Scenata di “gelosia” di Marco Travaglio per Giuseppe Conte contro Franco Bernabè

Ero certo, anzi certissimo, che al Fatto Quotidiano non avrebbero perdonato a Franco Bernabè la partecipazione di giovedì scorso alla trasmissione di Lilli Gruber su la 7, per quanto in quel salotto televisivo il direttore dello stesso Fatto, Marco Travaglio, e taluni dei suoi collaboratori siano praticamente di casa, e trattati di solito con i guanti. Che invece la conduttrice dismette spesso con altri ospiti che non le fanno la cortesia di assecondarla nelle risposte.

Titolo del Fatto Quotidiano

Puntualmente è arrivato oggi non un corsivetto, o “la cattiveria” di giornata, o una vignetta, o il fotomontaggio più o meno di rito -non mancando certamente materiale d’archivio su cui lavorare contro un manager così noto, “ex amministratore di tutto”, come lo ha ironicamente definito Travaglio-  ma un editoriale vero e proprio. Il cui titolo parla da solo: “Bernabè perepè”.

Con mia grande sorpresa, tuttavia, conoscendo bene l’insofferenza verbale e mimica dimostrata da Travaglio ogni qualvolta gli capita di vedere e sentire uno che non parla male dell’arcinemico Silvio Berlusconi, o addirittura ne parla bene, il direttore del Fatto Quotidiano non se l’è presa per il riconoscimento reso da Bernabè all’ex presidente del Consiglio di non avere mai cercato di interferire in alcun modo nel suo lavoro alla guida di importantissime aziende e gruppi.

Editoriale del Fatto Quotidiano

No. Questa volta Travaglio non è riuscito a digerire il fatto, minuscolo, che Bernabè abbia elogiato come più non si poteva il presidente del Consiglio in carica Mario Draghi, senza alcun imbarazzo per essere stato da lui appena nominato presidente delle Acciaierie d’Italia, senza mai neppure nominare, e tanto meno riconoscere qualche merito a chi lo ha preceduto a Palazzo Chigi. E ne è stato così barbaramente, incivilmente, ingiustamente, ignobilmente allontanato da meritarsi quel volumetto dello stesso Travaglio dal titolo di un giallo come “Conticidio”. Sto scrivendo naturalmente di Giuseppe Conte, non una ma due volte capo del governo nella storia recentissima della Repubblica italiana, uscito da Palazzo Chigi ancora fresco di energie e già dichiaratamente sfinito, o quasi, dalla fatica immane -lo riconosco anch’io- di presiedere il Movimento 5 Stelle sotto la vigilanza -pardon, la “garanzia”- di Beppe Grillo. Che dopo averlo designato a quella carica lo bocciò clamorosamente e pubblicamente come incapace e poi lo riabilitò facendogli pagare, come ogni buon genovese, il pranzo della riconciliazione, o del presunto chiarimento, in una trattoria sulla sabbia toscana di Marina di Bibbona. Dove di casa, intesa in tutti i sensi, anche come villa con tanto di stanze, servizi, cancello e utenze per la residenza estiva, non era però il pugliese Conte, ma il ligure Grillo.

Più che un attacco a Bernabè, peraltro accusato da qualche critico sino a qualche mese fa di essere particolarmente attento anche alla novità politica costituita dai grillini, al netto delle loro stravaganze e delle loro aggressioni verbali per frenare le quali si è dovuto mettere mano anche al regolamento, che ora vieta l’uso di parole e immagini volente; più che un attacco a Bernabè, dicevo, quella di Travaglio mi è sembrata una specie di scenata di gelosia, o nostalgia. Di cui Conte sarà rimasto, si spera, commosso.  

Ripreso da http://www.startmag.it   

La fuga di Silvio Berlusconi dalla vetrata dei matti

Titolo del Dubbio
La lettera di Berlusconi al tribunale di Milano

Il manicomio, per quanto metaforico, al quale Silvio Berlusconi si è sentito destinato da quell’”ampia e illimitata perizia psichiatrica”, come lui l’ha definita, disposta dal tribunale di Milano che lo sta processando dal 2018 per “induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria”, si è dissolto solo formalmente con la sua orgogliosa rinuncia, appena comunicata al presidente della settima sezione, a chiedere per ragioni di salute altri rinvii di udienze nel prosieguo del processo. Che pertanto continuerà in sua assenza, non so se concludendosi rapidamente, e incrociando chissà quali scadenze politiche e istituzionali per la solita, presunta casualità, con un’assoluzione o una condanna, pessimisticamente più prevista dall’interessato. Secondo il quale proprio la disposizione di quell’ampia e illimitata perizia psichiatrica, anziché di una semplice perizia “medico-legale e cardiologica”, come ha scritto Berlusconi nella lettera, proverebbe “un evidente pregiudizio” nei suoi confronti, e quindi una predisposizione a condannarlo.  

Il manicomio, sempre metaforico, per carità, grazie all’abolizione disposta tanti anni fa dalla legge Basaglia, rimane aperto perché stento personalmente a capire, per esempio, il cambiamento intervenuto fra maggio e settembre di quest’anno nella linea della Procura di Milano, e fatta notare nella lettera di Berlusconi.

