L’impietoso contrappasso di Matteo Salvini nel suo viaggio elettorale

              Senza scomodare Seneca e Dante, maestri del contrappasso, il ricordo che mi stimolano “gli attacchi senza precedenti” e l’assedio mediatico e giudiziario avvertiti e denunciati dal vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini è quello dei tempi in cui a parteciparvi era il suo partito contro gli avversari per accelerarne la fine o contrastarne le ambizioni. Penso, per esempio, ai tempi di Bettino Craxi, e al cappio sventolato da un deputato leghista nell’aula di Montecitorio contro gli indagati di Tangentopoli. O ai tempi più recenti di Matteo Renzi e di altri attori minori della politica e del governo, di cui Salvini in persona, non i suoi predecessori, ha chiesto le dimissioni all’arrivo di un semplice avviso di garanzia, o al preannuncio da parte del giornale di turno privilegiato o, peggio, depistato dalla solita gola destinata a non essere mai scoperta, o comunque a rimanere impunita.

            Ognuno raccoglie anche in politica ciò che ha seminato. E chi di vignette gode, quando a trovarsi in berlina è l’avversario, di vignette soffre quando tocca a lui, o alla sua parte politica. Ogni allusione è voluta Giannelli.jpgal gioco di parole e di accenti con cui Emilio Giannelli ha rappresentato sulla prima pagina del Corriere della Sera la disavventura giudiziaria degli amministratori leghisti di Legnano, a cominciare dal sindaco. E ha  giocato sulla somiglianza disegnata fra la statua della Giustizia e il volto ormai abituale, per i vignettisti, del vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio per rafforzare il ruolo di difensore e garante dell’onestà assuntosi dal capo del   movimento delle 5 stelle anche contro il suo alleato di governo e omologo a Palazzo Chigi, quando i due vi si recano dai loro dicasteri.

          A Repubblica, nella sua nuova e più vivace veste grafica, non hanno avuto bisogno neppure del vignettista per dare ai leghisti nel titolo, sempre Repubblica.jpgdi prima pagina, dei “legnati a Legnano” in questo finale di campagna elettorale per il voto europeo e amministrativo del 26 maggio. Cui Salvini si avvicina con  viaggi sempre più difficili e contestati in volo, in treno, in auto e a piedi.

          Non so francamente se e cosa potrà sopravvivere il 27 maggio della maggioranza gialloverde improvvisata dopo le elezioni politiche dell’anno scorso, cui leghisti e grillini avevano partecipato dicendosene e dandosene di tutti i colori, come hanno ripreso o continuato a fare in questa campagna in corso, anche a costo di allarmare i mercati finanziari. Se qualcuno ha raccolto segni di preoccupazione, anzi di allarme al Quirinale si può anche dargli credito.

          Va detto tuttavia che ad aumentare confusione e tensione, che insieme danneggiano il Paese, e non solo la politica, dà il suoil manifesto.jpg contributo l’informazione con la solita enfatizzazione delle inchieste giudiziarie, anche nei giornali ritenuti generalmente più sobri, ma ugualmente tentati dallo scoop, vero o presunto che esso poi si riveli lungo la strada. Esasperata è anche la rappresentazione , diciamo la verità, di Salvini come del Duce redivivo, che gli copia le leggi razziali con le norme sulla sicurezza già fatte approvare dal Parlamento e con quelle che vorrebbe aggiungere.

          Non parlo poi di chi ha acceso i fuochi della campagna elettorale travestendosi da portavoce del Papa e della Chiesa e ricorrendo in prima pagina anche al virgolettato per annunciare -esattamente sul Fatto Il Fatto.jpgQuotidiano- che Salvini “va punito dai cattolici nelle urne”. Non a caso, sempre nella rappresentazione del giornale di Marco Travaglio, il leader leghista sarebbe stato tenuto lontano dalle sacre stanze dove avrebbe cercato di essere ricevuto, almeno prima -presumo- di prendersela con l’elemosiniere del Pontefice che ha riattaccato la luce agli occupanti abusivi di un palazzo romano nei pressi della Basilica di San Giovanni.

 

 

 

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Anche la Merkel complica la campagna elettorale di Berlusconi

            A vederlo, e pure a sentirlo, nel salotto  televisivo di casa, su Rete 4, intervistato dall’ossequiosa ma alla fine impaziente Barbara Palombelli, che cercava di contenerne l’eloquio per non fare aspettare troppo i pur sorridenti Fausto Bertinotti e Federico Rampini, sulla soglia per il loro turno, Silvio Berlusconi sembrava davvero rimesso dall’intervento chirurgico all’intestino che aveva rischiato di precludergli, o quasi, la partecipazione alla campagna elettorale per andare a rappresentare personalmente Forza Italia al Parlamento europeo. Dove egli ha ribadito di volersi adoperare, con l’”autorevolezza” che ritiene di avere maturato presiedendo tanti vertici internazionali, quando guidava i governi di centrodestra in Italia, per una maggioranza fra popolari e leghisti. Che sarebbero sovranisti recuperabili, non estremisti come i grillini, nonostante gli ultimi sviluppi proprio della campagna elettorale in corso abbiano invertito le parti nella squadra ministeriale gialloverde. Le cronache infatti riflettono un Luigi Di Maio moderato sul tema dei rapporti con l’Unione Europea e un Matteo Salvini barricadiero, al punto da allarmare i mercati finanziari e far crescere il famoso spread: o contribuire alla sua crescita, che altri attribuiscono anche a una ripresa improvvisa dell’economia tedesca e dell’appetibilità dei suoi titoli rispetto a quelli italiani.

            Oltre a Berlusconi, ottimista di natura quando coltiva i suoi disegni, scommette in Europa sulla fine della “morsa di popolari e socialisti” la leader della destra francese Marine Le Pen, intervistata dal Corriere della Sera e interessata politicamente quanto il Cavaliere a staccare i leghisti dai grillini in funzione di una svolta politica a Bruxelles e dintorni.

