Ho incontrato Guido Quaranta, più disincantato e scettico del solito, solo qualche settimana fa alla Camera, alla presentazione di un libro – “Passi perduti, storie dal Transatlantico”- al quale avevamo entrambi contribuito, intervistati con altri colleghi dall’autore Giorgio Giovannetti per parlare della nostra esperienza di giornalisti parlamentari.
Eravamo abituati troppo bene alla politica raccontata per più di cinquant’anni, peraltro da postazioni professionali di diverso orientamento politico, per poterci trovare a nostro agio con quella di adesso. Abituati troppo bene non solo alla politica, ma alla nostra stessa professione.
Guido mi chiedeva ancora, seduto accanto a me nella Sala della Lupa di Montecitorio, quali abitudini avesse nel suo lavoro Indro Montanelli, sapendomi cresciuto un po’ anche alla sua scuola. E ne era ammirato sentendomi descrivere come usasse tagliare i pezzi dei colleghi, non per censura ma per semplici ragioni di spazio. O come diventasse balbuziente per ansia o irritazione quando bussava alla porta qualcuno del comitato di redazione per porgli un problema. Montanelli era un direttore atipico, con quella voglia incontenibile che aveva di fare il solista. E a Guido, per quanto di sinistra orgogliosamente dichiarata, piaceva moltissimo.
Pur diventato negli ultimi anni parco di parole, ma sempre alla ricerca di curiosità per una urticante rubrica tenuta puntualmente sino all’ultimo sull’Espresso, Guido mi mancherà moltissimo, col ricordo ancora vivo che conservo di quelle mattine in cui Giulio Andreotti, incontrandolo nei corridoi di Montecitorio con un blocchetto di appunti sempre in mano, gli chiedeva sornione se gli volesse fare una multa. Ne sentirò una grandissima nostalgia.
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