Mentre Laura Pellegrini, in arte Ellekappa, sulla prima pagina di Repubblica non sa se la lapide del movimento 5 Stelle va messa “nel campo di destra o di sinistra” del cimitero, e Alessandro Di Battista -ribattezzato Di Batosta da Stefano Rolli
sulla prima pagina del Secolo XIX- denuncia il crollo elettorale dei grillini proponendosi di bastonarne i responsabili, che ti fa il giovane ministro degli Esteri Luigi Di Maio? Festeggia a tavola con gli amici i mirabili -secondo lui- risultati del referendum sulle Camere sforbiciate e persino delle elezioni regionali e comunali, evidentemente fraintese dal giovane ex reporter del Fatto Quotidiano, e si mobilita, pancia a terra, per alcuni ballottaggi comunali di domenica 4 ottobre.
Noi, sprovveduti cronisti ed osservatori, pensavamo di avere visto l’essenziale delle elezioni del 20 e 21 settembre e non abbiamo invece capito niente, o quasi. La vittoria dei grillini che dà il senso a tutto il passaggio elettorale, sfuggita anche a Di Battista, è quella conseguita dal candidato comune del Pd e delle 5 Stelle a
sindaco di Caivano, Enzo Falco, eletto al primo turno al vertice del municipio campano: non molto popolato, in verità, con i suoi 37.400 e rotti abitanti, ma pur
sempre di origini “gentilizie”. E poi, Caivano potrebbe essere l’antipasto della conquista, nella stessa regione, pur nota per la quasi plebiscitaria conferma dell’odiato piddino Vincenzo De Luca a governatore, di un Comune come Giugliano, di ben 125 mila abitanti. Dove Di Maio farà il possibile e pure l’impossibile per portare alla vittoria il candidato comune di Pd e grillini Antonio Poziello, così come nella sua Pomigliano d’Arco si spenderà al massimo per far vincere il ballottaggio ad un altro candidato comune dei due maggiori partiti di governo, che è l’amico Gian Luca Del Mastro.
In un fazzoletto della Campania, diciamo così, diventato improvvisamente l’equivalente dello Stato pilota della
Confederazione americana, l’Ohio, dove si scrive il futuro di ogni candidato vincente alla Casa Bianca, il giovane Di Maio è riuscito a rigenerare la pianta lasciata morire, o quanto meno appassire, altrove da quel povero “reggente” Vito Crimi, non a caso escluso dal tavolo conviviale della festa ripreso dal fotografo del Messaggero.
Altro, quindi, che gli elettori indicati trionfalmente dal Fatto Quotidiano come gli artefici di notte dell’alleanza
M5S-Pd, i grillini cioè che col voto disgiunto o indisciplinato hanno contribuito alla vittoria elettorale del Pd in Puglia e in Toscana. Il futuro dell’alleanza tanto cara a Marco Travaglio l’hanno scritto o stanno ancora scrivendolo gli elettori campani di Caivano, Giugliano e Pomigliano d’Arco, in ordine rigorosamente alfabetico. Delle cui bellezze, in uno sforzo promozionale del turismo italiano, Di Maio troverà modo di riferire magari anche ai ministri degli Esteri ed altre personalità internazionali che gli dovesse capitare d’incontrare fra un viaggio e l’altro, un comizio e l’altro di questa fortunata coda della campagna elettorale.
In attesa dei mirabili eventi coltivati da Di Maio, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte resiste all’ipotesi del rimpasto ministeriale, fingendo
di non capire l’interesse che vi ha il Pd, e il capo dello
Stato, addirittura, tira sospiri di sollievo riferiti dal quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda per lo scampato pericolo di una crisi di governo. E’ cronaca vera.
