l’altra, ma -ha aggiunto- “ho qualche attenuante: mi prudevano”. Le sue quindi sono scuse sino ad un certo punto. Infatti in un altro passaggio del suo articolo si legge: “Sono pentito? Solo un pò. La mia indole di direttore di successo era troppo forte”.
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano
Ora Feltri può godersi, si fa per dire, i frutti della sua opera vedendo i partiti più o meno gestiti direttamente dai magistrati, penali o civili secondo le circostanze, con indagini, processi, ordinanze e sentenze le cui cronache si mescolano a quelle politiche in un minestrone maleodorante, a dir poco. E con operatori dell’informazione -chiamiamoli così- ancora più disinvolti dell’allora giovane Feltri. Che magari fra trent’anni si scuseranno anche loro alla sua maniera, pentendosi “solo un pò”. Per ora Giuseppe Conte si tenga pure la sua sospensione giudiziaria da presidente delle 5 Stelle, il garante Beppe Grillo la sua crociera d’influenze con l’amico armatore Vincenzo Onorato e Matteo Renzi -il più fortunato in fondo- il suo riflesso nello specchio di Silvio Berlusconi fotomontato da Marco Travaglio, il successore del Feltri dei primi anni Novanta.
E’ imperdibile quella vignetta di copertina del Foglio di lunedì su Giorgia Meloni un po’ extraterrestre: nello spazio, altro che “sugli spalti” come l’ha immaginata criticamente la ministra forzista Mariastella Gelmini parlandone al Corriere della Sera. E’ una leader ormai da incontri di terzo tipo nel panorama politico italiano, per lei già difficile prima della corsa al Quirinale e ancora di più adesso che il buon Sergio Mattarella è stato confermato con i voti della maggioranza di governo. Dalla quale i fratelli d’Italia erano orgogliosamente l’unica componente di centrodestra estranea, e ancor più lo saranno nella parte residua della legislatura, per quanti sforzi vorranno fare per sganciarsi pure loro i grillini del sospeso Giuseppe Conte, da sinistra, e i leghisti di Matteo Salvini da destra.
Prima, a botta calda, “inorridita” dalla disinvoltura pro-Mattarella bis di Salvini e di Silvio Berlusconi, in ordine di consistenza sondaggistica, la Meloni si era addirittura proposta di “rifondare” il centrodestra. Poi ha alzato ancor più la posta predisponendosi -sovranista in tutto- ad affrontare da sola le prossime elezioni politiche. Dalle quali evidentemente ritiene di poter fare uscire il proprio partito come il più votato in assoluto, superando sia ciascuno degli ex alleati, sia il Pd di Enrico Letta, figuriamoci poi i grillini già destinati a un dimezzamento che potrebbe aggravarsi col regolamento dei conti in corso fra Luigi Di Maio, scambiato dai più volenterosi per un redivivo Giulio Andreotti, e Giuseppe Conte, scambiatosi da solo e da più tempo per un redivivo Aldo Moro.
Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta fra chi, dei tre, cioè la Meloni, Di Maio e Conte, si sia maggiormente sopravvalutato politicamente, battendo comunque tutti insieme Beppe Grillo. Che di recente si è addirittura travestito da Gesù sul suo blog personale e poi ha scommesso ancora, nonostante lo sconquasso ora anche giudiziario, di portare il MoVimento 5 Stelle dagli ardori “giovanili” alla “maturità”.
Vignetta di Vairo sul Fatto Quotidiano
Pur nell’imbarazzo della scelta -ripeto- fra chi si sia più gonfiato nel panorama politico del Mattarella bis, e del Draghi bloccato a Palazzo Chigi o perché troppo bravo, e quindi insostituibile come presidente del Consiglio, o perché troppo ambizioso e pericoloso come aspirante al Quirinale, credo che l’area politica maggiormente e più sorprendentemente devastata dagli sviluppi della situazione, sia quella di centrodestra. Che, pur ancora unito in tante amministrazioni locali e apparentemente più solido rispetto al marasma grillino, paga l’approssimazione con la quale è stata gestita, ma forse fu persino fondata 28 anni fa da Silvio Berlusconi con quella spericolata decisione, pur premiata dagli elettori per la debolezza ancora più grande dei suoi avversari, di allearsi al nord con la Lega allora separatista di Umberto Bossi e al centro-sud con l’ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini, sdoganato in un Autogrill con un inciso riguardante una battaglia in corso per il Campidoglio. Non fu il massimo della chiarezza, diciamo così, anche se apparve un capolavoro di astuzia di fronte all’armata di Brancaleone allestita da Achille Occhetto addirittura come una “gioiosa macchina da guerra”.