            Ma non è della stessa opinione, o tendenza, quella che dovrebbe essere la principale interlocutrice di Berlusconi in Europa, e compartecipe del Partito Popolare del vecchio continente: la cancelliera tedesca Angela Merkel. Merkel.jpgChe ha appena rilasciato un’intervista a più giornali di varia nazionalità per sottolineare “gli approcci diversi” di popolari e leghisti: tanto diversi da non farle ritenere né possibili né auspicabili accordi fra di loro. “La mia Europa saprà difendersi da Salvini”, fa dire nel titolo di prima pagina alla Merkel La Stampa pubblicando il suo messaggio mediatico agli elettori, e ai partiti, a dieci giorni ormai dalle elezioni continentali.

            Per Berlusconi, peraltro alle prese in Lombardia con un’inchiesta giudiziaria su corruzione e quant’altro che ha esposto più di tutti il suo partito, questo messaggio della cancelliera da Berlino non è certamente incoraggiante, neppure ai fini più modesti -almeno nelle prospettive europee del suo impegno politico attuale- degli sviluppi della situazione politica italiana. Che egli vorrebbe in direzione di una rottura di Salvini con Di Maio e di un ritorno del centrodestra alle dimensioni nazionali, e non solo locali. Che tuttavia cominciano a scricchiolare anch’esse, se lo stesso Berlusconi alla fine non si è disdegnato in questi giorni di ricordare che a Gela, il più popoloso Comune siciliano in cui si è votato domenica scorsa, i forzisti guidati dal suo luogotenente isolano Gianfranco Miccichè hanno contribuito col Pd alla sconfitta del candidato leghista a sindaco nel ballottaggio che era divenuto emblematico dei rapporti fra gli alleati del 4 marzo scorso nelle elezioni politiche generali.

            Salvini non deve avere gradito, anche se preso forse in queste ore più dall’offensiva crescente contro di lui della Repubblica nella sua nuova veste grafica, che gli sta facendo le pulci sulle Repubblica.jpgscarse presenze al Viminale per una campagna elettorale ormai “volante”, finita anche sotto i riflettori della Corte dei Conti  e sempre più contestata con iniziative che hanno obbligatomanifesto.jpg le forze dell’ordine a interventi inusuali. Sono quelli contro gli “affacciati alla finestra”, come li ha definiti in prima pagina il manifesto con un titolo che potrebbe anche essere letto come un’esortazione, un’incitazione, un ordine, come preferite.

 

 

 

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Cresce l’appetito anti-europeo di Matteo Salvini, e il malumore nella Lega

            Aumenta in questa dannata campagna elettorale – in cui tutti si inseguono su tutto, scavalcandosi sino a perdere l’orientamento- l’appetito anti-europeo del leader leghista Matteo Salvini. Che pure nell’autunno scorso, quando si confezionò il bilancio preventivo di questo 2019, aveva mostrato di nonRolli.jpg condividere la festa dei grillini, sopra e sotto il balcone di Palazzo Chigi, per il deficit al 2,4 per cento imposto da Luigi Di Maio al ministro dell’Economia Giovanni Tria. Poi -si ricorderà- il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, spinto dietro le quinte dal capo dello Stato, negoziò personalmente con la Commissione dell’Unione Europea la riduzione di quel 2,4 al 2,04 per evitare una rovinosa rottura e il procedimento d’infrazione.

            In questi giorni invece Salvini, nella triplice veste di capo del Carroccio, di vice presidente del Consiglio e di ministro dell’Interno ha detto che per fronteggiare le difficoltà economiche, nel frattempo aumentate, l’Italia potrà e dovrà superare non solo il tetto europeo del 3 per cento del deficit rispetto al prodotto interno lordo, ma anche il già abbondantemente sforato rapporto tra il debito pubblico e il pil. E l’omologo grillino Di Maio, invertendo le parti dello scorso autunno, gli ha dato sulla voce reclamando senso di responsabilità e realismo.

            Non contento di questo, che ha peraltro contribuito a fare salire lo spread nei mercati finanziari, Salvini ha opposto un sostanziale “me ne frego”, di brutta memoria nel nostro Paese, a una sentenza emessa dalla Corte europea di Giustizia, giudicando su due casi riguardanti il Belgio e la Repubblica Ceca, contro il rifiuto o la revoca delle condizioni di rifugiato a chi rischia la persecuzione nello Stato di provenienza. “Io gli stupratori e gli scippatori continuerò a mandarli via”, ha reagito Salvini. Che ancora di più ha protestato contro il tribunale di Venezia che ha soccorso un immigrato a rischio di espulsione certificandone la compiuta integrazione nei tanti anni già trascorsi in Italia.

            In attesa, insomma, di un’uscita prima dall’euro e poi dall’Unione, se dopo le elezioni di fine maggio non cambierà la musica economica e finanziaria a Bruxelles e dintorni, Salvini ha già portato l’Italia fuori dalla giustizia europea, anche a costo di fornire a Di Maio altre occasioni e pretesti per occupare spazi, diciamo così, moderati ed aumentare la già alta conflittualità all’interno della maggioranza e del governo. Dove le due componenti si fronteggiano e si scontrano ormai come se una delle due fosse all’opposizione.

            Eppure lo stesso Salvini, lasciandosi intervistare a Verona da Mario Cremonesi per il Corriere della Sera, ha espresso non solo l’auspicio ma la convinzione che questo stato assai curioso delle cose possa e debba continuare anche dopo le elezioni di verifica di fine maggio, e per i quattro anni residui della legislatura. Contemporaneamente però il leghista Giancarlo Giorgetti, Giorgetti.jpgsottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio, dubitava pubblicamente di una simile prospettiva e faceva capire di non vedere l’ora di finirla, con una risolutiva crisi di governo. E un altro leghista, Roberto Maroni, predecessore di Salvini sia alla segreteria del partito sia al Ministero dell’Interno, ironizzava col Foglio sul “fisico bestiale” e sulla “giornata di 48 ore” del suo capitano.

