Il ritorno della nave Diciotti nelle acque torbide della politica italiana

           Non so dove stia fisicamente in questo momento il pattugliatore Diciotti della Guardia Costiera italiana, in quale porto sia ancorato o in quali acque sia in navigazione, ma di certo esso è stato metaforicamente sollevato e scaricato sul già accidentato scenario politico dal cosiddetto tribunale dei ministri di Catania. Che, per giunta in difformità dall’archiviazione proposta dalla Procura della Repubblica, ha chiesto al Senato l’autorizzazione a processare il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Salvini per avere fatto “sequestrare” nella scorsa estate a bordo di quella nave, che pure li aveva soccorsi, un bel po’ di immigrati, fra cui donne e soprattutto minori che potrebbero procurargli un’aggravante nella pur improbabile condanna.

          Improbabile condanna, perché sarà ben difficile che il  Senato accolga la richiesta della magistratura catanese di portare l’imputato davvero al processo, e non riconosca invece in partenza al ministro di essersi mosso, anche a costo di strapazzare qualche norma del codice penale, per e nella difesa di un interesse nazionale. E’ questo, d’altronde, lo spirito esplicito del passaggio parlamentare imposto dalla Costituzione per questo tipo di processi.

           Dei voti dei senatori del suo partito giustamente Salvini si è detto sicuro riservandosi con aria di sfida di verificare la consistenza dei mal di pancia che già si avvertono fra i senatori dell’altro partitoSalvini.jpg della maggioranza di governo: il movimento delle 5 stelle. Dove si soffre con crescente evidenza l’alleanza con Salvini sia per il ruolo preponderante che egli ha assunto nella compagine di governo, sia per il carattere politicamente poco omogeneo dei pentastellati, o grillini, sia e forse ancor di più per l’idrovora elettorale che si sta rivelando, anche ai loro danni, il leader leghista.

            I giornali sono ancora freschi di stampa della foto del presidente del Consiglio italiano al bar con la cancelliera tedesca Angela Merkel a Davos, dove le attrezzature elettroniche dei giornalisti e operatori hanno potuto intercettare e decrittare il racconto, da parte di Giuseppe Conte, delle difficoltà e paure elettorali dei grillini. E ciò quasi per chiedere alla sua interlocutrice un supplemento di comprensione per le tensioni politiche italiane e per i suoi riflessi anche nei rapporti con gli altri paesi e governi europei.

             Immagino come la cancelliera tedesca non si sia poi stupita più di tanto quando ha saputo, non da Conte ma dalle agenzie di stampa, della clamorosa riapertura giudiziaria e politica della vicenda estiva della nave Diciotti, con tutte le conseguenti turbative politiche a ridosso, peraltro, della campagna per le elezioni europee di maggio. D’altronde, come ha spiegato ironicamente nello studio televisivo di Piazza Pulita l’ex presidente del Consiglio Mario Monti, che la conosce bene sin da quando egli era semplicemente un commissario italiano a Bruxelles, la signora Merkel è pratica di coalizioni di governo fra partiti elettoralmente concorrenti, avendone guidate abbastanza in patria.

               Le eventuali, probabili dissidenze grilline nell’aula di Palazzo Madama, con o senza il consenso del capo del movimento e vice presidente del Consiglio Luigi Di Mario, quando si tratterà di votare sul processo a Salvini, potrebbero essere compensate con i voti dei pur sempre alleati della Lega in tante parti del Paese che sono i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e i forzisti di Silvio Berlusconi. E ciò potrebbe bastare e avanzare a Salvini, cui già la notizia della richiesta di processarlo ha forse prodotto ulteriori guadagni nei sondaggi, traducibili in voti alla prima occasione.

               A questo riguardo non hanno avuto torto al Fatto Quotidiano, con una lettura che mi sembra in fondo critica, una volta tanto, Il Fatto.jpgverso la magistratura di turno, a gridare nel titolo di prima pagina che con la notizia giudiziaria giunta da Catania “Salvini ottiene il suo processo”. E si sente incoraggiato, nella propensione alle sfide che lo distingue, ad affrontare i nuovi casi di migranti e navi in arrivo con la stessa determinazione mostrata in occasione della vicenda Diciotti.  

Conte stacca i sovranisti nella salita di Davos e sorprende gli europeisti

A dispetto della tolleranza mostrata verso i suoi due vice nell’assalto a Macron con la polemica sul franco “coloniale”, liquidata come  una dialettica quasi ordinaria, e di un vago stile dandy che si lascia pazientemente attribuire, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha tirato fuori gli artigli a Davos.

