Neppure il richiamo al prescritto eccellente, “il Divo”, aiuta la guerra grillina alla prescrizione

Il Fatto Quotidiano -e chi sennò- si è affrettato a scomodare il fantasma di Giulio Andreotti per cercare di mettere in difficoltà, se non tacitare, Giulia Bongiorno. Che nella doppia veste di ministro e di avvocato ha osato criticare, e pure pesantemente, la guerra alla prescrizione dichiarata dal suo collega di governo, e un po’ anche di professione, Alfonso Bonafede: accusato, in particolare, di voler usare “una bomba atomica” contro la “ragionevole durata” dei processi introdotta nel 1999 nella Costituzione con la modifica dell’articolo 111.

Altro che “ragionevole” sarebbe, in effetti, la durata dei processi se la prescrizione valesse solo sino alla prima sentenza, come vorrebbe appunto il guardasigilli condividendo l’emendamento alla legge “spazzacorrotti” predisposto dai due relatori, entrambi colleghi di partito. I processi durerebbero all’infinito, non finendo -come dicono i sostenitori della riforma, o controriforma, secondo i gusti- ma semplicemente rovesciandosi, dalla difesa dell’imputato all’accusa, l’interesse presunto o reale a ritardare un giudizio finale, questa volta soltanto perché sgradito, di assoluzione.

“Non arretreremo di un millimetro”, ha garantito il guardasigilli replicando proprio ai rilevi della collega di governo, mentre il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio partiva per la Cina escludendo che l’arretramento possa avvenire anche solo sul piano procedurale. Cioè, con la decisione di scendere dalla legge sulla corruzione per montare su un’altra legge, o presentarne una apposta. La legge spazzacorrotti deve quindi potersi chiamare anche spazzaprescritti. Il più famoso ed emblematico dei quali rimane nella memoria di Travaglio, ma anche di Nino Di Matteo, intervistato nell’occasione proprio dal Fatto Quotidiano, la buonanima di Giulio Andreotti.

L’ex presidente del Consiglio fu a suo tempo assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per la quale era stato mandato a processo, ma prescritto, come si dice in gergo tecnico e dispregiativo, per l’associazione a delinquere configurabile, secondo i giudici, negli incontri compromettenti da lui avuti sino alla primavera del 1980 con esponenti poi rivelatisi mafiosi.

Tanto compromettenti furono peraltro quegli incontri che, una volta diventato presidente del Consiglio, Andreotti concorse curiosamente alla nomina di Giovanni Falcone, il magistrato simbolo della lotta alla mafia, sino ad esserne ucciso, a direttore generale degli affari penali del Ministero della Giustizia. E poi sfornò, sempre contro la mafia, un decreto legge tanto ai limiti della Costituzione da essere emesso con fatica dal presidente della Repubblica, e non essere votato in Parlamento dall’opposizione comunista.

Di Matteo ha ancora rimproverato a Giulia Bongiorno dalle colonne del giornale di Travaglio di avere festosamente gridato tre volte “assolto” all’indirizzo del suo assistito eccellente, nel momento del verdetto d’appello, sorvolando sulla prescrizione che lo aveva ugualmente macchiato. E di cui ancora si vanta ogni volta che può, a voce e per iscritto, Giancarlo Caselli. Il quale alla guida della Procura della Repubblica di Palermo condusse l’offensiva giudiziaria contro Andreotti, il veterano della Dc e del suo potere.

La fedeltà al suo antico assistito, o “Divo”, come lo incoronò Paolo Sorrentino col suo famoso film, nella interpretazione di Toni Servillo, non è la sola colpa rinfacciata in questi giorni alla ministra Bongiorno dagli alleati di governo grillini. E recepita anche da Emilio Giannelli, che con quel nome che porta di Giulia l’ha ritratta sulla prima pagina del Corriere della Sera come variante femminile di Andreotti, diventato persino la proiezione della sua ombra. Le viene un po’ rimproverato anche il fresco approdo, dai lidi finiani della Destra, alla Lega. Di cui nei giorni o nelle ore dispari i grilli ricordano i rapporti passati al governo nazionale con l’odiato Silvio Berlusconi, un altro prescritto eccellente, e quelli perduranti a livello locale, dove peraltro il centrodestra continua a presentarsi unito.