            Informato degli umori e delle parole di Giorgetti diffuse in rete, Salvini gli ha risposto in diretta che “c’è ancora molto da fare” al governo e che “non ci sono alternative” alla maggioranza gialloverde: evidentemente né a destra o al centro accettando i richiami di Silvio Berlusconi, né a sinistra con un’intesa fra i grillini e il Pd di Nicola Zingaretti. Che prima di nuove e anticipate elezioni non intende aprire a Di Maio, o ad altri del movimento  5 stelle, le porte sbattute in faccia in questa legislatura da Matteo Renzi in una intervista televisiva a Fabio Fazio, mentre il segretario pro-tempore del Pd si apprestava a tentare una trattativa.

 

 

 

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Il modello nazarenico di Gela scuote il partito di Berlusconi e Miccichè

            Nella impossibilità di diffondere i sondaggi che i partiti continuano a commissionare per regolarsi in questa fase finalmente conclusiva della campagna elettorale, cronisti e analisti politici curiosi di quanto potrebbe accadere hanno dovuto accontentarsi dei risultati dei ballottaggi svoltisi domenica nei centri siciliani in cui non erano stati eletti i sindaci al primo turno.

            Il Comune maggiormente popolato, e quindi più indicativo del campione elettorale, è quello di Gela: 73 mila abitanti Gela51.jpgcontro i 61 mila di Caltanisetta, i 51 mila di Mazara del Vallo, i 39 mila di Monreale, i 31 mila di Castelvetrano e via discendendo.

            Ebbene, a Gela è stata sperimentata con successo la riedizione sicula del cosiddetto Patto del Nazareno stipulato nel  2014 a livello nazionale  fra il Pd di Matteo Renzi e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Esso segnò la rottura del centrodestra, già divisosi del resto nella legislatura precedente col Cavaliere schierato col Pd di Pier Luigi Bersani a sostegno del governo tecnico di Mario Monti e il Carroccio decisamente all’opposizione.

            Diversamente dall’edizione nazionale, promossa dal Pd per portare avanti un programma di riforme istituzionali d’intesa con chi solo qualche mese prima aveva estromesso dal Senato applicando retroattivamente la cosiddetta legge Severino a causa della condanna definitiva per frode fiscale, l’edizione siciliana è stata promossa dal luogotenente del Cavaliere nell’isola: il presidente dell’asssemblea regionale Gianfranco Miccichè. Che ha accettato e rilanciato la sfida lanciata ai forzisti da Salvini con una corsa solitaria indicativa di una tentazione di livello nazionale cresciuta con i guadagni procurati al leader leghista dalla improvvisata convivenza al governo con i grillini.

            Miccichè, che sembra avesse faticato a convincere Berlusconi ad accettare la sfida di Salvini, ha visto una vittoria personale Greco.jpgnell’elezione di Lucio Greco a sindaco di Gela col 52,5 per cento, e l’appoggio del Pd, contro il leghista Giuseppe Spada. E l’ha interpretata senza mezzi termini come la prova che la salvezza di Forza Italia stia più nella capacità di raccordarsi al Pd che nella confluenza a tappe nella Lega perseguita dal governatore azzurro della Liguria Giovanni Toti.

            In verità, il piddino Calogero Spaziale ha cercato di ridurre la portata dell’operazione di Gela sostenendo ch’essa è stata possibile solo con una parte minoritaria del partito berlusconiano. E indicando come prova l’appoggio fornito dalla deputata forzista Giusi Bartolozzi al candidato leghista Spada.  

          Miccichè tuttavia continua a immaginare una proiezione nazionale di Gela, promossa a “modello” dal Foglio con un compiacimento per niente nascosto. E ha rinfacciato al leghista più alto in grado in Sicilia, Alessandro Pagano, che aveva liquidato come “incartapecorita” Forza Italia, di avere schierato il Carroccio a Caltanisetta con i grillini per far vincere al loro candidato il ballottaggio. Ciò ha figurativamente riconciliato i due vice presidenti del Consiglio che a Roma se le dicono e se le danno di tutti i colori, ma riprenderanno dopo il 26 maggio a “camminare in coppia come i due coglioni”, ha detto Miccichè col linguaggio non certo britannico che lo distingue.

 

 

 

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L’esercizio del potere tra polso e polsino in 73 anni di Repubblica

Sembrano dunque passati, o si sono quanto meno allontanati, i tempi del “Conte dimezzato”, del “presidente dandy” elegante e ondeggiante nell’imitazione che ne fa Maurizio Crozza, dell’uomo “di polsino” più che di polso, di “sor Contento”, del “quasi presidente” e, ultimo per la penna del severo Ezio Mauro su Repubblica, del “premier forse nato” ma “per gli uomini di Stato stiamo ancora aspettando”.

Il presidente del Consiglio, anche a costo di procurarsi altri soprannomi di cui cercare poi di liberarsi, ha voluto cambiare registro e proporsi per quello che sempre, dal primo momento, lo ha incoraggiato ad essere il capo dello Stato nominandolo: un presidente risoluto nell’esercizio delle funzioni assegnategli dall’articolo 95 della Costituzione. Egli “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.

Sulle orme del predecessore Giorgio Napolitano, che abituò i giornalisti a dichiarazioni esplicative delle sue decisioni  a chiusura delle crisi di governo, Sergio Mattarella confessò l’anno scorso una certa ritrosia avvertita nell’accettare la designazione di un pur apprezzato professionista come Conte, professore di diritto e avvocato civilista, fattagli dai due partiti della maggioranza maturata dopo le elezioni politiche attorno a un contratto. Che volle ispirarsi proprio nel nome a quello ben più voluminoso e dettagliato faticosamente stipulato a Berlino dai popolari e dai socialdemocratici per il nuovo e dichiaratamente ultimo governo di Angela Merkel. Altra cosa, mi direte. Eh, sì. Ma, appunto, lo dite voi.

