Anche le istituzioni di garanzia condizionate dalle tensioni nel governo

           L’atmosfera di crisi creatasi nella maggioranza -con leghisti e grillini che  si scontrano praticamente su tutto, e i grillini al loro interno persino con il contributo del genitore politico, convertitosi Giannelli.jpga sorpresa ai vaccini procurando le vertigini ai suoi, educati quanto meno allo scetticismo sulla materia- non ha investito solo il Quirinale. Dove il presidente della Repubblica ha interrotto la sua riflessione critica e preoccupata sulla legge contro la corruzione, ma anche contro la prescrizione, e a dispetto pure dei dubbi espressi dal Consiglio Superiore della Magistratura l’ha firmata per non provocare altre tensioni nella coalizione di governo. La paura di una crisi ha investito pure il palazzo adiacente al Quirinale: quello della Consulta, dove siedono, studiano e deliberano i giudici della Corte Costituzionale.

            Proprio dalla Consulta è appena arrivata una decisione a dir poco inedita, anche se non ne mancano altre, nella storia della Corte Costituzionale, dettate più da ragioni o valutazioni più politiche che giuridiche, e sulle più diverse materie: dalle leggi elettorali al suicidio, su cui per non far decadere le norme in vigore, considerate illegittime, è stato dato al Parlamento un anno di tempo per farne di nuove. O per cercare di farne, sarebbe più opportuno dire, vista la calma, se non l’indifferenza, con cui le Camere hanno reagito sinora al sollecito.

          In particolare, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal gruppo senatoriale del Pd contro l’approvazione del bilancio dello Stato, avvenuta con procedure sfacciatamente contrarie a quelle dettate dall’articolo 72 della Costituzione per l’esame di quel tipo di disegno di legge. Ma la Corte, in qualche modo contraddicendosi almeno sul piano logico, sicuramente sul piano politico, è entrata lo stesso nel merito della questione sollevata dai ricorrenti riconoscendo che una violazione delle regole c’è stata: una violazione grave ma non abbastanza per richiedere una bocciatura in sentenza, diciamo così. Abbastanza comunque per ammonire i responsabili -si presume, governo Aula Senato su bilancio.jpge maggioranza parlamentare di turno- a non riprovarci più, e tanto meno a ricorrere a forzature più vistose ancora.  “Simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate”, ha avvertito il comunicato della Corte alludendo allo scavalcamento completo della commissione parlamentare competente, avvenuto a Palazzo Madama e tradottosi in aula in una mezza rivolta di senatori contro i banchi del governo e della presidenza dell’assemblea, con fogli che svolazzavano da ogni parte, e al sostanziale bavaglio imposto dal solito ricorso al voto di fiducia sull’altrettanto solito maxi-emendamento di centinaia di pagine e migliaia di commi per spazzare via singole proposte di modifica e dibattito.

           Il costituzionalista Michele Ainis si è giustamente chiesto su Repubblica, ironizzando alla fine sulla “prudenza” adottata dalla Corte Costituzionale, “cos’altro dovrà ancora succedere dopo il sequestro della dignità parlamentare” avvenuto questa volta per schiodare i giudici costituzionali dalla loro posizione di attesa e di monito inoffensivo.

           I due palazzi adiacenti del Quirinale e della Consulta sono appaiono accomunati più o meno consapevolmente da una preoccupata valutazione della situazione politica e istituzionale, prodotta da una maggioranza che traballa ma non cade, sorretta dagli arbitri nel timore di ciò che potrebbe accadere, specie nel contesto europeo in cui ci troviamo, se dovesse aprirsi una crisi Carige.jpganche formalmente. Ma non è detto che il puntellamento ad ogni costo sia il rimedio migliore. I ponti maltenuti prima o dopo crollano, come si è visto a metà agosto a Genova. Dove peraltro l’emergenza nuova si chiama Carige, l’acronimo della Cassa di Risparmio locale, si fa per dire. E la maggioranza la sta affrontando fra le solite divisioni, recriminazioni e quant’altro, più per fare campagna elettorale, al suo interno e all’esterno, che per risolvere davvero il problema.  

 

Il rischio di crisi salva la legge contro corruzione ma anche prescrizione

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede deve avere tirato un sospiro di sollievo apprendendo che il presidente della Repubblica ha firmato, per la promulgazione, la legge “spazzacorrotti” approvata definitivamente a Montecitorio il 18 dicembre scorso. E’ finita all’improvviso, pur senza un comunicato ufficiale sulla firma, la riflessione impostasi dal capo dello Stato di fronte anche ai dubbi espressi sul provvedimento dal Consiglio Superiore della Magistratura, di cui egli è costituzionalmente il presidente. Si tratta di dubbi particolarmente penetranti sulla norma che sospende la prescrizione  all’emissione della sentenza di primo grado per tutti i reati, e non solo per quelli corruttivi.

Il presidente della Repubblica ha probabilmente interrotto la sua riflessione -pur avendo ancora una settimana di tempo per la firma della legge- di fronte all’insorgenza delle prime voci e interpretazioni sui tempi non rapidi della firma mentre si appesantiva improvvisamente la situazione politica. E’ sin troppo evidente, in particolare, la falla apertasi all’interno della maggioranza di governo sui temi della sicurezza e dell’immigrazione, con riflessi più o meno ritorsivi anche sulle misure in cantiere per l’utilizzo dei fondi destinati nel bilancio al cosiddetto reddito di cittadinanza e all’accesso anticipato alla pensione.

Voci per quanto non confermate attribuiscono al capo dello Stato il timore di concorrere, anche se involontariamente, alle tensioni politiche procrastinando ulteriormente la firma della legge contro la corruzione, o addirittura consentendone la promulgazione con una lettera di segnalazione o puntualizzazione non mancata in altre occasioni, come l’emanazione del decreto legge su sicurezza e immigrazione. Che peraltro,  poi convertito in legge, è incorso nelle contestazioni di sindaci definiti per questo “traditori” dal vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma soprattutto di regioni che si stanno avvalendo dell’accesso diretto alla Corte Costituzionale per la verifica della legittimità di alcune disposizioni che interferiscono con le competenze delle amministrazioni locali.

In ordine ai dubbi da più parti sollevate, anche -ripeto- dal Consiglio Superiore della Magistratura, sulla modifica radicale dell’istituto della prescrizione, il capo dello Stato ha evidentemente voluto scommettere pure lui -solo i fatti potranno dire se con troppo ottimismo o con pacata ragionevolezza- sulla capacità di questa maggioranza di governo non solo di durare, ma di varare la riforma del processo penale. Nell’ambito della quale si dovrà trovare il modo di contemperare il rischio di un allungamento a tempo indeterminato del percorso in tre tappe di un procedimento giudiziario -tra primo, secondo e terzo grado di giudizio- con la “ragionevole durata” del processo prescritta dall’articolo 111 della Costituzione, modificato proprio a questo fine nel 1999.

E’ opportuno ricordare di nuovo che i leghisti hanno accettato, con dichiarazioni di Salvini e della ministra della funzione pubblica e avvocata di spicco Giulia Bongiorno, partecipi di un vertice di maggioranza dedicato a questo problema, l’introduzione della nuova norma sulla prescrizione subordinandone l’applicazione proprio alla riforma del processo penale. Dalla quale invece ripetutamente il ministro grillino della Giustizia ha dichiarato di volere prescindere, ritenendo quindi incondizionata la sospensione della prescrizione  alla sentenza di primo grado, sia di condanna sia di assoluzione. La quale ultima, una volta impugnata dalla pubblica accusa, potrebbe paradossalmente condannare anche l’assolto ad essere un imputato a vita.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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