Di stampo berlusconiano o protoleghista sarebbero appunto la difesa della prescrizione e tutti o quasi gli emendamenti proposti dai parlamentari del Carroccio alla legge “spazzacorrotti”.

Vedrete che prima o dopo, compulsando qualche vecchia rassegna stampa, con la stessa ossessione o chirurgica selezione riservata a verbali giudiziari, intercettazioni e quant’altro, i grillini e le loro prolunghe mediatiche scopriranno le pulsioni andreottiane dei leghisti della prima ora, approdati a decine in Parlamento nella legislatura uscita dalle urne del 1992.

Quando Francesco Cossiga invertì con le sue improvvise dimissioni da presidente della Repubblica l’ordine degli adempimenti istituzionali delle nuove Camere, dando la precedenza alla sua successione sul Quirinale rispetto alla formazione del governo, Umberto Bossi chiese consigli a Gianfranco Miglio. Che la mattina gli suggeriva di aspettare la candidatura di Andreotti, preferita a quella in arrivo del segretario della Dc Arnaldo Forlani con l’appoggio di Bettino Craxi, e il pomeriggio invece gli perorava la causa di Cossiga, dimessosi secondo lui per tentare astutamente la rielezione dopo il naufragio sia di Forlani sia di Andreotti.

Furbo ma non ancora allenato a dovere ai giochi di palazzo, e pur tentato più  dall’idea di un ritorno a Cossiga, il cui piccone non aveva certamente danneggiato la Lega negli ultimi due anni della passata legislatura e nella campagna elettorale di quell’anno, Umberto Bossi tagliò  la testa al toro sterilizzando i voti dei suoi ottanta e passa parlamentari. Dalla seconda alla sedicesima e ultima votazione tenne ferma la candidatura di bandiera di Miglio, che nel frattempo si era però convinto che convenisse alla Lega più l’elezione di Andreotti che il sempre più improbabile ritorno di Cossiga.

La partita del Quirinale era destinata a chiudersi nel modo più imprevisto, a favore di Oscar Luigi Scalfaro, ancora fresco di elezione alla presidenza della Camera. A dargli una mano, facendolo prevalere sul presidente del Senato Giovanni Spadolini come soluzione “istituzionale”, fu il clima di disorientamento e di emergenza creatosi con la strage mafiosa di Capaci, costata la vita a Falcone, alla moglie e a tre dei quattro uomini della scorta.

Col democristianissimo Scalfaro poi Bossi si sarebbe trovato benissimo quando ne fu incoraggiato – solo due anni dopo, pensate-  a liquidare anzitempo il primo governo di centrodestra del Cavaliere di Arcore.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

Il fantasma di Andreotti evocato nell’assalto grillino alla prescrizione

            Stavolta Emilio Giannelli ha francamente toppato con la sua vignetta sul Corriere della Sera, che fa dell’avvocato e ministra Giulia Bongiorno, per via della difesa della prescrizione dall’assalto dei grillini, l’ombra e insieme la versione femminile di Giulio… Andreotti, il suo cliente certamente più famoso di studio, che all’epoca però era quello di Franco Coppi. Dove fu proprio lei ad essere applicata maggiormente a quell’imputato eccellente di mafia, sette volte presidente del Consiglio e innumerevoli altre ministro: dell’Interno, della Difesa, delle Finanze, dell’Industria, degli Esteri. E prima ancora sottosegretario di fiducia del presidente Alcide De Gasperi.  

           scheda Bongiorno.jpg Giannelli in questa occasione ha usato anche una matita o un penino spuntato, attinto nel veleno di un articolo pubblicato il giorno precedente dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, richiamato in prima e corredato di una “scheda” che parla da sé, a leggerla nella sua brevità, o essenzialità, come preferite. Quel giornale vi è tornato peraltro il giorno successivo con una intervista a Nino Di Matteo, il pubblico ministero del processone sulla “trattativa” fra lo Stato e la mafia negli anni delle stragi.