Il presidente della Repubblica avrebbe preferito una persona -spiegò- di esperienza “elettiva”, da elezione a parlamentare, specie in considerazione del fatto che avrebbe dovuto essere affiancato da due vice presidenti di maggiore caratura politica, diciamo così, entrambi leader dei movimenti al governo, ma senza averne mai praticato neppure l’ombra a livello locale: nessuno dei tre, peraltro.

Poi Mattarella si diede coraggio, visto che era già un miracolo la nascita di una maggioranza nell’incerto scenario uscito dalle urne del 4 marzo, e la conseguente rinuncia all’ipotesi delle elezioni anticipate cui già sembrava rassegnato. Ma soprattutto cercò di dare coraggio allo stesso Conte, esortandolo appunto -come dicevo- a un esercizio per niente timido delle sue funzioni, e garantendogli una sponda nelle difficoltà che avesse dovuto incontrare.     So che quell’offerta o garanzia di Mattarella impensierì, dietro le quinte della festa del giuramento del governo gialloverde al Quirinale, entrambi i partiti della maggioranza, specie quello delle cinque stelle, in cui durante la crisi era esplosa addirittura la tentazione -ricordate?- del cosiddetto impeachment del capo dello Stato per le resistenze opposte alla lista dei ministri così come gli era stata proposta in un primo momento: con Paolo Savona al Ministero dell’Economia, poi dirottato al Ministero senza portafogli per gli affari europei, e ora neppure più ministro ma presidente della Consob, la Commissione nazionale di controllo delle società e della Borsa.

Lo zampino di Mattarella, e forse anche qualcosa in più dello zampino, è stato avvertito durante i mesi scorsi in più di un passaggio difficile del governo e, più in particolare, del suo presidente alle prese con l’attivismo vigilante e le opposte esigenze dei due vice: per esempio, nella gestione della prima nave affacciatasi d’estate alle coste italiane con migranti di cui al Viminale si impedì lo sbarco. Poi fu il turno delle trattative con la Commissione Europea di Bruxelles per ridurre il deficit di bilancio festeggiato sul balcone di Palazzo Chigi da Luigi Di Maio come la soluzione, addirittura, del problema della povertà in Italia. Poi arrivarono i turni del gasdotto con approdo in Puglia -Tap-  imposto da Conte ai grillini, e delle nomine alla Banca d’Italia, bloccate sino a pochissimo tempo  fa per le resistenze, a turno, di uno o l’altro partito di governo.

Ma l’evento un po’ liberatorio, diciamo così, per il dispiegamento dell’esercizio delle funzioni di presidente del Consiglio è stato la rimozione del sottosegretario leghista Armando Siri, difeso ostinatamente, su posizioni di pur inusuale garantismo, dal proprio partito come indagato per corruzione ma alla fine abbandonato al suo destino di ex per il puntiglio di “scollatore” dichiarato da Conte. Il quale è stato sicuro dal primo momento che il governo non sarebbe caduto su questo, e che non vi sarebbe stato neppure bisogno di contarsi nel Consiglio dei Ministri. Tanto sicuro del fatto suo è stato il presidente del Consiglio -e non del Coniglio, come lo ha chiamato con sarcasmo su tutta la prima pagina il manifesto– da incorrere nell’infortunio di un decreto poi corretto per superare l’esame imprescindibile, e forse sottovalutato, del Quirinale.

Da allora, senza voler correre appresso ai retroscenisti sulle tracce di un accordo sottobanco fra Salvini e Conte perché il primo potesse difendere sino alla fine Siri e l’altro potesse scollarlo senza conseguenze, o di  un maggiore spazio di manovra procurato a Conte dai sei punti perduti da Salvini in meno di un mese nei sondaggi elettorali diffusi dal Corriere della Sera, il presidente del Consiglio è andato crescendo di autostima. Il quotidiano Libero gli ha addirittura applicato l’immagine spagnola del Caudillo per  via del giornale di Madrid El Pais col quale Conte ha liquidato come “illusione ottica”, e anche acustica evidentemente, la percezione a lungo diffusasi di Salvini come del vero capo, o quanto meno protagonista, del governo italiano.

Al pubblico più strettamente di casa, parlando in particolare ai giornalisti accorsi all’inaugurazione della nuova sede dei servizi segreti, e a poca e forse non casuale distanza dal capo dello Stato, Conte aveva già raccomandato di non confondere la sua autorità con quella pur notevole ma evidentemente inferiore di “arbitro”.

A chi immagina a questo punto, con euforia o con paura, secondo i gusti, una prateria davanti al tonico o tonificato presidente  grillino del Consiglio, pubblicamente entrato nel Movimento delle cinque stelle in occasione del raduno dell’autunno scorso al Circo Massimo, di nome e di fatto, suggerirei tuttavia prudenza, non essendo mancati nella storia della Repubblica italiana presidenti del Consiglio tanto apparentemente forti, caratterialmente e/o politicamente,  da cadere come quelli deboli.

Alcide De Gasperi, che era appunto De Gasperi, il presidente della ricostruzione dell’Italia dalle macerie della seconda guerra mondiale, si spense politicamente, e l’anno dopo anche fisicamente,  con un modesto, direi banale governo monocolore democristiano che non riuscì nell’estate del 1953  a ottenere  neppure la fiducia d’esordio, o investitura.

Giuseppe Pella, subito dopo imposto alla Dc dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi, nonostante o proprio per la forza dimostrata schierando sui confini orientali le truppe italiane per rivendicare Trieste ancora contesa anche dalla Iugoslavia, cadde prima della Befana per un modestissimo rimpasto tentato per sostituire il ministro dell’Agricoltura.