In particolare, la Procura diretta da Francesco Greco, che sta concludendo il suo mandato tra imbarazzanti polemiche, se non le vogliamo meglio definire inquietanti, chiese quattro mesi fa “lo stralcio” della posizione di Berlusconi dal processo “condividendo -ha scritto l’imputato- la fondatezza delle ragioni mediche” esposte nelle relazioni depositate in tribunale. Ma l’8 settembre scorso, in occasione di un’altra udienza cui Berlusconi si sentiva impedito a partecipare per ragioni di salute, fra un controllo e l’altro all’ospedale San Raffaele, la Procura ha cambiato atteggiamento “con toni e metodi davvero inaccettabili nei confronti miei e dei medici che mi hanno per molte volte visitato”, ha scritto l’ex presidente del Consiglio.

Che cosa è o può essere accaduto fra maggio e settembre per fare cambiare opinioni, umori e quant’altro nella Procura milanese sino a fare di Berlusconi un possibile malato di mente? Al Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, in un giudizio che accomuna pubblici ministeri e giudici, si sono dati questa risposta: la volontà “più o memo inconsapevole” degli uni e degli altri di “recuperare il prestigio “giustizialista” di una struttura giudiziaria, quella milanese, che è attraversata da tensioni e da veri e propri scandali che sono arrivati alle denunce reciproche tra magistrati che hanno ricoperto e ricoprono ruoli apicali”.

E’ evidente il richiamo alle polemiche già accennate fra le quali si sta concludendo l’esperienza di Francesco Greco alla Procura ambrosiana, sbottato in una intervista al Corriere della Sera contro il sempre più diffuso carattere “corporativo” e “autoreferenziale” della magistratura. Cui è seguito, fra l’altro, un preavviso di querela di Piercamillo Davigo sul Fatto Quotidiano. Col quale collabora lo stesso Davigo: il “dottor Sottile” fra gli inquirenti di Mani pulite, salito nella carriera giudiziaria sino a presidente di sezione della Cassazione, approdato infine al Consiglio Superiore della Magistratura, decadutovi col pensionamento  e ora sotto indagine per i verbali secretati dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara su una loggia affaristica, politica e giudiziaria, finiti nei suoi cassetti nel Palazzo dei Marescialli e infine approdati sui giornali.

“Può darsi che qualche manettaro impenitente ci caschi, che creda alla favola di un tribunale che non guarda in faccia a nessuno e di un Berlusconi che si nasconde dietro ai referti medici” per sottrarsi al giudizio e quant’altro, hanno temuto al Foglio opponendo a questo scenario una “verità talmente lampante” di arbitrio da “far sperare che questa volta siano davvero pochissimi a farsi intontire da queste manovre, tanto insistenti da diventare quasi stucchevoli”.

Al manicomio metaforico appartiene tuttavia  l’intera storia di questo processo noto come Ruby ter, e articolato in ben sette spezzoni, versioni e quant’altro. Tutto parte dal sospetto avvertito e denunciato alla Procura milanese nel 2013 dalle giudici di primo grado che condannarono Berlusconi a 7 anni per prostituzione minorile, nonostante le testimonianze presuntivamente false e remunerate delle sue vittime o complici. Ma quella condanna fu smentita dall’assoluzione l’anno dopo in appello, l’anno ancora successivo dalla Cassazione. Eppure Berlusconi -incredibile a dirsi fuori da un pur metaforico manicomio- ha continuato ad essere indagato e processato per induzione -ripeto- a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria”. Che è un reato, sancito dall’articolo 377 bis del codice penale, per il quale è prevista una condanna da 2 a 6 anni di carcere. Il codice parla anche della possibilità che il fatto si riveli nel processo un reato ancora “più grave”, spero non configurabile come tale per il proposito attribuito all’”imputato” Berlusconi, a torto o a ragione, da avversari e persino da amici consolidati, di partecipare a 85 anni compiuti alla gara per il Quirinale, quando la corsa si aprirà ufficialmente con la convocazione delle Camere congiunte per l’elezione, col concorso dei delegati regionali, del successore di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Ed entriamo così in un altro reparto del sempre più metaforico manicomio

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.policymakrmag.it il 18-9-2021

La solita, interminabile, ossessiva guerra a Silvio Berlusconi sulla soglia degli 85 anni

Puntuale come un orologio o un treno svizzero, con l’orgoglioso e del tutto comprensibile rifiuto di Silvio Berlusconi di sottoporsi alla perizia psichiatrica disposta , su richiesta della Procura della Repubblica, dai giudici milanesi che lo stanno processando dal 2018 per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, ne è arrivata una lettura tutta politica da parte dei suoi incalliti avversari. Che si sono fatti forti, nella loro interpretazione retroscenistica, dell’insistenza con la quale -poco importa se per convinzione o solo per tattica- amici di partito e di coalizione di centrodestra ripropongono, in questa lunga vigilia delle elezioni presidenziali in Parlamento, la candidatura dell’ex presidente del Consiglio alla successione a Sergio Mattarella.

Secondo una lettura tutta politica della sua iniziativa Berlusconi si sarebbe mosso in difesa della propria onorabilità e “storia personale” di imprenditore e di politico, come lui stesso ha rivendicato, per non compromettere la propria candidatura al Quirinale. Alla quale quindi sarebbe davvero interessato, nonostante le obiettive difficoltà già sottolineate pubblicamente nel centrodestra da Giorgia Meloni, che pure lo voterebbe se davvero lui diventasse il candidato unico della coalizione pur divisa rispetto al governo Draghi.