Altro che l’Emma Bonino della +Europa. Conte ha colto al volo l’occasione o il pretesto del patto franco-tedesco appena aggiornato ad Aquisgrana, con tutta l’enfasi voluta dai sottoscrittori, per rivendicare all’Unione Europea il seggio del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite reclamato dalla Germania con l’appoggio della Francia. Che già vi risiede per rappresentare naturalmente se stessa, e magari -aggiungerebbero forse con feroce malizia Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista- i 14 paesi africani tenuti al guinzaglio di Parigi con la moneta stampata a Lione, peraltro scoperta prima di loro per i suoi presunti guasti migratori in Europa da Giorgia Meloni.

Grande -diceva Mao- è la confusione sotto il cielo, perciò la situazione è favorevole. Ora che Mao non c ‘e più, potrebbero cercare di applicare la sua massima in Italia i grillini, da cui tuttavia Conte prende appena può le distanze ripetendo lo schema suggeritogli con pazienza da Mattarella dopo la sfida lanciata alla Commissione europea di Bruxelles col deficit di bilancio annunciato dal balcone di Palazzo Chigi al 2,4 per cento del prodotto interno lordo, salvo negoziare faticosamente uno zero prima del quattro.

Macron e la Merkel, quest’ultima anche a dispetto dell’aranciata consumata con Conte proprio a Davos, non debbono aver preso bene l’europeismo a 24 carati sfoderato a sorpresa dal presidente del Consiglio guardando al Palazzo di Vetro di New York, ma coerente con la linea seguita sull’argomento dall’Italia ben prima che si potesse solo immaginare un governo gialloverde. Non debbono averla presa bene, la sortita di Conte, neppure i sovranisti  che lo hanno portato a Palazzo Chigi sottovalutandone l’imprevedibilità. Che non sembra proprio quella di un “professionista a contratto”, come una volta Bettino Craxi definì Giuliano Amato sospettandolo di averlo tradito dopo essere stato da lui indicato nel 1992 alla guida del governo fra i marosi di Tangentopoli.

Il contratto di governo alla cui esecuzione grillini e leghisti destinarono Conte ha sulla carta, e nelle parole dello stesso Conte e dei suoi vice, la scadenza quinquennale della legislatura. Ma Matteo Salvini, tra la composizione di un contenzioso e l’altro, ha posto il problema di un aggiornamento per definire meglio ciò che già c’è o per inserirvi almeno qualcuno dei vari problemi che vengono accantonati perché assenti, o sopraggiunti.

Nella conferenza stampa di fine anno Conte si rese disponibile a una simile evenienza, come anche a un avvicendamento di uomini e donne nella squadra ministeriale, almeno sino a quando non si rimangiò tutto per l’allarme scattato fra i grillini, destinati a fare le spese maggiori di quello che una volta si chiamava rimpasto. Spese maggiori, perché proprio fra i grillini al governo si sono riscontrati più infortuni in parole e opere. Ed è grillina la componente più sovrarappresentata rispetto alla mutata consistenza dei due partiti in tutti i sondaggi sopraggiunti alle elezioni politiche dell’anno scorso, o nelle elezioni amministrative svoltesi nel frattempo.

Non parliamo delle elezioni politiche suppletive di domenica scorsa a Cagliari, che sono costate ai grillini il seggio della Camera lasciato dal velista Andrea Mura, espulso dal movimento delle 5 stelle e poi dimessosi, prendendo per buona l’eccezionalità di un voto disertato da quasi il 75 per cento -dico settantacinque per cento- dei richiamati alle urne.

Dalle imminenti elezioni regionali abruzzesi e sarde, da quelle analoghe ma meno vicine della Basilicata e da quelle europee di maggio i grillini sembrano destinati a contare solo i voti perduti rispetto alle politiche dell’anno scorso e quelli guadagnati dai leghisti, forse proprio o anche a loro spese. Seguirà per forza di cose una verifica politica a tutti gli effetti, se non la crisi auspicata dalle opposizioni, pur impreparate obiettivamente, e per molte ragioni, a raccoglierne i frutti.

Ebbene, alla verifica o cos’altro sarà nel mese di giugno, a un anno più o meno esatto dalla formazione dell’attuale governo, Conte non arriverà di certo nelle condizioni improvvisate e fisiologicamente deboli di un anno fa. Con lui, con la sua già accennata e avvertita imprevedibilità, con la rete di rapporti istituzionali e politici che egli ha steso, molto fitti dalle parti del Quirinale, dove è stato più volte incoraggiato a muoversi con una certa autonomia rispetto a entrambi i suoi vice, costoro difficilmente potranno darne per scontato l’ assenso a qualsiasi accordo o compromesso. Gli hanno dato la bicicletta e Conte ha ormai imparato a usarla, anche fra le buche dei due partiti della maggioranza, spesso più insidiose di quelle romane.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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