Mario Scelba, arrivato alla guida del governo dopo essere stato un fortissimo, mitico ministro dell’Interno, si dimise nel 1955 per ragioni di cortesia personale e politica nelle mani del collega di partito Giovanni Gronchi eletto al Quirinale e si vide sfrattato.

Nel 1959 Amintore Fanfani contemporaneamente segretario della Dc, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri perse tutte e tre le cariche, contemporaneamente, in meno di un anno da quando le aveva irruentemente cumulate.

Fernando Tambroni, l’ultimo avvocato alla guida del governo prima di Conte, nel 1960 pagò con la caduta sia la popolarità guadagnatasi con la riduzione del prezzo della benzina sia l’impopolarità procuratasi nelle piazze insanguinate dai disordini per avere portato nella maggioranza i neofascisti del Movimento Sociale.

Nel 1968 Aldo Moro, il conterraneo cui Conte ha voluto ispirarsi sin dall’arrivo a Palazzo Chigi, ne fu allontanato in malo modo, dopo quattro anni di ininterrotto governo, sotto il fuoco combinato del suo partito, la Dc, e del Psi: l’uno considerandolo troppo accomodante verso l’altro, ma essendo stato egli in realtà severo con entrambi. Ai democristiani, per esempio, Moro negò la rottura con i socialisti sollecitata dopo meno di un anno, nella velenosa estate del 1964, tra i “rumori di sciabole” avvertiti da Pietro Nenni nei suoi diari, e ai socialisti appena unificati un’inchiesta parlamentare sui servizi segreti. Che Moro considerava un ossimoro.

Bettino Craxi, che nel 1985 aveva prima sconfitto il Pci nel referendum sui tagli anti-inflazionistici alla scala mobile dei salari e poi neutralizzato i marines di Reagan, sbarcati a Sigonella, dopo la conclusione del sequestro della motonave Achille Lauro, per cercare di farne la dependance di un aeroporto americano, fu estromesso nel 1987 da Palazzo Chigi perché troppo ingombrante agli occhi dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. Che però nel prenderne il posto, l’anno dopo, non riuscì a tenerlo per più di 13 mesi essendosi ostinato pure lui, come Fanfani, a fare insieme il capo del partito e del governo.

Giulio Andreotti, il “Belzebù” dei suoi nemici, o “la volpe” sfuggita alle pelliccerie per sette governi, uno in meno del suo scopritore e maestro De Gasperi, dovette nel 1993 seguire la corrente giustizialista votando con la mano alzata al Senato contro se stesso, cioè a favore del processo di mafia allestitogli a Palermo da Giancarlo Caselli. E conclusosi almeno senza condanna, deve ammettere il famoso magistrato d’accusa, che contesta ancora l’assoluzione per via della prescrizione applicata a una parte delle imputazioni.

Silvio Berlusconi, l’uomo nuovo e insieme forte della cosiddetta seconda Repubblica, eletto direttamente nell’immaginario collettivo alla guida del governo, ha potuto esserne scalzato -al netto di tutte le sue vicende giudiziarie- con quello che lui ha un po’ curiosamente chiamato “colpo di Stato”, avendovi contribuito con la controfirma della  nomina del suo imminente successore Mario Monti a senatore a vita e poi con l’appoggio per un buon annetto al Gabinetto dei tecnici.

Massimo D’Alema, il “Baffino” di ferro, non resistette a Palazzo Chigi più di un anno e mezzo, e con ben due governi, per avere ceduto alla tentazione gladiatoria di scommettere su un certo risultato di un turno di elezioni regionali da cui avrebbe potuto invece defilarsi.

Romano Prodi, che ha un caratterino pure lui, a dispetto del soprannome di “Mortadella” affibbiatogli dagli avversari di destra, e non contestato da quelli di sinistra  che ne determinarono almeno la prima caduta, nel 1998, conseguì ai suoi tempi due curiose vittorie elettorali sullo stesso rivale, che era Berlusconi: curiose, perché esaurite entrambe a meno della metà delle rispettive legislature.

Fra i presidenti del Consiglio delle tre edizioni, o due edizioni e mezza, della Repubblica il più giovane, il più ambizioso e il più dotato dichiaratamente di un “caratteraccio”, convinto che senza non se ne avrebbe nessuno, come d’altronde soleva dire l’indimenticabile presidente della Repubblica Sandro Pertini, è stato sicuramente Matteo Renzi. Il quale ha spinto lo spirito, anzi l’istinto del comando -che il compianto Gianni De Michelis, arrivato nel 1992 sulla soglia di Palazzo Chigi, chiamava “il piacere dell’autorità”- sino a intestarsi sia come segretario del Pd sia come presidente del Consiglio un progetto, anzi un sistema di “rottamazione”.

E’, tutto sommato, naturale che Renzi, anche ora che è o recita il ruolo dell’appartato, o di semplice “senatore di Scandicci”, sia molto avaro nel giudicare i suoi successori a Palazzo Chigi.  Lo è anche con Paolo Gentiloni, pur da lui stesso spinto alla guida del governo quando decise di allontanarsene per avere perduto il referendum sulla riforma costituzionale che aveva compiuto l’errore di trasformare in un plebiscito sulla sua leadaership: un errore che Matteo Salvini, pur propostosi di non seguirne l’esempio, ha stranamente copiato prima ancora di diventare presidente del Consiglio trasformando in un referendum su di sè le elezioni europee, regionali e amministrative del 26 maggio.