Berlusconi in una recente uscita dall’ospedale San Raffaele di Milano

Berlusconi, al quale recentemente ha rivolto parole di apprezzamento anche un avversario storico come Romano Prodi, che gli ha però indirettamente ricordato per esperienza politica personale quanto sia facile perdere la partita del Quirinale per i cosiddetti franchi tiratori, cioè per i tradimenti che si subiscono a scrutinio segreto ad opera dei parlamentari formalmente schierati a favore, non sarebbe trattenuto nei suoi propositi di candidato al Colle neppure dalla bella età che ha, a pochi giorni ormai dal compimento degli 85 anni, e dalla frequenza con la quale deve sottoporsi a controlli sanitari non necessariamente finalizzati alle sue passate richieste di rinvio delle udienze del processo per impedimento di salute. Cui possono aggiungersi di volta in volta  impegni politici derivanti dalla presidenza di un partito ridotto nei numeri elettorali e parlamentari, rispetto ad un passato anche recente, ma pur sempre incisivo.

Mi permetto, naturalmente per quel che valgono la mia personale opinione e la conoscenza che ritengo di avere dell’uomo, col quale mi è capitato di lavorare nella mia lunga esperienza professionale, di dubitare di tutta questa ostinazione che gli viene attribuita, spesso ossessivamente, dagli avversari. Che pur di fargli una guerra senza tregua -di cui ho avvertito ieri  sera i segni nel salotto televisivo di Lilli Gruber vedendo le reazioni agli apprezzamenti rivoltigli dall’ex amministratore delegato dell’Eni Franco Bernabè- non trovano nulla di illogico, di strano, di sospetto in un processo che si sta svolgendo in sette sedi e versioni, non solo a Milano, per indagini praticamente chieste in questo senso dai giudici, anzi dalle giudici di primo grado che lo condannarono nel 2013 per prostituzione minorile e concussione ma furono poi smentite, con sentenze di assoluzione, fra il 2014 e il 2015, dai giudici di secondo e terzo grado. Che non mi sembrano sospettabili, per ragioni di buon senso, di condivisione delle valutazioni delle giudici di primo grado. E’ un pasticcio logico, più che un pluriprocesso.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Mario Draghi unico italiano nella lista di Time, alla faccia di Travaglio

Di fronte al Mario Draghi in equipaggiamento già invernale che fa, sulla prima pagina del solito Fatto Quotidiano, il gesto poco urbano  dell’ombrello contro sindacati, partiti e quant’altri che contrastano o pongono sempre nuove condizioni al viaggio intrapreso dal presidente del Consiglio sulla strada della massima diffusione possibile di vaccini e green pass, mi era venuta la tentazione di opporre alle critiche, e spesso anche al livore, di Marco Travaglio e amici la presenza del presidente del Consiglio in carica nella lista delle 100 persone più famose e influenti appena diffusa dalla rivista americana Time. Che, magari, avrà pure inserzioni pubblicitarie di produttori di vaccini e simili, come al Fatto stanno forse già cercando di scoprire per mettere altra legna nel fuoco della polemica usuale contro l’ex presidente della Banca Centrale Europea associato da Sergio Mattarella al “Conticidio”, come lo chiamano da quelle parti, ma rimane il Time, con i suoi tre milioni e più di copie abitualmente stampate e vendute.

            Fate, fate pure coerentemente col nome della vostra testata quotidiana -mi veniva la voglia praticamente di scrivere- ma quel presunto incompetente di tutto fuorchè di finanza, che poi non è poco, resta l’unico italiano per tre volte comparso nella lista di Time negli ultimi anni. Di lui la segretaria al Tesoro americana Janet Yellen ha detto, spiegandone l’influenza, che gli Stati Uniti sono “grati” di averlo trovato “di nuovo come partner”, dopo gli anni in cui salvò l’euro dalla sua postazione di Francoforte.

Sul Corriere della Sera

Ma il caffè di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera mi ha un po’ guastato la metaforica colazione che consumo con la rassegna stampa di prima mattina perché, nei panni involontari di Travaglio, d’altronde ospite quasi fisso della televisione dell’editore del giornale milanese di via Solferino, e senza peraltro citare neppure Draghi, con furbizia proprio da Fatto Quotidiano, ha un po’ macchiato, diciamo così, la lista di Time. Che contiene anche la coppia più controversa, diciamo così, della famiglia reale inglese: Harry Windsor e Meghan Markle. Che obiettivamente si stenta così, su due piedi, e non per fare un piacere alla nonna regina ancora d’Inghilterra con i suoi cappellini e le sue borsette, a considerare davvero, come scrive scetticamente Gramellini, “tra le cento persone più influenti del pianeta, in una lista che comprende scienziati, economisti, capi di governo, stelle della musica e leggende dello sport”.

            “Quale merito ci sarebbe -ha chiesto impietosamente Gramellini spargendo altro caffè sulla lista di Time– nel far parte di una famiglia reale e poi uscirne, sbattendo la porta, per incassare i proventi di una popolarità acquisita esclusivamente in virtù dell’appartenenza a quella famiglia”, pur considerando “le iniziative di beneficenza che accomunano l’intero jet  set internazionale”?

Titolo di Gramellini

            E’ difficile non condividere -lo ammetto- il “dispiacere” di Gramellini, come lui stesso lo ha chiamato nella sua protesta contro “i sopravvalutati”, “che la fuffa patinata eserciti ancora un fascino così grande”, considerando i tanti che “anche dell’età di Harry e Meghan, con le loro imprese influenzano davvero le persone che le circondano, ma non sono abbastanza “glamour” per intercettare la curiosità di una piccola frangia di rabdomanti mediatici sganciati dalla realtà che si arroga il diritto di decidere chi piace agli altri”.

Eppure la presenza di Draghi in quella lista mi consola lo stesso, pur avendo sorbito un amaro caffè.