           Di Matteo condivide naturalmente l’assalto grillino alla prescrizione, che andrebbe  bloccata secondo lui  non alla prima sentenza ma già alla richiesta del rinvio a giudizio. E ricorda come essa fosse servita ad Andreotti, appunto, per uscire senza una condanna dal processo in cui lo aveva assistito l’avvocato Bongiorno, alla fine esultante impropriamente -secondo il magistrato- per la sua “assoluzione”. Che pure ci fu, dichiarata papale papale dai giudici in riferimento al reato di associazione mafiosa per cui l’ex presidente del Consiglio era stato rinviato a giudizio, peraltro col suo stesso consenso, avendo  l’allora senatore a vita votato palesemente nell’aula di Palazzo Madama a favore dell’autorizzazione a procedere contro di lui.

            La prescrizione fu applicata al reato di associazione a delinquere configurato dai giudici negli incontri avuti da Andreotti prima del 1980 con esponenti siciliani poi risultati giudiziariamente mafiosi: peraltro rivelatisi così poco influenti su di lui da non avergli potuto impedire alla guida del suo ultimo governo di assumere fra i dirigenti del Ministero della Giustizia un magistrato come Giovanni Falcone e da rafforzare la lotta alla mafia con un decreto legge così al limite della Costituzione, da essere stato emanato controvoglia dal presidente della Repubblica, e non votato dai comunisti in Parlamento. Sono circostanze che poi contribuirono a determinare l’assoluzione dell’imputato nei processi sopraggiunti alla sua lunga esperienza di governo. Ma quelle, o queste, sono evidentemente inezie alla mente e al palato degli irriducibili avversari del “Divo”, come lo chiamano al Fatto Quotidiano sposandone la celebre rappresentazione cinematografica di Paolo Sorrentino.

            Nel merito della polemica politica, anzi dello scontro in corso all’interno della maggioranza gialloverde sul tema della prescrizione, più in particolare sul tentativo di sopprimerla all’emissione della sentenza di primo grado, anche di assoluzione, c’è da registrare il solito, irriducibile annuncio del guerriero di turno: “Non arretreremo di un millimetro”, ha detto il guardasigilli Alfredo Bonafede sposando gli emendamenti presentati dai due relatori, e colleghi di partito, alla legge “spazzacorrotti”, ora anche spazza-prescrizione. E’ una legge ordinaria che pure ogni tanto capita di scambiare per decreto legge per il ricordo dei tentativi compiuti dal governo di vararla in questo modo, e falliti per l’indisponibilità del capo dello Stato a consentirlo, data la sfacciata mancanza dei “casi straordinari di necessità e d’urgenza” richiesti dall’articolo 77 della Costituzione per questo tipo di interventi. 

            A dispetto tuttavia di quel “millimetro” di arretramento escluso in prima battuta, il guardasigilli ha detto -guarda caso proprio in una intervista al Corriere della Sera- che “siamo qui in ascolto, se si vuole migliorare il testo” proposto dai due relatori colleghi di movimento. Nel frattempo altri grillini più o meno esplicitamente minacciano ritorsioni contro i leghisti nell’esame di alti provvedimenti cui tiene molto il partito di Matteo Salvini: quelli sulla legittima difesa, su immigrazione e sicurezza.

 

 

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Lotta Continua nella maggioranza di governo, ma anche nel Pd

              Nata nel mondo extraparlamentare di sinistra nel 1969, dissoltasi come movimento nel 1976 e sopravvissuta sino al 1982 come testata giornalistica, Lotta Continua è tornata a vivere di recente come stile o metodo di vita politica: prima nel Partito Democratico e poi nella maggioranza gialloverde del governo di Giuseppe Conte.