Da Gentiloni il predecessore si aspettava forse un carattere abbastanza forte da sostenere, dopo la sconfitta referendaria, la richiesta di elezioni anticipate da lui avanzata come segretario del Pd per cercare di investire nel rinnovo del Parlamento il rilevante 40 per cento raccolto dalla bocciata riforma costituzionale. Ma Gentiloni condivise il no del presidente della Repubblica allo scioglimento delle Camere, da cui derivò obiettivamente un epilogo della legislatura tanto lungo quanto rovinoso per il segretario del Pd, per quanto preoccupatosi di farsi confermare dal congresso. Che fu convocato in modi e termini tali da lasciare alla minoranza dei rottamati o rottamandi la ragione, o il pretesto, di una scissione che avrebbe quanto meno contribuito a spianare la strada al successo dei grillini nelle elezioni ordinarie del 2018.

“Adesso è il tempo del premier senza carattere”, ha appena dichiarato Renzi a Repubblica parlando di Conte anche dopo l’intervista un po’ muscolare del professore a El Pais. Ai fatti l’ardua sentenza.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Il Papa trascinato nella campagna elettorale, un pò anche da Salvini

            Nella penultima settimana della campagna elettorale per le europee, le regionali e le amministrative del 26 maggio l’estrema destra di Forza Nuova ha tentato di trascinarvi anche il Papa manifestando contro di lui sul tema dell’immigrazione, e trovando purtroppo una sponda addirittura al Viminale. Essa è consistita in una reazione indiscutibilmente polemica del ministro leghista dell’Interno Matteo Salvini, nonchè vice presidente del Consiglio, allo spettacolare intervento del cardinale elemosiniere del Pontefice, il polacco Konrad Krajevski, a favore dei circa cinquecento occupanti, tra cui molti immigrati, fra i quali donne e bambini, di un palazzo di proprietà di una banca nei pressi della Basilica romana di San Giovanni.

            Il porporato si è elemosiniere.jpgpersonalmente infilato nel pozzetto dei contatori dell’energia elettrica per togliere i sigilli posti sei giorni fa per una morosità di circa 300 mila euro e ripristinare così le forniture. “Ora paghino le bollette”, ha detto Salvini alludendo al Vaticano.

            Il cardinale Krajevski, che aveva già lasciato il suo biglietto da visita attaccato ai contatori dell’energia elettrica da lui ripristinata, ha in qualche modo risposto al ministro dell’Interno dichiarando, in una intervista al Corriere della Sera, di essere pronto a pagare le bollette dei consumi successivi al ripristino. E si è impegnato a pagare la multa che il suo gesto potrebbe procurargli.

            Questo spettacolo, dal corteo di protesta davanti a San Pietro alla sponda offerta, volente o nolente, da un leader di partito e di governo che ha consentito all’alleato-rivale Luigi Di Maio di dichiararsi dalla parte del Papa a nome dei grillini, poteva francamente essere risparmiato ad una campagna elettorale già debordata di suo. E che potrebbe riservare peraltro amare sorprese a chi l’ha lasciata o addirittura voluta straripante come un fiume in piena, quasi inseguendo le sorprese climatiche  di questa bizzarra primavera.

 

 

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Scavando ancora nella vita del socialista Gianni De Michelis

            Grazie al comune amico Giuliano Cazzola, che ne ha scritto su Start Magazine di Michele Arnese, sono in grado di completare il racconto del lungimirante riformismo del compianto Gianni De Michelis anche in materia previdenziale.

            Deluso ma evidentemente non domato dalla riunione della direzione del Psi in cui aveva raccolto insofferenza e scetticismo dopo avere riferito sulle condizioni critiche del sistema pensionistico, destinato a saltare in mancanza di interventi rapidi e duri, De Michelis predispose da ministro del Lavoro un disegno di legge. Trovò evidentemente presso il presidente del Consiglio Bettino Craxi l’attenzione che non aveva ricevuto nella riunione della direzione del partito, forse non svoltasi in quell’occasione, nel 1984, alla presenza del segretario. A sostituirlo negli adempimenti di partito era in quegli anni Claudio Martelli come vice segretario.

            Informata del provvedimento, che avrebbe sicuramente comportato uno scontro con l’opposizione comunista non inferiore a quello svoltosi sui tagli anti-inflazionistici appena apportati alla scala mobile dei salari, la segreteria della Dc retta da Ciriaco De Mita ne bloccò il cammino. Innanzitutto reclamò un’iniziativa De Mita.jpgparlamentare, anziché governativa. In secondo luogo impose, in funzione “consociativa” secondo la valutazione condivisibile di Cazzola, che il progetto di legge venisse partorito da una commissione speciale. Che fu  presieduta da Nino Cristofori, “sodale- ha scritto Cazzola- di Giulio Andreotti. Di cui infatti sarebbe poi stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dal 1989 al 1992, diventando ministro del Lavoro nel primo governo di Giuliano Amato.

            Alla presentazione della proposta di legge di riforma del sistema pensionistico il ministro De Michelis predispose emendamenti del governo per aumentarne il rigore, e prevedibilmente l’impopolarità. Ciò rallentò il percorso della legge sino a vanificarne l’esito col sopraggiunto scioglimento anticipato delle Camere, nel 1987.

            Si pensò allora -qui termina il supplemento di racconto grazie a Cazzola e comincia la mia coda, diciamo così- che l’interruzione della legislatura, un anno prima del suo epilogo ordinario, fosse stata provocata dall’insofferenza di Ciriaco De Mita verso Craxi, pubblicamente definito “inaffidabile” per non avere consentito nel 1986 la cosiddetta e famosa “staffetta” con Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, reclamata dal segretario democristiano. Si pensò anche, sull’onda delle cronache quotidiane e retroscena annessi e connessi, che De Mita coniugasse quell’insofferenza anche con la paura di dovere affrontare due referendum sostenuti da Craxi, già indetti per la primavera ed entrambi indigesti alla sinistra democristiana: contro l’energia nucleare, ancor più temuta dopo l’esplosione della centrale di Cernobyl, nell’Unione Sovietica, e per la responsabilità civile dei magistrati. Alle cui prerogative già allora non si poteva guardare per riformarle senza rischiare la fine politica.

