Scampato nella scorsa legislatura al patibolo allestitogli in Parlamento dall’allora segretario del Pd Matteo Renzi e salvato dalla convergente difesa dei presidenti della Repubblica e del Consiglio, il governatore della Banca d’Italia rischia di salirvi anche nell’esercizio del suo secondo mandato.
A prendere di mira Ignazio Visco questa volta sono a turno, secondo le circostanze, due capi partito che sono anche al governo dettandone la linea al presidente del Consiglio. Parlo naturalmente di Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Giuseppe Conte.
E’ già accaduto nei mesi scorsi, durante la preparazione della manovra finanziaria e della legge di bilancio, che Salvini reagisse ai numeri che dava la Banca d’Italia e alle valutazioni che ne derivavano sfidando i dirigenti dell’istituto a presentarsi alle elezioni, come ogni tanto faceva anche con i magistrati. Che era un modo di accusare gli uni e gli altri di fare politica in modo improprio contro il governo coprendosi dietro le loro funzioni neutrali, e quindi violandole.
Ora è capitato a Luigi Di Maio, ancora alle prese con i fuochi artificiali per il festeggiamento del decreto -anzi, decretone- di attuazione del reddito di cittadinanza e dell’anticipo della pensione, protestare contro le “apocalittiche” valutazioni della Banca d’Italia. Che ha praticamente lanciato l’allarme della recessione, più chiaramente di quanto non avesse voluto o potuto fare qualche giorno prima il ministro dell’Economia Giovanni Tria parlando di “stagnazione”.
Convinti, poco importa a questo punto se in buona o cattiva fede, di avere allestito una manovra di “espansione”, salvandola dalle grinfie della Commissione Europea con una faticosa e lunga trattativa, anche a costo di procurare poi per ragioni di tempo una “grave compressione dell’esame parlamentare” del bilancio, certificata dal capo dello Stato nel messaggio televisivo di Capodanno trasmesso a reti unificate, i capi dei due patiti di governo non possono né vogliono sentirsi dire che stiamo invece navigando verso le recessione, neppure se mitigata con l’aggettivo “tecnica”. Che non si nega a nessuno e a niente quando si vuole cercare di ridurre l’impatto di una brutta notizia sul pubblico meno provveduto ma più numeroso.
Essi -i capi cioè della maggioranza- sono abituati nelle difficoltà a cercare una via di fuga accusando i predecessori, di ogni colore o sfumatura, anche quelli con i quali uno di loro -Salvini- ha avuto la ventura o sventura di partecipare a maggioranze diverse, di avere lasciato un’eredità troppo devastante per poterne uscire nel così poco tempo che essi hanno avuto a disposizione per cambiare le cose. Ma circostanze a dir poco sfortunate smentiscono la credibilità di questa via di fuga. Sono le circostanze dei numeri e dei segni + lasciati dal governo del conte, al minucolo, Paolo Gentiloni che ha preceduto quello di Conte, al maiuscolo. E sono anche gli effetti di alcuni provvedimenti che il nuovo governo ha già avuto il modo di prendere ed eseguire, come quello che voleva restituire “dignità” al lavoro. O di quelli annunciati e via via elaborati provocando ansie, a dir poco, nei cosiddetti mercati finanziari. Che si sono tradotte in un aumento notevole del costo e alla fine anche dell’entità del già ingente debito pubblico.
Siamo così arrivati alla “gelata” sovrapposta nel titolo del manifesto alla facciata della sede nazionale della Banca d’Italia, dove secondo Di Maio “si sbaglia sempre”.
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