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Pesa su Giuseppe Pignatone la sconfitta nell’accusa di Mafia Capitale

Titolo del Dubbio

Giuseppe Pignatone, che da ottobre del 2019 presiede il tribunale del Vaticano dopo 45 anni di carriera giudiziaria in Italia conclusasi alla guida della Procura di Roma, non ha voluto lasciare solo il suo ex collega, ed anche ex consigliere superiore della magistratura, Piercamillo Davigo nell’attribuzione agli avvocati di buona parte, se non della maggior parte, dei guai della giustizia in questa nostra sfortunata Repubblica, quanto meno. Dove, per esempio, si sono dovuti aspettare 51 anni -dal 1948 al 1999- per vedere scritto nella Costituzione, modificando l’articolo 111, che il processo deve avere una “ragionevole durata”.

 Sono occorsi altri 22 anni perché un governo -quello in carica, molto atipico e fortunatamente presieduto da Mario Draghi- tentasse davvero con una legge delega ora all’esame del Senato, dopo l’approvazione della Camera, di dare concretezza a quella generica durata “ragionevole”, stabilendo quanti anni precisamente debba durare un processo in appello e quanti in Cassazione per non estinguersi nella “improcedibilità”. Che è la trovata “geniale”, come l’ha definita il buon Carlo Nordio, della guardasigilli Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, per ripristinare con altro nome la prescrizione disinvoltamente abolita all’esaurimento del primo grado di giudizio dal primo governo -gialloverde- di Giuseppe Conte, col grillino Alfonso Bonafede alla testa del Ministero della Giustizia. E con l’avvocato, senatrice e ministra Giulia Bongiorno, responsabile dei problemi della giustizia per la Lega, obbligata dal “capitano” Matteo Salvini a ingoiare il rospo originariamente definito “una bomba atomica”, pur di far durare quel governo qualche mese in più.

Non volete chiamarla quanto meno sfortunata, come dicevo prima, una Repubblica costretta ad arrivare così tardi e così male, se davvero vi arriverà senza altre sorprese, ad un minimo di decenza in materia di durata dei processi? E ciò, peraltro, grazie ai vincoli in qualche modo esterni dell’Unione Europea, che ha condizionato i finanziamenti del piano della ripresa, dopo il disastro pandemico, alla realizzazione di certe riforme, fra le quali quella appunto per la durata davvero ragionevole e certa del processo.

La responsabilità di questo ritardo, definiamolo così, per Davigo e ora anche per Pignatone, autore di un libro fresco di stampa anche sul modo in cui egli ha cercato di “fare giustizia” nella sua lunga carriera, non sarebbe solo dei magistrati, dei loro ritmi di lavoro, abitudini e quant’altro, visto che gran parte delle prescrizioni è sempre maturata nella fase preliminare del processo, in corso cioè di indagini, ma pure o soprattutto degli avvocati. E non per un presunto poltronismo ma per il loro numero ritenuto esorbitante, che praticamente abbasserebbe la qualità delle prestazioni professionali, e li costringerebbe di fatto, volenti o nolenti, a farsi concorrenza sui modi con i quali tirare alle lunghe i processi per salvare i loro clienti, o assistiti, con la prescrizione -e domani con la improcedibilità- anziché con una incerta sentenza di assoluzione.

Piercamillo Davigo a la 7
Il libro di Pignatone

Pignatone è andato giù contro gli avvocati ancora più di Davigo puntando il dito non solo contro i 240 mila difensori che esercitano in Italia rispetto ai 50 mila in Francia, o  contro i 380 per ogni centomila abitanti in Italia rispetto ai 100 in Francia, ma anche contro i 55 mila avvocati abilitati in Italia al processo in Cassazione rispetto ai 50 in Germania. Dove quindi sarebbero gli stessi avvocati a fare da filtro per non intasare di ricorsi pretestuosi l’ultimo grado di giudizio. Da noi invece la Cassazione sarebbe travolta dallo stesso numero dei difensori abilitati a ricorrervi. E sotto questo profilo -par di capire- neppure la riforma Cartabia, chiamiamola così, riuscirà a sanare l’amministrazione della giustizia. Occorrerebbe non dico eliminare gli avvocati, ma almeno rendere loro la vita durissima, ancor più di quella che s’intravvede nella quasi indigenza diffusa di ventimila euro l’anno di reddito che Davigo è appena tornato a sottolineare in televisione, alla riapertura del salotto televisivo di martedì su la 7, dove già era di casa, o quasi, prima dell’interruzione estiva.

Non vorrei essere o sembrare scortese nei riguardi di Pignatone, e della fiducia accordatagli da Papa Francesco importandolo al di quà delle Mura, ma personalmente mi sento grato agli avvocati e alla Cassazione per avere smentito la rappresentazione fatta della Capitale dalla Procura allora guidata dallo stesso Pignatone, come di una terra praticamente conquistata dalla Mafia, con la maiuscola.

E’ stata una rappresentazione notoriamente ridimensionata nei processi ad un’associazione a delinquere di notevole consistenza, per carità, ma comune. La cosiddetta “Mafia Capitale”, o “Mondo di mezzo”, come preferirono chiamarla altri, sempre dalle parti della Procura romana, decollata nel 2015 con arresti e incriminazioni clamorose, si è purtroppo tradotta nel miracolo politico della conquista del Campidoglio da parte dei grillini nelle elezioni amministrative del 2016, propedeutiche a quelle politiche del 2018. Che portarono il MoVimento 5 Stelle al 33 per cento dei voti, facendogli ereditare la postazione centrale che fu della Dc, resistita nella cosiddetta prima Repubblica anche all’avanzata del Pci guidato dal mitico Enrico Berlinguer.