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regionali hanno perduto parecchio pagando la loro alleanza nazionale col Pd, così come nelle elezioni europee dell’anno scorso avevano perduto -lasciando per strada metà del loro elettorato del 2018- pagando la loro alleanza di governo con la Lega di Matteo Salvini.
appiattirsi lo stesso sui grillini perdenti concedendo loro i soliti rinvii e doppi giochi, come la difesa del cosiddetto bicameralismo perfetto anche ora che alla conferma dei tagli dei seggi dovranno seguire, secondo gli impegni dello stesso Zingaretti, altre riforme per garantire davvero un Parlamento più efficiente, e non solo più magro.
al taglio grillino dei seggi parlamentari, con l’idea sacrale della politica che aveva. E che da lei hanno ereditato i giovani e meno giovani del suo manifesto, il quotidiano orgogliosamente comunista derivato dal mensile fondato nel 1969 con Luigi Pintor, Aldo Natoli, Luigi Magri, Luciana Castellina, Valentino Parlato ed altri espulsi dal Pci per “frazionismo”.
capire, parlavano e scrivevano di “presunte brigate rosse”, o veramente credevano, addirittura, che quegli assassini fossero fascisti travestiti da comunisti fanatici, formatisi -scrisse impietosamente la Rossanda- “nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”. D’altronde, solo degli incolti e degli assassini di professione potevano avere scambiato uno come Moro -il paziente tessitore politico che aveva appena lavorato per una tregua fra i due maggiori partiti italiani incapaci in quel momento di realizzare maggioranze ciascuno contro l’altro- per un lacchè del presunto, cervellotico “Stato Imperialistico delle Multinazionali”. E per mettervi al servizio anche Enrico Berlinguer.
del manifesto Norma Rangeri, va annoverato anche l’attacco di bile politica del direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio contro l’aspirante alla guida del Movimento 5 Stelle
Alessandro Di Battista. Che nel comizio di chiusura della campagna elettorale a Bari a favore della candidata grillina alla presidenza della regione Puglia si è permesso di buttare “nel cesso” l’appello di Travaglio, appunto, al voto cosiddetto disgiunto: a favore del governatore uscente Michele Emiliano, del Pd, e dei candidati consiglieri della concorrente pentastellata Antonella Laricchia. Così dovrebbero fare gli elettori grillini, secondo il direttore del giornale che dà loro consigli per quanto non richiesti, della Toscana: un’altra regione ancora più clamorosamente in bilico nel turno elettorale di oggi e domani per la candidatura di disturbo della pentastellata Irene Grilletti a governatrice.
per gli amici, da lui peraltro valorizzato e compensato negli anni e mesi scorsi per i reportage alla Che Guevara mandati al Fatto prima di violarne la linea politica a favore di una sempre più intensa e diffusa alleanza fra le 5 Stelle e un Pd più “rispettoso” del precedente partner di governo. Che era notoriamente Matteo Salvini, ora da vietare, o quasi, alla vista anche delle maggiorenni.
18 aprile 1948 contro
il “fronte popolare” dei socialisti e comunisti. L’elettore venne esortato, in particolare, a temere nella cabina elettorale più Dio che Stalin, la cui immagine veniva fuori peraltro -sempre sui manifesti e volantini elettorali- rovesciando quella di Giuseppe Garibaldi adottata dagli avversari dello scudo crociato.
dove lavorava e si nascondeva durante l’occupazione nazifascista di Roma, due lettere al generale britannico Harold Alexander chiedendogli di fare bombardare la Capitale d’Italia
per fiaccare le resistenze alla liberazione. Condannato in prima istanza per l’incertezza sull’autenticità delle lettere, Guareschi rifiutò di appellarsi per scontare la pena di un anno di carcere e mettere, secondo lui, più in difficoltà De Gasperi. Che invece gli rispose ricordandogli di essersi fatto anche lui un po’ di galera, per antifascismo.