            I due referendum saltarono in effetti  con la fine anticipata della legislatura, cui si potette arrivare peraltro solo con la disinvolta, inusuale decisione della Dc di non votare la fiducia al governo monocolore democristiano allestito proprio col recondito proposito delle elezioni anzitempo dal presidente uscente del Senato Amintore Fanfani. Cui invece i socialisti votarono la fiducia, in presenza peraltro di importanti adempimenti internazionali del governo, perché fossero evidenti le responsabilità del ricorso anticipato alle urne.

            Dopo il voto  potette subentrare a quello di Fanfani un altro governo presieduto da un democristiano, nella fattispecie Giovanni Goria, in attesa che maturassero le condizioni per un approdo di De Mita a Palazzo Chigi, solo alla condizione posta da Craxi di fare svolgere i referendum contestati già nell’autunno del 1987, senza aspettare la primavera dell’anno successivo. E furono entrambi  vinti dai promotori, anche se -bisogna dirlo con franchezza- Craxi poi consentì che la responsabilità civile dei magistrati, pur passata a grande maggioranza degli elettori, fosse sostanzialmente vanificata da una legge ordinaria poi scritta in pratica a quattro mani in pochi mesi dal guardasigilli socialista Giuliano Vassalli e dal magistrato di turno. Fu una legge imposta dalla necessità di disciplinare il vuoto creatosi nel codice con la soppressione referendaria della norma di ferrea tutela delle toghe. Essa fu promulgata, guarda caso, nello stesso giorno in cui si insediò il primo e unico governo di De Mita, riuscito finalmente a metà aprile del 1988 ad approdare a Palazzo Chigi, sia pure per rimanervi soltanto poco più di un anno.

            Ora sappiamo che dietro le quinte, nascosta dal clamore degli scontri sulla cosiddetta staffetta e sui referendum, aveva lavorato come una talpa contro la fine ordinaria della legislatura contrassegnata dai due governi Craxi, e per le elezioni anticipate del 1987, la paura  di una riforma del sistema delle pensioni avvertita insieme dalla Dc e dall’opposizione comunista. Alla cui valutazione della mancanza di alternative allo scioglimento delle Camere l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga volle ricorrere conferendo un incarico esplorativo, durante la crisi, alla presidente di Montecitorio Nilde Jotti. E lo sappiamo grazie alla rilettura degli avvenimenti consentitaci dal ricordo di Gianni De Michelis.

 

 

 

 

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In ricordo di Gianni De Michelis, e del suo servizio al governo del Paese

            In memoria di Gianni De Michelis, morto a 78 anni in un ospedale della sua Venezia dopo lunga e dolorosa malattia, e un isolamento che si era orgogliosamente imposto per non farsi vedere e sentire sofferente, voglio girarvi un racconto che mi fece di lui il comune amico Ugo Intini, già portavoce di Bettino Craxi.

            Era il 1984, l’anno del decreto legge predisposto proprio da De Michelis, ministro del Lavoro, per tagliare di tre punti la scala mobile dei salari in funzione anti-inflattiva, fra le durissime proteste dell’opposizione comunista e della parte maggioritaria della Cgil. Presidente del Consiglio da un anno era lo stesso segretario del Psi.

            L’allora ministro del Lavoro chiese e ottenne una convocazione della direzione nazionale del Partito Socialista per riferire sui problemi della previdenza. Egli illustrò con dovizia di particolari e di considerazioni le disastrose prospettive della quiescenza se non si fosse intervenuti tempestivamente con misure forse anche più impopolari dei tagli alla scala mobile ma non meno necessarie.

            La lunga relazione del ministro De Michelis fu accolta con segni crescenti di insofferenza, essendo ritenuta dai più la prospettiva della crisi della previdenza troppo lontana per occuparsene così presto.

            Fu un’enorme delusione per Gianni De Michelis, che aveva evidentemente sopravvalutato i suoi compagni di partito, mettendoli sul suo piano culturale, sociale e politico e prendendo sul serio la svolta riformistica, e non solo autonomista, impressa al Psi da Craxi. Che non a caso egli aveva generosamente salvato nei primi anni della segreteria dal più pericoloso tentativo della sinistra del partito, di cui lo stesso De Michelis faceva parte, di rovesciarlo.

            Addio, Gianni.

Soccorso della Farnesina al Viminale per le competenze su sicurezza e migranti

            A dispetto della sicurezza, e persino di una certa ostentazione di forza scappata al presidente del Consiglio Conte liquidando come “illusione ottica” l’impressione che lui fosse sovrastato dal vice presidente leghista Matteo Salvini, il Corriere della Sera attribuisce abbastanza vistosamente Corriere.jpgin prima pagina timori di crisi a Palazzo Chigi. Dove le preoccupazioni sarebbero state create, in particolare, dall’arrivo del testo di un decreto legge predisposto proprio da Salvini per una ulteriore stretta sul terreno della sicurezza e della gestione dei migranti, comprensiva dell’accorpamento al Viminale delle competenze oggi distribuite fra vari Ministeri. I cui titolari spesso si beccano fra di loro, specie in campagna elettorale, come avviene adesso, a due settimane dal rinnovo del Parlamento europeo, del Consiglio regionale piemontese e di numerose amministrazioni comunali.

            Fra i grillini il più diffuso giornale italiano ha raccolto il sospetto che Salvini, costretto a ingoiare il rospo della rimozione del sottosegretario leghista Armando Siri indagato per corruzione, e allarmato dai sei punti di perdita nei sondaggi attribuitigli da un istituto di ricerca su commissioneMurale a Milano.jpg dello stesso Corriere della Sera, voglia mettere all’angolo il movimento delle 5 stelle, sino a provocare una crisi, sul terreno a lui più favorevole per la percezione che ne ha l’elettorato: quello appunto della sicurezza e del contenimento dell’’immigrazione in vista del ritorno, per quanto in ritardo, del bel tempo e della migliore navigabilità nel Mediterraneo.