Ora sono curioso di vedere, svanita e smentita Mafia Capitale, e simili, che fine farà, tra le macerie peraltro del suo MoVimento dimezzato nei sondaggi, e in tutte le elezioni intermedie svoltesi dopo il 2018,  la ostinata ricandidatura  della sindaca Virginia Raggi sostenuta dal ribelle e ormai ex pentastellato Alessandro Di Battista ma anche dal nuovo presidente delle 5 Stelle Giuseppe Conte.  

Pubblicato sul Dubbio

La caccia metodica alle ombre sulla via un pò scoscesa del Quirinale

            A parole tutti cercano di far credere di non volersi occupare dei candidati al Quirinale, per la successione a Sergio Mattarella, o perché maiora premunt, fra riapertura delle scuole, vaccinazioni, green pass, caro-bollette eccetera, o perché il peso contrattuale dei partiti, e relative correnti, va rimisurato con i risultati delle elezioni amministrative o suppletive di ottobre, o perché sarebbe irriguardoso per il presidente uscente della Repubblica -in un paese e in un mondo politico dove il riguardo di solito è disatteso quando si tratta di conquistare una qualsiasi postazione- o perché, infine, l’esperienza sconsiglia corse e scommesse premature rispetto all’aperura formale dei giochi. Che dovrebbe essere costituita, all’inizio di gennaio, dalla convocazione formale delle Camere in seduta congiunta, da parte del presidente dell’assemblea di Montecitorio, e delle operazioni per la designazione dei delegati regionali da parte dei rispettivi Consigli.

            A parole, ripeto. Nei fatti è tutto un gioco neppure tanto dietro le quinte, ma alla luce del sole di giorno e di potenti riflettori di notte. Quando Enrico Letta dice e ripete come segretario del Pd, dopo avere peraltro reclamato una “moratoria” sino a fine anno, che Mario Draghi deve restare a Palazzo Chigi “almeno sino al 2023”, cioè all’epilogo naturale della legislatura, lo esclude dal concorso quirinalizio, lasciando in campo tutti gli altri: dallo stesso Mattarella per una rielezione sostanzialmente a tempo, come quella di Giorgio Napolitano nel 2013, a se medesimo, come si è già cominciato a scrivere, insinuare e quant’altro.

Travaglio sul Fatto del 7 settembre

            Quando un giornale interessato ai pronostici, diciamo così, come Il Fatto Quotidiano scrive e titola che il Papa in persona, tra un viaggio e l’altro, un’udienza e l’altra, un’intervista e l’altra, un Angelus e l’altro, candida al Quirinale la guardasigilli Marta Cartabia chiamandola a far parte della Pontificia Accademia delle scienze sociali, dove aveva già portato Draghi promuovendone anche l’approdo a Palazzo Chigi, per la povera ministra della Giustizia si mette male, data l’avversione dichiarata alla sua elezione dal direttore in persona di quel giornale, addirittura tentato dal “vomito” e dall’imitazione che potrebbero farne i lettori. Fra i quali purtroppo ce ne sono di più o meno autorevoli sotto le pur cadenti cinque stelle.  Lo stesso Travaglio ha così riassunto o rappresentato di recente i compiti di un presidente della Repubblica, fra il faceto e il serio, o drammatico per la partecipazione al “Conticidio” attribuita a quello in carica: “dire quattro banalità a Capodanno (vestiteti che fa freddo, mettetevi le galosce), baciare bambini, tagliare nastri ed estrarre dal cilindro un banchiere o chi per lui nelle crisi più serie”. Se è per questo, anche estrarre dal cilindro un ben poco conosciuto professore di diritto e promuoverlo da candidato ministro della pubblica amministrazione in un governo monocolore pentastellato a presidente del Consiglio di un bicolore gialloverde, confermandolo poi alla testa di una coalizione di segno disinvoltamente opposto.

            Sempre in questa logica di caccia alle ombre, e sempre da quel giornale, la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti è stata sospettata di avere appena nominato il settimo portavoce del suo mandato per partecipare meglio, più visibile o gradita, alla corsa al Quirinale. E l’operoso ministro piddino dei beni culturali Dario Franceschini di avere messo a capo degli Archivi di Stato un presunto ammiratore del compianto Pino Rauti per guadagnarsi i voti della figlia Isabella, di Giogia Meloni e dei fratelli d’Italia, sempre nella corsa al Colle.

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L’impietoso racconto di “Mani pulite” fatto da Tiziana Parenti, che vi partecipò

Titolo dell’intervsta al Dubbio

            Con quell’”Io sapevo” di sapore pasoliniano ha voluto far sentire la sua voce su ciò che fu e che resta di “Mani pulite”, in un’intervista al Dubbio, anche Tiziana Parenti. Che partecipò al pool degli inquirenti milanesi su Tangentopoli ma ne fu progressivamente emarginata e alla fine costretta praticamente a lasciare. La chiamavano “Titti la rossa” per il colore dei suoi capelli, non per le sue scelte o preferenze politiche. Che furono di tutt’altro segno, avendo aderito a Forza Italia” di Silvio Berlusconi quando decise di fare politica approdando in Parlamento, e staccandosene poi polemicamente anche con un libro dichiaratamente di “Addio”. Che non le ha tuttavia impedito di dichiararsi ora disponibile a tornarvi se solo fosse invitata a farlo dall’ex presidente del Consiglio. Il cui partito però nel frattempo ha perso voti e pezzi. Ma la Parenti, pisana di nascita e avvocato del foro di Genova, non è tipo da scoraggiarsi.