            I danni procurati col cosiddetto fuoco amico al Pd si sono visti nel referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale tentata dal governo di Matteo Renzi e nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018. E non è finita perché, per quanto ridotto ben sotto il 20 per cento dei voti, dal quasi 41 cui lo aveva portato Renzi nelle elezioni europee del 2014, il maggiore partito della sinistra continua a vivere più di risse interne che d’altro.

            Il percorso del congresso appena imboccato con le dimissioni formali del segretario ex reggente Maurizio Mattina sembra contrassegnato dalla volontà dei vari candidati alla segreteria, effettivi e potenziali, di contrapporsi o distinguersi da Renzi, che pure non è in corsa, piuttosto che dalla capacità di formulare una proposta politica, di programma e di alleanze, alternativa alle sue idee. E’ una situazione paradossale, a dir poco, che lascia ben poche speranze a chi ancora vorrebbe aiutare il Pd a riprendersi. E ne lascia molte invece ai sostenitori della maggioranza gialloverde, insidiabile più da sinistra che dal centrodestra spaccatosi con Salvini al governo e Silvio Berlusconi all’opposizione.

            Ma il guaio, per i sostenitori della combinazione grillo-leghista, che pure sono tanti stando ai sondaggi, da cui il governo Conte è appena uscito col 58 e rotti per cento dei voti di cosiddetto gradimento, è che Lotta Continua vive e prospera anche da quelle parti. Non vi è giorno, e persino ora del giorno, senza che non scoppi una grana fra il movimento grillino delle 5 stelle e la Lega, o all’interno di essi, specie del primo, dove la confusione è sempre stata di casa ma va aumentando man mano che l’azione di governo mette a nudo la debolezza o l’irrealismo delle costosissime promesse elettorali.

            Non si era ancora spento, anzi non si era spento per niente il fuoco scoppiato attorno ai dubbi espressi dal potente sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti sulla fattibilità del cosiddetto reddito di cittadinanza, che invece il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio vorrebbe far trovare sotto l’albero di Natale ai suoi elettori con tanto di decreto legge, e se n’è acceso un altro, di fuochi, sulla prescrizione da bloccare alla sentenza di primo grado.

            “Una bomba atomica sui processi”, ha gridato con orrore la ministra leghista della pubblica amministrazione Giulia Bongiorno. Che di processi s’intende bene come avvocato e sa di quanto potrebbero allungarsi, praticamente all’infinito, senza la prescrizione appunto, lasciando gli imputati appesi alla corda dei tribunali per tutta la vita. “Risposta sbagliata a un problema vero”, ha criticato l’insospettabile Edmondo Bruti Liberati, già capo della Procura della Repubblica di Milano. “Una riforma scellerata”, ha detto l’ex magistrato Carlo Nordio.

            Per il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede -pure lui avvocato ma meno abituato della sua collega di governo e di professione ai processi, non foss’altro per i dieci anni in meno di attività, senza volere esprimere alcun giudizio sul merito- sarebbe invece la prescrizione lo scandaloso ostacolo alla sete di giustizia degli onesti, e la garanzia dell’impunità dei disonesti.

            Entrambi i lottatori si richiamano al famoso “contratto” di governo stipulato fra i loro partiti: l’una per negare che la misura proposta dall’altro vi sia contenuta, e il guardasigilli per sostenere il contrario interpretando a suo modo la formula ovviamente generica adottata nelle trattative di governo per rinviare ogni decisione.

