Anche la ministra Trenta cade in tentazione… di protagonismo

            In quella che ormai è diventata nel governo gialloverde una gara alla sorpresa, o allo spiazzamento, è caduta in tentazione anche la ministra grillina della Difesa Elisabetta Trenta. Che pure sembrava, almeno nella delegazione governativa a cinque stelle, la più attrezzata alla sua funzione: più ancora forse dello stesso presidente del Consiglio, cioè il professore e avvocato civilista Giuseppe Conte.

            A 52 anni neppure compiuti, e con una laurea che non guasta mai nel proprio curriculum, a dispetto delle battute del pur simpatico Nino Banfi appena trasportato dal vice presidente del Consiglio grillino Luigi Di Maio nella commissione italiana per l’Unesco, la signora Trenta è stata fra il 2005 e il 2006 consigliera politica della Farnesina in Iraq, ed esperta senior a Nassiria. Dal 2009 al 2013 ha lavorato in Libano con i gradi di capitano della riserva internazionale per la missione Unifil. E in Libano è recentemente tornata come ministro anche per mettere una pezza, diciamo così, allo sbrego diplomatico appena compiuto sullo stesso posto da un suo collega di governo, il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, parlando dei tormentatissimi rapporti fra israeliani e palestinesi, e annesse complicazioni terroristiche.

           Ebbene, all’insaputa non si è capito bene se anche del presidente del Consigylio, ma sicuramente del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, che ha assicurato il giornalista di turno di non saperne appunto nulla, la signora Tronca ha disposto la “pianificazione” del ritiro entro un anno dei militari italiani dall’Afghanistan. Dove si trovano non certo per motivi turistici da molto tempo ormai, con puntuali e costosi avvicendamenti.

          Alla sorpresa, a dir poco, imbarazzata e imbarazzante del ministro degli Esteri, impegnato come tutti i suoi colleghi al di qua e al di là dell’Atlantico nel coordinamento della posizione italiana con quella appena annunciata, pur con una certa confusione, dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il ritiro delle truppe americane anche dall’Afghanistan,  si è contrapposto il giubilo di Alessandro Di Battista. Che è un compagno di partito della signora Trenta, prodigo di dichiarazioni, interviste, viaggi in montagna e altrove con l’amico dichiaratamente fraterno Di Maio, ma è al momento privo di qualsiasi incarico che lo qualifichi nel pur anomalo partito di Beppe Grillo. Dibba, come lo chiamano affettuosamente a Trastevere e dintorni, non sembra neppure in corsa per qualche candidatura alle elezioni europee di maggio, dalle quali anzi sembra volersi tenere lontano avendo forse ambizioni più domestiche, in ogni senso.

          Certo, vista la frequenza delle sortite estemporanee nel governo e, più in generale, nella maggioranza sminatore.jpggialloverde, che gli hanno peraltro impedito di riconoscersi nella posizione dell’Unione Europea, pur apprezzata dal suo ministro degli Esteri e dai leghisti, sulla grave crisi esplosa in Venezuela, dove vivono peraltro più di 130 mila italiani, il presidente del Consiglio Conte avrebbe bisogno di fare rientrare in fretta dall’Afghanistan almeno un militare, di quelli bravi a trovare e disinnescare mine. Dovrebbe allestirgli a Palazzo Chigi un ufficio più adiacente al suo di quello del capo ufficio stampa, portavoce o non so cos’altro Rocco Casalino

 

 

 

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Matteo Salvini ringrazia sentitamente chi manovra per farlo processare

Per un’approssimazione che sconfina in asineria istituzionale, avrebbe forse detto il compianto Francesco Cossiga, si sta cercando da qualche parte di liquidare la questione del processo a Matteo Salvini, sollevata dal cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, come l’ennesima edizione dell’immunità parlamentare. Cui peraltro si sono richiamati i grillini per convincere, a quanto pare, il loro capo e vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio a sostenere che la costante contrarietà  del movimento delle 5 stelle a questo istituto non consenta eccezioni di sosta, neppure per un prezioso, per quanto temporaneo, alleato di governo come il ministro leghista dell’Interno, e vice presidente del Consiglio pure lui.

Ma l’immunità parlamentare, oltre ad essere stata abolita per promuovere e condurre Richiamo Dubbio.jpgprocessi contro deputati o senatori, protetti ora dalla richiesta di autorizzazione solo per l’arresto, la perquisizione e l’intercettazione, non c’entra nulla col problema di Salvini. E del processo cui il tribunale catanese dei ministri ha chiesto di sottoporlo, nonostante l’archiviazione proposta dalla locale Procura della Repubblica, per sequestro aggravato di persone e abuso d’ufficio in ordine alla vicenda, nella scorsa estate, del pattugliatore Diciotti della Guardia Costiera Italiana. Che il ministro dell’Interno bloccò nel porto etneo col suo carico di migranti soccorsi in mare, fino a quando non ne ottenne l’assegnazione a più paesi, e ai vescovi italiani.