            Sarebbe stato addirittura allertato il Quirinale dal vice presidente leghista del Consiglio, Luigi Di Maio, nella speranza che sia lo stesso capo dello Stato a frenare il percorso del provvedimento predisposto al Viminale, supportando così i rinvii della convocazione del Consiglio dei Ministri cui potrebbe provvedere direttamente Conte.

            Se così stessero davvero le cose, e penso che almeno in parte così stiano, al netto delle solite esasperazioni da propaganda elettorale, meriterebbe particolare rilievo una intervista ai giornali del gruppo Caltagirone nella quale il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, non quindi un diplomatico qualsiasi, ha tenuto a condividere l’iniziativa di Salvini, precisando di avere già risposto in questo senso ad una lettera appena scrittagli dal ministro dell’Interno.

            In particolare, il titolare della Farnesina riconosce al Viminale una “competenza primaria” su sicurezza e immigrazione e ritiene utile che se ne discuta in Consiglio dei Ministri per chiarire la situazione creatasi per “l’intersecazione”, come lui la chiama, delle prerogative oggi Moavero dixit.jpgappartenenti anche alla Presidenza del Consiglio e ai Ministeri degli Esteri, della Difesa e delle Infrastrutture. Ma si potrebbe arrivare anche al Ministero dell’Economia, stando al ragionamento fatto da Salvini nella lettera per chiedere un “salto di qualità” nell’azione di governo per il contenimento e la prevenzione dell’immigrazione. Non si tratta di scippare niente a nessuno, in materia di competenze, perché -ha osservato il titolare della Farnesina- a discutere e a decidere sarebbe comunque collegialmente il Consiglio dei Ministri.

            Eugenio Scalfari, che alla sua bella età continua a seguire e commentare i fatti della politica ogni domenica per i lettori della sua Repubblica, peraltro Fattio.jpgalla vigilia di un’altra rivoluzione grafica, ha generosamente paragonato il conflitto ormai permanente fra i due vice presidenti del Consiglio ad uno spartito musicale nel quale Salvini suona al pianoforte e Di Maio al violino. Beh, il pianoforte questa volta si è fatto sentire più del violino, anche se al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio il ministro dell’Interno preferiscono associarlo nella vignetta di prima pagina all’immagine e al suono del trombone.

 

 

 

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Gli ultimi sviluppi della Salvineide, fra sbarchi, strette e richieste d’aiuto

            Matteo Salvini, spiazzato non so se più dai sei punti perduti negli ultimi sondaggi pubblicati dal Corriere della Sera, rispetto al 37 per cento dei voti attribuitogli meno di un mese prima, o dalla “illusione ottica” cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ridotto in una intervista a El Pais l’impressione che fosse il suo vice leghista il protagonista del governo gialloverde, o dai 136 sbarchi di migranti subiti in poche ore fra i porti di Lampedusa e di Augusta, o da quelli che teme gli siano destinati col bel tempo da quello che il manifesto ha manifesto.jpgchiamato “mare nero”, o dalle contestazioni rivoltegli in Calabria da elettori refrattari ai suoi comizi, o dalla rimozione del sottosegretario inquisito Armando Siri che ha dovuto alla fine accettare dopo averlo a lungo difeso; Salvini in Calabria.jpgMatteo Salvini, dicevo, ha reagito in un modo contraddittorio, a dir poco. Di cui ha subito profittato il suo omologo grillino alla vice Presidenza del Consiglio, Luigi Di Maio, per attaccarlo sino al sarcasmo e trarne qualche vantaggio nelle ultime due settimane di campagna elettorale per le europee, le regionali e le amministrative del 26 maggio.

            Il leader leghista da una parte ha predisposto al Viminale nuove norme per prendersi tutte le competenze nel controllo delle acque, anche quelle esercitate o rivendicate dal Ministero delle Infrastrutture, e penalizzare le navi dei soccorsi con multe da un minimo di 3500 a un massimo di 5500 euro a migrante; dall’altra ha dovuto riconoscere che, per quanti sforzi e forzature possa o voglia compiere ancora, non potrà mai riuscire a fare da solo.Rollisu soccorsi.jpg E tanto meno a mantenere tutto quello che ha promesso agli elettori in questo campo su cui, non meno o ancora di più che su quello fiscale, ha scommesso nella partita di governo con i grillini. Della quale peraltro potrà sempre meno giustificarsi vantando il permesso a giocarla datogli l’anno scorso dall’alleato di centrodestra Silvio Berlusconi, avendone ormai perduto ogni copertura, se mai ne ha avuto davvero una. Il Cavaliere si è nel frattempo indebolito, e in tutti i sensi: non solo in quello politico, dove Forza Italia è scesa ormai costantemente sotto il 10 per cento e combatte praticamente per la sopravvivenza, con tutti gli inconvenienti che comporta una condizione del genere.

            Il riconoscimento dei suoi limiti sul terreno della sicurezza, comprensivo  anche dell’immigrazione, Salvini lo ha fatto con una lettera nella quale ha chiesto maggiori iniziative diplomatiche, economiche e commerciali nei riguardi dei Paesi di provenienza o di condizionamento del fenomeno che approda nelle acque e nei porti italiani. Si ha la sensazione che con questa lettera il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno si sia reso conto della impossibilità, e comunque inutilità, di continuare a sostituirsi ai ministri degli Esteri e dell’Economia, per non parlare della ministra della Difesa, con la quale si è scontrato anche pubblicamente. Questo lavoro di sostituzione o intromissione è stato fatto da Salvini con dichiarazioni, telefonate a primi ministri d’oltremare, e visite o irruzioni in abiti civili o in tute mimetiche, o quasi.

 

 

 

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