La grinta le è rimasta tutta, intatta a 71 anni come a 42, quando le capitò da magistrata di scoprire di trovarsi in compagnia di colleghi che pensavano più a fare politica, e a conquistare il potere, che a fare giustizia. “I pm di Milano volevano il potere”, ha detto da testimone spiegando quell’”io so”, detto una volta da Pier Paolo Pasolini con l’inconveniente però di ammettere di non avere le prove di tutte le nefandezze denunciate nella sua sortita contro la politica di allora. Era il mese di novembre del 1974 e lo scrittore collaborava col Corriere della Sera.

Primo Greganti

            Capitatole non so se per caso o apposta, sottovalutandone cioè le capacità, il filone delle indagini sul finanziamento dell’allora Pds-ex Pci, mentre i colleghi si occupavano dei partiti al governo, la Parenti  non si lasciò incantare né distrarre dal “compagno” Primo Greganti con le sue spiegazioni minimaliste sul conto segreto svizzero chiamato “Gabbietta”. Era a decisa a non fare gli sconti che qualcuno nella Procura milanese di fatto poi fece: per esempio, inseguendo le borse degli affaristi e faccendieri sino al portone della sede comunista di via delle Botteghe  Oscure, senza cercare le stanze e le persone cui quei soldi dovevano essere consegnati.

I superiori della Parenti a Milano: Borrelli e D’Ambrosio

            “Io non partecipavo -ha raccontato la Parenti- ad alcune delle riunioni più delicate, innanzitutto a quelle in cui si discuteva dei filoni investigativi dei quali non avevo diretta competenza. Ma posso dire, ad esempio, che c’era nei componenti storici del Pool la consapevolezza di un quadro politico successivo alle inchieste in cui la sinistra politica sarebbe rimasta sola o quasi”. Nessuno di loro immaginava l’incursione e la vittoria elettorale di Berlusconi, caduto proprio per questo nelle attenzioni, a dir poco, degli inquirenti. Che, secondo la Parenti, non avevano all’origine alcuna voglia di occuparsi del Cavaliere: convinzione dalla quale tuttavia mi permetto di dissentire alla luce, peraltro, delle perquisizioni giudiziarie cominciate nelle aziende del Biscione quando Berlusconi, sospettato per i suoi rapporti con Bettino Craxi, non aveva ancora deciso di cautelarsi anche scendendo in politica.

Intervista di Violante al Giornale

            Proprio oggi, mentre la Parenti racconta al Dubbio i suoi ricordi, l’insospettabile Luciano Violante dichiara al Giornale della famiglia Berlusconi che “alcuni magistrati si sono concepiti come parte dello Stato per la quale non valgono le regole”, in una intervista titolata “Le toghe hanno preso il posto della politica”. La Parenti non era stata insomma una visionaria, come l’avevano giudicata i suoi capi d’allora Saverio Borrelli e l’aggiunto Gerardo D’Ambrosio.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Eppure sembrava che l’autoreferenza dei magistrati avesse raggiunto già il massimo con “Mani pulite”

Titolo del Dubbio

Ho trovato una confessione che un po’ mi ha consolato e un po’ o ancor più sorpreso nella lunga intervista dal sapore di congedo che il capo della Procura di Milano Francesco Greco ha concesso al Corriere della Sera in vista del suo pensionamento. Che si avvicina nell’amarezza delle polemiche che lo hanno investito per la presunta mancanza d’indagini sulle altrettanto presunte rivelazioni dell’avvocato Piero Amara a proposito di una loggia segreta mista di magistrati e faccendieri. 

Francesco Greco tanti anni fa

            La consolazione -a conferma peraltro della stima che istintivamente ho sempre avvertito per Greco a causa del fatto che all’epoca di “Mani pulite” era tra i magistrati incaricati delle indagini ma alieno dal palcoscenico sul quale invece altri saltavano ad ogni occasione fosse loro offerta dai giornali- sta nella coraggiosa confessione, per i tempi che corrono anche dopo l’esplosione della vicenda Palamara, del carattere “corporativo e autoreferenziale” della magistratura. Cui Greco oppone la sua abitudine di “guardare sempre avanti”, per cui è convinto di avere seminato abbastanza nella propria carriera per ritenere che “le idee” come le sue sulla giustizia “hanno molte cose da fare”, nonostante le delusioni procurategli negli ultimi tempi da ex collaboratori come il già pensionato Piercamillo Davigo o da un collaboratore confermatogli dal Consiglio Superiore della Magistratura come il sostituto Paolo Storari. Di cui invece era stato chiesto dal Procuratore generale della Cassazione il trasferimento ad altra sede e altra funzione per avere passato all’allora consigliere superiore Davigo -sempre lui- i verbali secretati di  Amara, con tutto quello che poi ne sarebbe derivato.

            La sorpresa -maggiore anche di quella riservatami dall’anticipazione del Fatto Quotidiano di una querela che Davigo avrebbe deciso o minacciato di sporgere contro il capo uscente della Procura milanese per reazione alle critiche ricevute, anche a costo di mandare ulteriormente “a pezzi” quella che molti ancora considerano l’epopea di “Mani pulite”- sta nella scoperta insita nell’intervista di Greco che l’autoreferenzialità dei magistrati non raggiunse il suo massimo a quell’epoca, come io invece ritetenevo. Per cui, dato ciò che ho sempre scritto di quegli anni e che sto per ripetere, o ricordare, mi chiedo a quale livello siano arrivate davvero le cose a Milano, e forse anche altrove, a proposito di magistrati corporativi e autoreferenziali.  