Mentre la vecchia immunità parlamentare, disciplinata dall’articolo 68 della Costituzione consentiva a deputati e senatori interessati di cautelarsi da un eventuale fumo persecutorio da parte della magistratura, l’immunità governativa o ministeriale, chiamiamola così, disciplinata dall’articolo 96 della Costituzione, e riguardante ministri anche non parlamentari, consente al Parlamento di giudicare preventivamente, rispetto alla magistratura, se vi è stato un interesse pubblico superiore a determinare una condotta governativa configurata come reato dai promotori dell’azione penale.

Lo dice in modo così chiaro la legge costituzionale di attuazione dell’articolo 96 -modificato nel 1989 per spostare la competenza dei reati ministeriali dalla Corte Costituzionale alla magistratura ordinaria, cui appartengono i cosiddetti tribunali dei ministri composti in ogni distretto giudiziario da tre giudici sorteggiati- che ha dovuto riconoscerlo pure Marco Travaglio in un editoriale sul Fatto Quotidiano.  Che trasudava dalla voglia grillina di portare Salvini sul banco degli imputati, e magari anche altrove, per quanto il leader leghista come parlamentare avrebbe bisogno di un’apposita autorizzazione per finire nella cella lasciata perfidamente immaginare o desiderare da Emilio Giannelli, in una vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, anche ai due più accreditati candidati alla segreteria del Partito Democratico. Dove personalmente mi auguro invece che si nutrano altri sentimenti, nonostante gli sforzi continui di Salvini di sottrarvisi con quella ostentata gestione muscolare della linea della fermezza in tema di immigrazione e di porti: una linea il cui solo nome, quello appunto della fermezza, mi procura gli stessi brividi -vi confesso- di quando fu praticata da un ben altro governo per gestire  nel 1978 il sequestro di Aldo Moro. E scusatemi la divagazione.

La competenza affidata con legge costituzionale al Parlamento per valutare il superiore interesse pubblico a supporto di un atto ministeriale configurabile come reato, ma conforme ad una linea di governo peraltro suffragata dalla fiducia delle Camere mai venuta meno sull’argomento, dovrebbe in teoria impedire persino al ministro interessato di aggirarla con una rinuncia alle garanzie dell’articolo 96. Eppure proprio questa rinuncia è sempre più chiaramente auspicata dai grillini per  evitare un passaggio parlamentare scomodissimo per varie ragioni: dal timore di una ulteriore e forse non recuperabile frattura nei rapporti fra i due partiti di governo alla paura di vedere formare nell’aula del Senato, dove i numeri gialloverdi sono scarsi, una maggioranza alternativa grazie all’appoggio già garantito a Salvini dalla destra di Giorgia Meloni e dai forzisti di Silvio Berlusconi. Che proprio in questi giorni è tornato alla ribalta, se mai se ne fosse davvero allontanato, candidandosi al Parlamento Europeo nel venticinquesimo anniversario della sua prima “discesa in campo”.

A sostegno di una rinuncia di Salvini alle garanzie dell’articolo 96 della Costituzione è stato citato un precedente del compianto Altero Matteoli, l’ex colonnello toscano di Gianfranco Fini più volte ministro e rimasto fedele a Berlusconi sino alla fine. Ma il precedente è imparagonabile alla vicenda attuale di Salvini.

Matteoli fu accusato nel 2014 con altri cento imputati di corruzione per i lavori del Mose, a Venezia. Egli rinunciò in modo ininfluente all’autorizzazione del Senato dopo che già era stata raggiunta la maggioranza contro di lui nella competente giunta, e l’esito della votazione in aula era scontato. Processato, fu condannato a 4 anni in primo grado  nel mese di settembre del 2017, tre mesi prima di morire in un incidente stradale a Capalbio.

Il caso Salvini, purtroppo per i grillini, è -ripeto- dannatamente diverso, con risvolti ed effetti politici e istituzionali a dir poco imbarazzanti per la maggioranza gialloverde già in grossi affanni su tanti versanti, interni e internazionali. Essi non sono forse estranei alla tentazione, anzi alla “rassegnazione” appena attribuita al presidente della Repubblica Sergio Mattarella dal quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda a “cambiare passo” nell’imminente inizio del quinto dei sette anni del suo mandato, per diventare “interventista”.

Non basterebbe più sul colle più alto di Roma la “terzietà’ attiva” praticata sinora, secondo quanto Breda ha scritto sentendo con orecchio molto allenato “coloro che stanno vicino” al capo dello Stato.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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