Berlusconi indossa il manifesto di Sturzo e si candida a Strasburgo

             Col suo annuncio di candidarsi alle elezioni europee di maggio Silvio Berlusconi è riuscito, fra l’altro, a guastare la festa ai grillini – e un po’ anche ai leghisti con i quali è ancora alleato in tante amministrazioni locali- per il varo del decreto di attuazione del reddito di cittadinanza e di accesso anticipato alla pensione. Che è stato annunciato nelle stesse ore della candidatura europea del Cavaliere con grande dispendio di comunicati, fotografie, conferenze stampa e dichiarazioni per strada da parte dei protagonisti o semplici attori di questa che solo i fatti potranno dire se è una svolta, o un bluf, o addirittura un’autorete, cioè la spinta al passaggio dalla stagnazione alla recessione per i danni derivanti ai conti pubblici.

              Ma più dei tempi, in funzione cioè dell’attività del governo gialloverde cui il partito di Berlusconi si oppone, pur avendo l’anno scorso “permesso” all’alleato elettorale Matteo Salvini di parteciparvi pur di allontanare lo spettro delle elezioni anticipate, colpisce il riferimento politico, ideale, culturale -chiamatelo come volete- scelto dal presidente di Forza Italia per riproporsi su una scena dalla quale, in verità, non ha mai voluto uscire davvero, o solo appartarsi.

              Con una lettera indirizzata e pubblicataBerlusconi al Corriere 1.jpg con tutti i riguardi dal Corriere della Sera il Cavaliere di Arcore ha voluto festeggiare le sue nozze d’argento con la politica, sposata 25 anni fa, diffondendo un manifesto imitativo dell’appello ai “liberi e forti” del sacerdote Luigi Sturzo. Di quel manifesto si sta celebrando in questi giorni il centenario, in coincidenza peraltro con quello della nascita di Giulio Andreotti.

             Berlusconi si è proposto sturziano come altre volte si è proposto, appena sbarcato nella politica, degasperiano. Secondo lui, Forza Italia altro non è stata e non dovrebbe essere considerata tuttoSturzo con Fanfani.jpgra che la prosecuzione del Partito Popolare fondato appunto da Sturzo e della Democrazia Cristiana che poi ne derivò. Ma non del Partito Popolare che, tra le macerie della cosiddetta prima Repubblica abbattuta dai magistrati milanesi ed emuli di altre Procure, tornò ad essere con Mino Martinazzoli. Che Berlusconi sfidò nelle elezioni del 1994 promuovendogli con Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella una scissione rivelatasi poi decisiva per la vittoria del centrodestra nelle urne sul cartello delle sinistre capeggiato da Achille Occhetto.

             Preistoria, si potrebbe essere tentati di dire dopo tutto quello che è successo da allora: con i grillini che agli occhi di Berlusconi hanno preso il posto dei comunisti, già nel 1994 proclamatisi post-comunisti pur disponendo degli stessi dirigenti; con i post-democristiani ancora più divisi e dispersi di allora; con la destra missina o post-missina praticamente svuotata dai leghisti di Matteo Salvini, che però hanno anche o forse ancor di più prosciugato l’elettorato di Forza Italia.  

              Eppure Berlusconi, a 82 anni ampiamente compiuti, riparte ostinatamente da lì, o quasi. E arriva paradossalmente a tentare persino il sorpasso di Sturzo, visto che dopo averne riproposto la “visione” in termini di valori, di società, di movimento politico e di Stato, ha scritto testualmente di considerarsene “il fondatore”. Che è convinto, probabilmente, di avere saldato i suoi debiti Berlusconi sul Corriere.jpgculturali facendo a suo tempo apporre- si è vantato-  una targa in onore di Sturzo sul palazzo romano di via dell’Umiltà, dove 25 anni volle aprire la prima sede nazionale del suo partito: lo stesso -per fortunata coincidenza- nella quale 75 anni prima, e 100 da oggi, Sturzo e  gli amici preparavano l’appello ai “liberi e forti”. Ma non abbastanza forti, in verità, per impedire poi l’avvento del fascismo.

             E’ francamente difficile coniugare l’umiltà toponomastica, diciamo così, ricordata da Berlusconi con l’ambizione politica che egli ora coltiva, in una situazione che si è fatta ancora più complicata, ma secondo lui, ugualmente drammatica, di 25 anni fa. Una certa prudenza tuttavia è stata, magari involontariamente, dimostrata dall’ex presidente del Consiglio puntando più sulla sua presenza al Parlamento Europeo che sul ritorno nel  Parlamento italiano, dove i giochi per lui si sono fatti obiettivamente più difficili di quanto non possano rivelarsi a Strasburgo, visto che la famiglia dei popolari europei ha maggiori possibilità di resistere al fagocitamento leghista che in Italia minaccia il partito del Cavaliere.

 

 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

 

Se un pò di fumo di Londra arrivasse nell’aula di Montecitorio

Un po’ di fumo di Londra dovrebbe pur essere avvertito nell’aula di Montecitorio, dove si discute la riforma del referendum voluta dai grillini e un po’ tollerata, come tante altre cose nella Richiamo Dubbio.jpgmaggioranza gialloverde, dai leghisti. E’ una riforma estensiva dell’istituto contemplato dall’attuale Costituzione solo per tentare, come dice l’articolo 75, “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge”, salvo che per quelle “tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.