Soprintendenza di Bari,, ha ieri riproposto quel manifesto elettorale di Guareschi agli elettori del referendum odierno lasciando al suo posto Dio -che “ti vede”- e sostituendo il nome di Stalin – che “non ti vede”- col più modesto Luigi Di Maio. Il quale si trova tuttavia nella incredibile situazione di poter fare paura per il peso abnorme che il suo movimento ha guadagnato nelle elezioni politiche del 2018 e conserva nel Parlamento ingessato dopo le sistematiche perdite di voti subite dai grillini ogni volta che si sono poi misurati nelle urne.
professore
e presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky nella “lezione” agli elettori chiesta o comunque ospitata dal Fatto Quotidiano con un titolo in cui si dice che “non stanno in piedi molte ragioni del No”: non tutte quindi. E fra le ragioni del si ce ne sono di clamorosamente contraddittorie, vista l’avvertenza
iniziale dello stesso professore: “Premesso che non mi piace sentire il linguaggio triviale di chi parla di tagli di poltrone…”. Eppure è esattamente il linguaggio dei grillini: “triviale” appunto. Non a caso Vladimiro, il fratello maggiore di Gustavo Zagrebelsky, giurista pure lui, ha annunciato sulla Stampa il suo no referendario.
una stringatissima
cronaca del Corriere della Sera, ha praticamente diffidato gli elettori grillini dal seguire i consigli di Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, per il “voto disgiunto”: a favore di Emiliano per la presidenza della regione e dei
Stefano Patuanelli ed altri big in una pizzeria di Napoli. Dove i cronisti del Foglio Simone Canettieri e Valerio Valentini hanno ascoltato o sentito raccontare da testimoni una certa, diffusa voglia di liberazione, diciamo così, dalla ormai troppo invadente figura di Giuseppe Conte. Cui si vorrebbe far capire che è più lui ad avere bisogno dei grillini che i grillini di lui.
presidente del Consiglio convinto di avere davanti a sé “la sfida della vita”, pronto a precedere gli avversari mettendosi da parte se fallisse, “non può permettersi di offrire l’impressione”, data invece col suo documento, “di voler
privilegiare più la logica della distribuzione del presente, un po’ a me e un po’ a te, che la logica della visione del futuro”. E ancora: “L’Italia, e il governo lo sa bene, ha bisogno di ritrovare la fiducia, ma ritrovare la fiducia senza avere chiare le priorità è, come nel calcio, annunciare una campagna acquisti senza avere idea di quali giocatori acquistare”.
di aver voluto tenere praticamente per sé, dietro la sigla di un comitato interministeriale, un piano d’impiego dei fondi europei che avrebbe dovuto affidare ad un’”agenzia” affidata alla competenza di “una personalità di statura internazionale”. Della quale La Malfa ha evitato di fare il nome essendo naturalissimo
il pensiero a un Mario Draghi per niente “stanco”, come Conte ha invece detto di averlo trovato quando gli propose, l’anno scorso, la candidatura a presidente della nuova Commissione europea, impossibile perché la partita si giocava tra francesi e tedeschi. Se Draghi era “stanco”, Conte era distratto.
un caravanserraglio con cui il presidente del Consiglio si è abituato a convivere, dovendogli l’arrivo e la permanenza a Palazzo Chigi, ma che rischia di travolgerlo dopo il turno elettorale di domenica e lunedì. E ciò specie se dovesse finire male anche il referendum sui tagli dei seggi parlamentari praticamente imposto dai grillini in Parlamento agli alleati di governo, di primo e secondo turno. E’ emerso un crescente numero di no fra elettori ed esponenti prestigiosi dei partiti formalmente schierati sul fronte del sì. Cui difficilmente potrebbe bastare, per uscirne bene, una vittoria ai punti, anziché il cappotto dei no immaginato quando i tagli passarono nell’ultima votazione parlamentare con l’opposizione di soli 14 deputati.
con i giornalisti, c’è stato quello
della senatrice a vita Liliana Segre, della quale avranno qualche difficoltà nella redazione del Fatto Quotidiano a montare la foto in qualche altro manifesto di ricercati o indegni, complici dei “poteri forti” all’opera contro il governo. “Il Parlamento non è solo un costo” da tagliare, ha avvertito la senatrice, per risparmiare peraltro solo un caffè per ogni italiano neppure al giorno ma all’anno.
decisione dallo spirito antiparlamentarista e anti-politica dato alla loro riforma dai grillini. Che si sono così procurati anche questo titolo dell’editoriale di Stefano Folli su Repubblica: “Il referendum è un voto sui 5S”, la sigla ormai giornalistica dei pentastellati.