            Di “Mani pulite”, dei loro attori e del loro capo, che era Francesco Saverio Borrelli, mi impressionò subito, quando ne registrai i primi passi stando alla direzione del Giorno, la formazione a testuggine opposta alle prime, pur timide reazioni della politica. Borrelli in persona mi chiese a bruciapelo, in un rinfresco offerto nella Prefettura di Milano in onore dell’allora presidente del Senato Giovanni Spadolini, se “il presidente Craxi” fosse “impazzito” solo perché il figlio Bobo, consigliere comunale, aveva avvertito in una dichiarazione puzza di “campagna elettorale” nell’arresto di Mario Chiesa. Di cui si vantò che fosse avvenuta in flagranza di reato, al Pio Albergo Trivulzio,  proprio per evitare che si potesse sospettare delle sue circostanze, due mesi prima delle elezioni politiche del 1992.

Francesco Greco con Borrelli, Gherardo Colombo e Ilda Boccassini

            Poi, lasciata la direzione del Giorno e tornato nella squadra giornalistica dell’allora Fininvest, mi colpì la durezza con la quale Borrelli commentò l’ipotesi prospettata da Craxi di una commissione parlamentare d’inchiesta sul finanziamento della politica. Che doveva servire, secondo il capo della Procura milanese, ad aggirare e infine affondare le indagini giudiziarie in corso. Bastò e avanzò questo sospetto perché non se ne facesse nulla. E così il Parlamento ha potuto indagare su tutto, dalle banche alle banane, dai terremoti alla costruzione dell’aeroporto di Fiumicino, da Sindona alla P2 e ad altro ancora, ma non sul finanziamento dei partiti e, più in generale, della politica. E lo rilevai con una certa durezza in un commento a Parlamento in, anche a costo di procurare qualche preoccupazione a Berlusconi, che già avvertiva troppa attenzione giudiziaria sulle sue aziende e non aveva ancora deciso di difendersene anche scendendo in politica.

            Quando il governo di Giuliano Amato – formato dopo il fallimento della candidatura di Craxi a seguito di un insolito allargamento delle consultazioni del presidente della Repubblica a Borrelli-  varò nel 1993 il decreto legge di cosiddetta “uscita politica” da Tangentopoli, faticosamente concordato articolo per articolo, comma per comma, con Scalfaro al Quirinale, tra numerose interruzioni del Consiglio dei Ministri, bastò una reazione negativa dello stesso Borrelli perché il capo dello Stato ritirasse il suo assenso e annunciasse il rifiuto della firma.

Francesc Greco coi colleghi di Mani pulite nel 1994 contro il decreto legge che limitava la carcerazione preventiva

            L’anno dopo, quando Berlusconi già era presidente del Consiglio, portato a Palazzo Chigi dalla vittoria elettorale, e il suo governo varò un decreto legge per ridurre il ricorso alla carcerazione preventiva, di cui Scalfaro riconosceva si fosse fatto un certo abuso, tanto da controfirmare il provvedimento immediatamente, si levò dalla Procura di Milano una protesta così corale e rumorosa che la Lega di Umberto Bossi, presente al governo col ministro dell’Interno Roberto Maroni, si tirò indietro. E lo stesso Berlusconi dovette rinunciare alla conversione del decreto, grazie al quale nel frattempo erano stati liberati un bel po’ di detenuti in attesa di ulteriori indagini, neppure rinviati ancora a giudizio.

Pubblicato sul Dubbio

Il clamoroso annuncio di “Mani pulite a pezzi” persino sul giornale di Travaglio

Titolo del Fatto Quotidiano

            Se perfino al Fatto Quotidiano– dove “tutti i magistrati” superstiti di quella ”epopea” che molti ancora considerano la stagione giudiziaria di Tangentopoli, avviata a Milano nel 1992  con l’arresto in flagranza di Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio- considerano “Mani pulite a pezzi”, come annuncia appunto oggi il giornale di Marco Travaglio in prima pagina, vuol dire che qualcosa di veramente grosso è accaduto o sta accadendo.

Piercamillo Davigo

E’, fra l’altro, la querela che Piercamillo Davigo, il “dottor Sottile” di quelle indagini che traduceva in atti il lavoro investigativo condotto con la ramazza dal collega Antonio Di Pietro nella Procura diretta da Francesco Saverio Borrelli, si sarebbe proposto di presentare contro Francesco Greco. Il quale sta per andare in pensione come capo di quella Procura, dove aveva lavorato pure lui come sostituito con Davigo e Di Pietro, e ha voluto togliersi ieri qualche sassolino dalle scarpe con una intervista al Corriere della Sera da cui lo stesso Davigo non esce, diciamo così, molto bene: decisamente peggio del sostituto Paolo Storari, pur avvertito da Greco come un “pugnalatore alla schiena” per i verbali degli interrogatori dell’avvocato infedele dell’Eni Piero Amara consegnati sempre a Davigo. Che, ancora consigliere superiore della Magistratura, li avrebbe usati praticamente contro Greco alimentando il sospetto che egli davvero non avesse voluto fare sviluppare le dovute indagini per paura di compromettere un processo in corso contro l’Eni per corruzione internazionale, perduto poi lo stesso dalla Procura.