In verità, i costituenti nel 1947, modificando ciò che era stato deciso in commissione, estesero l’area del divieto alle leggi elettorali ma, come avrebbe poi inutilmente scoperto quel “secchione” di Giulio Andreotti, la deliberazione d’aula fu smarrita fra le pieghe della stesura tecnica della Costituzione, non si è mai ben capito se per dolo o per negligenza.

Quando Andreotti, non più giovane sottosegretario di Alcide De Gasperi ma presidente del Consiglio, si accorse dell’inghippo -sfogliando appunti suoi e verbali parlamentari mentre i radicali e il democristiano Mario Segni promuovevano un referendum sul sistema elettorale per ridurre ad una sola le preferenze plurime allora esistenti-  era troppo tardi per correggere l’errore degli uffici della ormai più che sepolta Assemblea Costituente. E quel referendum, abrogativo non di una parte ma di qualche parola soltanto della legge elettorale in vigore per la Camera, si svolse col beneplacito della Corte Costituzionale. Non solo si svolse quella prova referendaria, ma essa aprì una breccia per la quale sono passati altri referendum elettorali, in occasione dei quali il povero Andreotti -ancora immanente sul nostro scenario politico con la celebrazione del centesimo anniversario della nascita, e quasi sesto della morte- si faceva sempre il segno della croce. Egli era convinto che in una materia così astrusa come quella elettorale il Parlamento dovesse conservare l’unica parola, specie se a ridosso di qualche rinnovo delle Camere per evitare la tentazione di interventi più opportunistici che opportuni.

Con la riforma costituzionale voluta dai grillini, e tollerata -ripeto- dai leghisti per quieto vivere in una maggioranza già troppo piena di problemi di ordinaria e straordinaria amministrazione e legislazione, gli elettori potrebbero non solo abrogare leggi esistenti, ma crearne nuove di zecca, senza limitarsi a produrle abrogando parti o parole delle vecchie. Sarebbe il referendum propositivo, bellezza:  ben oltre la presentazione di proposte alle Camere “da parte -dice l’attuale articolo 71 della Costituzione- di almeno cinquecentomila elettori”, e redatte “in articoli”.

Questo nuovo tipo di referendum non avrebbe i limiti di merito o competenza, diciamo così, dell’attuale referendum abrogativo. In sede propositiva gli elettori potrebbero intervenire, fra l’altro, anche per l’esecuzione dei trattati internazionali. Così il referendum sull’euro o, più in generale, sull’Unione Europea, cacciato dalla porta  per l’accreditamento del partito delle cinque stelle come forza di governo, potrebbe rientrare dalla finestra di un referendum propositivo. Che non avrebbe neppure l’inconveniente del quorum di partecipazione di metà degli elettori aventi diritto al voto più uno, potendo bastare a convalidarne il risultato il 25 per cento dei sì, sempre rispetto all’intero corpo elettorale.

Certo, un quarto almeno dell’intero elettorato necessario per un risultato valido non  è una soglia da poco, concessa all’opposizione del Pd durante l’esame della  riforma in commissione alla Camera, ma rimane pur sempre un livello ai danni del Parlamento. Dove per approvare una legge occorre la maggioranza dei presenti e votanti non un quarto dei componenti della Camera e del Senato. E questa maggioranza in Parlamento sale, almeno a livello della metà dei membri di ciascuna assemblea, quando sono in gioco interventi di carattere costituzionale.

Una simile disparità fra corpo elettorale e Parlamento diventerebbe ancora più vistosa se il referendum si svolgesse, come vorrebbero i promotori della riforma, per fare scegliere  direttamente dai cittadini fra la proposta di iniziativa popolare e una difforme, ma sulla stessa materia approvata dalle Camere.

La baldanza, a dir poco, con la quale i grillini stanno portando avanti il loro progetto di riforma del referendum -sulla strada di un declamato passaggio da una democrazia rappresentativa di tipo tradizionale ad una democrazia diretta, già entrata peraltro nelle competenze del ministro dei rapporti proprio col Parlamento, il pentastellato Riccardo Fraccaro- stride alquanto con ciò che è accaduto e continua ad accadere in Gran Bretagna. Dove un referendum sull’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, peraltro sulla carta neppure vincolante ma solo consultivo, imprudentemente voluto dall’allora premier conservatore David Cameron, si è abbattuto come un uragano sulla pur consolidata democrazia -da scuola- di Westminister.  La signora Theresa May, succeduta al suo collega di partito Cameron veste ancora inglese, ma potrebbe avere bisogno prima o poi di un guardaroba italiano.

La Regina Elisabetta, dal canto suo, si sarà messa le mani nei capelli ancor più di quanto non sia stato e non sarà ancora costretto a mettersele al Quirinale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che ancora può contare su una Costituzione che, almeno sotto il profilo del rapporto fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, o per giunta digitale, mette ancora al riparo il sistema istituzionale. Non so però, francamente, fino a quando.

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