L’improvvisazione lì per lì premiò il Cavaliere, nel clima di sbandamento creato dal proposito dei magistrati di “rivoltare il Paese come un calzino”, preferendo la maggioranza degli italiani affidare una simile impresa ad un imprenditore di successo, ma poi tutto andò via via aggrovigliandosi perdendo pezzi per strada.
Smontata e rimontata più volte, la coalizione di centrodestra è stata danneggiata anche dalla decisione presa da Berlusconi di preferire alle primarie per il candidato a Palazzo Chigi, e quindi per la leadership, il peso elettorale di ciascun partito immaginando evidentemente la insuperabilità della sua Forza Italia. Che è stata invece sorpassata dalla Lega e più ancora dalla destra post-finiana e a suo modo populista della Meloni: di un populismo a volte concorrente di quello grillino delle origini.
In attesa di qualche altra incolpevole spigola da consumare insieme sulla spiaggia di Marina di Bibbona pur fuori stagione, con tutti quei venti che ti spalmano di sabbia e spazzano via anche i fotografi convocati per riprendere l’ennesima riconciliazione, Beppe Grillo ha “zittito” Giuseppe Conte nella titolazione di qualche giornale. E lo ha fermato con un post sulla strada della reazione all’ordinanza del tribunale di Napoli che lo ha sospeso dalla presidenza del MoVimento 5 Stelle, al pari dei vice e degli altri graduati nominati dopo l’elezione estiva pur contestata con le carte bollate.
Giuseppe Conte
Più che zittito, visto l’obbligo della mascherina ancora perdurante anche all’aperto per la difesa dal Covid, direi che Grillo ha imbavagliato ancora di più Conte aggiungendo la sua, da garante supremo o elevato della “comunità”, come lo stesso Conte chiama la formazione pentastellata, alla sospensione disposta dal magistrato di una pur controversa competenza territoriale, secondo lo studio pseudo-legale del Fatto Quotidiano. Che nelle ore dispari della giornata è anche uno studio di investigazione pseudo-giudiziaria. Dove ormai stanno perdendo persino il conto dei “Conticidi” – scusate il bisticcio delle parole- avvenuti in meno di un anno.
Il primo Conticidio risale a quella sera in cui Sergio Mattarella – spazientito al Quirinale dagli inutili tentativi dell’allora presidente del Consiglio prima di non dimettersi e poi di cercare una maggioranza non più condizionata dagli umori di Matteo Renzi ma neppure macchiata da Matteo Salvini o da Silvio Berlusconi, o da entrambi- sbottò chiamando al telefono Mario Draghi e spedendolo a Palazzo Chigi come un mezzo commissario. Che le Camere, spiazzate ma anche sollevate dallo scampato pericolo delle elezioni anticipate, promossero con una larga fiducia a commissario intero.
Dall’editoriale di Marco Travaglio
Il secondo Conticidio, questa volta denunciato solo sul giornale di Marco Travaglio, senza un altro libro più o meno giallo da stampare in tutta fretta, sarebbe avvenuto col tradimento di una compagnia così eterogenea come quella di Enrico Letta, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Luigi Di Maio, quest’ultimo due volte infedele, nella gestione della candidatura dell’ambasciatrice Elisabetta Belloni, regina degli 007, alla Presidenza della Repubblica. Da allora Travaglio, come ha scritto di persona nell’editoriale odierno del suo Fatto Quotidiano, si sente prigioniero di un “museo delle cere”, con gli ultraottantenni Sergio Mattarella e Giuliano Amato rispettivamente al Quirinale e alla presidenza della Corte Costituzionale, e il poco meno anziano Draghi a Palazzo Chigi: tutti, peraltro, maledettamente maschi in una Repubblica che, per come si chiama, dovrebbe essere invece femmina.