Francesco Greco al Corriere della Sera

            La storia è complicata, lo so. E a riassumerla, pur così a lungo, si rischia un’eccessiva approssimazione. Non è invece approssimativa ma reale l’accusa rivolta da Greco al suo ex collega ed amico Davigo di avere contribuito, volente o nolente, prima con l’uso e poi con l’”abbandono” di quei verbali di Amara, una volta decaduto da consigliere superiore della Magistratura, a quella che il capo uscente ha definito “una campagna mediatica” senza precedenti per compattezza e violenza contro “questa Procura” che “ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati”. “E’ questo simbolo che deve essere abbattuto”, ha detto al Corriere Francesco Greco, peraltro finito sotto indagini a Brescia e contemporaneamente costretto dal Consiglio Superiore della Magistratura a tenersi in Procura Storari. Di cui il Procuratore Generale della Cassazione aveva chiesto il trasferimento in altra sede e in altra funzione.

Sempre Francesco Greco al Corriere della Sera

            In attesa degli sviluppi di questa intricata vicenda milanese, ho trovato inquietante un’ammissione di Greco al Corriere, in particolare dicendo di “non avere probabilmente colto il cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa e autoreferenziale”. Eppure mi sembrava impossibile che alla Procura di Milano si potesse essere più autoreferenziali di quando lui vi lavorava come sostituto nelle già ricordate indagini “Mani pulite”. E partecipava alle proteste dei colleghi contro leggi ed altre iniziative governative o parlamentari, compresa una proposta di commissione d’inchiesta sul finanziamento della politica: tutte scambiate e bollate come interferenze e sabotaggi dell’azione giudiziaria. E tutte regolarmente subìte dai presidenti del Consiglio e della Repubblica di turno: persino da Silvio Berlusconi, che nel 1994 a Palazzo Chigi rinunciò alla conversione in legge di un decreto legge giù firmato dall’insospettabile Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale per limitare il ricorso al carcere preventivo, dopo tutti gli abusi che s’erano fatti.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it 

L’allarme, un pò esagerato, della candidatura di Rosy Bindi al Quirinale

Titolo di Libero

            Oddio, che cosa è successo?, mi sono chiesto leggendo l’”Allarme Quirinale” sparato sulla prima pagina di Libero come una specie di attentato temuto al torrino, perché “nel vuoto d’idee che attraversa la confusa dirigenza del Pd”, come ha raccontato Alessandro Giuli, si sarebbe “affacciato il profilo della 70 enne Rosaria da Sinalunga”, cioè Rosy Bindi, per la successione a Sergio Mattarella. “Manovre sinistre”, ha gridato sempre Lbero, in rosso, cercando di rafforzare la paura.

L’appello pro-Bindi

            Poi ho appreso, leggendo sempre il buon Giuli, dell’interesse lasciatosi sfuggire per una donna al Quirinale dal segretario del Pd, dopo un appello di una settantina di donne di “area di centrosinistra e sinistra”, prevalentemente venete, a favore appunto di una candidatura della Bindi. E ciò in deroga ad una “moratoria” verbale dallo stesso Letta proposta sul tema quirinalizio sino a gennaio prossimo. E mi sono detto, tranquillizzandomi un po’, ve lo confesso, che è un po’ troppo tirare il segretario del Pd così per la giacchetta. peraltro dopo tutto quello che egli ha fatto, tornando al Nazareno, per piazzare due donne ai vertici dei suoi gruppi parlamentari.

Fausto Carioti su Libero

            Ancora di più mi sono tranquillizzato trovando, all’interno dello stesso Libero, un articolo di Fausto Carioti sul Pd in cui fra le “trappole” attribuite a Dario Franceschini contro il segretario del partito c’è anche -come un inciso- la possibilità di candidarsi al Quirinale manovrando fra le correnti piddine, e altrove, come solo lui sa fare, essendo sempre riuscito il ministro dei beni culturali ad anticipare, anzi a preparare cambiamenti di equilibri e rapporti politici. “Non è un mistero -ha scritto Carioti- che il primo candidato di Franceschini” nella partita de Quirinale “sia lui stesso”, anche se “prendere il posto di Sergio Mattarella sarebbe impresa ardua” perché “Letta al momento non ha un’agenda chiara”. Egli è stretto fra la tentazione dichiarata di lasciare Draghi a Palazzo Chigi “almeno fino al 2023” e la voglia di qualcuno a sinistra di  mandare il presidente del Consiglio al Colle, “in modo da provocare il voto anticipato”. Il solito casino del e nel Pd, direte voi. E non avreste torto, specie alla luce di una notiziola che sto per darvi.

            Dovete sapere, in particolare, che prima ancora di essere lanciata nel già citato appello di una settantina di donne pervenuto anche ad Enrico Letta nella campagna elettorale in corso nel Senese, alla quale il segretario del Pd partecipa per tornare alla Camera sostituendo il collega di partito ed ex deputato Pier Carlo Padoan, la candidatura bindiana al Quirinale fu lanciata il 1° agosto scorso dal Fatto Quotidiano, pur senza clamore, come un messaggio che si trasmette come assaggio, giusto per vedere l’effetto che fa e comunque rivendicarne la paternità. Che in questo caso sarebbe grillina, o più in particolare contiana, dal nome del nuovo presidente del Movimento 5 Stelle già dichiaratamente affaticato Giuseppe Conte. Che al Fatto è di casa, diciamo così.

Lettera al Fatto del 1° agosto

            In una lettera “firmata” secondo la garanzia personale del direttore Marco Travaglio, che si tenne comunque la firma per sé, si chiedeva “dove la troviamo” per il Quirinale “una figura come poteva essere Nilde Jotti”. E dopo un po’ di giudizi liquidatori su Marta Cartabia e, “peggio”, sulla presidente berlusconiana del Senato Elisabetta Casellati, si scriveva che “ne rimane solo una: Rosy Bindi”, appunto. Che quello sgraziato di Vittorio Sgarbi, imitato da Berlusconi, definì una volta “più bella che intelligente”.

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