Titolo della Stampa
Fotomontaggio del Fatto
Il terzo Conticidio sarebbe quello appena consumato dal non più divertente e geniale Beppe Grillo stoppando con un tiro a segno, proposto con tanto di fotomontaggio sul giornale così familiare per il popolo pentastellato, il piano improvvisato dal presidente sospeso del MoVimento di fare buon viso a cattivo gioco. Anzi, di trasformare il cattivo gioco del tribunale di Napoli in un affare facendosi rieleggere rapidamente, con una platea più larga di iscritti, anche per dimostrare la sua forza a quell’indisciplinato, ingrato e non so cos’altro di Luigi Di Maio, partito in quarta contro di lui dopo la conferma di Mattarella al Quirinale. Ora invece, vedendo Grillo tornato pienamente al comando per l’infortunio di Conte anche come avvocato, il giovane e ribelle ministro degli Esteri avrebbe motivo non dico di cantare vittoria, ma almeno di salutare gli amici con ritrovata allegria.
La “causa persa” impietosamente rinfacciata dal manifesto a Giuseppe Conte, sospeso con tutto il vertice del MoVimento 5 Stelle allestito dopo la sua elezione digitale a presidente nella scorsa estate, pur in pendenza di un ricorso di tre iscritti accolto con insolita tempestività dal tribunale civile di Napoli, è un brutto incidente per uno che, come l’ex presidente del Consiglio, è un avvocato civilista, oltre che professore di diritto, prestato alla politica.
Titolo del Riformista
Titolo del Dubbio
Il tribunale partenopeo sarà pure “incompetente territorialmente”, come lo ha subito liquidato il non avvocato né giudice Marco Travaglio, col quale una volta tanto Piero Sansonetti si è trovato d’accordo definendo “impiccione” sul suo Riformista il magistrato che se n’è occupato, ma per ammissione dello stesso Travaglio sul suo Fatto Quotidiano avrebbe commesso un “nuovo Conticidio”. Che stavolta è giudiziario, dopo quello politico compiuto l’anno scorso da Sergio Mattarella e complici con la formazione del governo di Mario Draghi: l’uno e l’altro ancora felicemente in carica, rispettivamente, per rielezione al Quirinale e immediato rifiuto delle dimissioni di cortesia e di rito presentate nell’occasione dal presidente del Consiglio.
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Quel “nuovo Conticidio”, accompagnato per fortuna con un fotomontaggio più festoso che luttuoso dell’interessato sommerso di carte bollate come di coriandoli in Carnevale, contraddice i “necrologi prematuri” che l’estimatore dell’ex presidente del Consiglio contesta ai suoi avversari. Se lui è il primo a scrivere e a parlare di omicidio, non si capisce con quale logica possa lamentarsi dei necrologi che hanno accompagnato l’evento. Come e ancor più di Lazzaro di evangelica memoria, Conte tornerà magari a risorgere a breve almeno come presidente del suo MoVimento, rimanendo dietro la pietra tombale come presidente del Consiglio, ma questa storia della figuraccia come avvocato gli rimarrà addosso. Diavolo di un uomo, assistito peraltro nell’impresa da fior di colleghi, se non ricordo male le cronache della cosiddetta rifondazione del MoVimento affidatagli, revocatagli e restituita gli nel giro di qualche settimana dall’Elevato”, anzi elevatissimo, Beppe Grillo davanti ad una incolpevole spigola sulla spiaggia di Marina di Bibbona, Conte ritenne irrilevante che dalla procedura elettorale della sua scalata fossero esclusi più di 81 mila iscritti troppo freschi di tesseramento, diciamo così. Che erano e sono più dei 69 mila corsi al computer a incoronare il presidente, capo, leader e quant’altro.
Vignetta del Corriere della Sera su Conte e Di Maio
Ma chi mai -mi chiedo- si affiderà ad un simile avvocato per difendersi o per promuovere una causa contro qualcuno? Ormai non gli resta altro destino che la politica, con tutti i suoi inconvenienti, le sue incertezze, le sue pugnalate in entrata e in uscita, per giunta alla guida -che sicuramente, per carità, gli sarà confermata fra qualche settimana nelle nuove votazioni derivanti dalla decisione del tribunale napoletano- di un movimento non proprio in buona salute. Che è precipitato in quattro anni dal 33 e rotti per cento dei voti alla metà dei sondaggi, ma anche delle prove elettorali intermedie alle quali si è nel frattempo misurato. E con una scissione sempre incombente, l’ultima delle quali potrebbe essere promossa persino da quella specie di reincarnazione di Giulio Andreotti che gli ottimisti attribuiscono a Luigi Di Maio, succeduto al “divo” democristiano nel più prestigioso dei Ministeri guidati dalla Buonanima dal 1983 al 1989: quello degli Esteri nei governi di Bettino Craxi, di Amintore Fanfani, di Giovanni Goria e di Ciriaco De Mita.