            Nella disputa Salvini avrebbe forse voluto soccorrere di nuovo il suo omologo e alleato Di Maio con la solita miscela di opportunità e opportunismo politico, ma questa volta non ci è riuscito, o non ha voluto, come preferite. Ed ha pubblicamente condiviso almeno l’eccezione procedurale opposta dalla sua ministra, trovando eccessivo, stravagante, improprio e altro ancora il ricorso di Bonafede ad un emendamento alla legge  contro la corruzione per intervenire sulla prescrizione riguardante tutti i reati. E senza averne prima parlato in una riunione di governo, o vertice politico.

            A sentenziare su chi dei due ministri, e rispettivi partiti, abbia ragione si è naturalmente affrettato quella specie di tribunale del popolo che si sente Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, sostituendosi peraltro all’organo di risoluzione di simili vertenze previsto dal “contratto” di governo.

           Bongiorno e Divo Giulio.jpgPer il giornale di Travaglio ha ragione naturalmente Bonafede e torto Bongiorno, peraltro imprudente ad esporsi -come indicato in un richiamo di prima pagina- dopo avere fatto le proprie fortune di avvocato difendendo il “Divo”. Si tratta naturalmente del compianto ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti, processato per mafia, oltre che per il delitto Pecorelli, e assolto con una macchia, diciamo così, prescrittiva: quella sempre vantata dal suo ostinato accusatore, l’allora capo della Procura di Palermo Giancarlo Caselli. Il quale è convinto di avere  non perso ma vinto la sua battaglia per la prescrizione applicata in appello, e confermata in Cassazione, ai rapporti avuti da Andreotti sino alla primavera del 1980, prima che nascesse il reato di associazione mafiosa e quando ancora si trattava di associazione a delinquere, con esponenti poi risultati mafiosi.

           Con questo precedente professionale, par di capire, l’avvocato e ministro Bongiorno non avrebbe quindi titolo ad occuparsi dell’iniziativa assunta dal suo collega Bonafede. E buona notte, come fa dire Giannelli a un attore della sua vignetta di prima pagina del Corriere della Sera.  

 

 

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La Lega consolida il sorpasso sui grillini e cresce il nervosismo nel governo

Schermata 2018-11-03 alle 05.55.21.jpg            Mentre il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio prenota per Natale un decreto legge per il r cosiddetto reddito di cittadinanza, allo scopo di smentire i dubbi sulla sua operatività ribaditi dal sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, la macchina dei sondaggi continua a sfornare brutte notizie per il movimento delle cinque stelle.         

            I dati appena emessi da Ipsos per il Corriere della Sera sono peggiori di quelli di Demos del giorno prima, pubblicati da Repubblica.  Anziché al 30, il partito di Matteo Salvini sale al 34,7 per cento dei voti, dal 17 delle elezioni politiche del 4 marzo scorso. I maggiori consensi arrivano al Carroccio per il 16 per cento dall’elettorato grillino, altrettanto dal bacino delle astensioni e per il 12 per cento dall’ormai ex elettorato di Silvio Berlusconi.

            Il movimento delle cinque stelle ha quasi un punto in più del risultato attribuitogli dalla Demos: il 28,7 per cento contro il 27,6 ma pur sempre meno del 32 per cento delle elezioni politiche di marzo. In ogni caso il sorpasso dei leghisti sui grillini è ormai stabilizzato, più consistente al Nord che al Centro-Sud.

            Di fronte a questo quadro, tradotto bene nella vignetta di Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, con quel Salvini che sale come lo spread sulla scala mobile e Di Maio che in discesa lo ammonisce, si capisce l’animosità fra i due partiti di governo, che emerge ora su un tema e ora su un altro, ma crescente. E la gran fatica che deve fare il presidente grillino del Consiglio Giuseppe Conte a proteggere il governo dai contraccolpi, specie in vista dei passaggi parlamentari sul bilancio, sul decreto della sicurezza, su quello per Genova zavorrato col condono edilizio a Ischia, e ora anche sulla prescrizione. Che il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede, spiazzando i leghisti alquanto infastiditi, ha voluto tentare di riformare perentoriamente, bloccandola alla sentenza di primo grado. E con una intrusione emendativa della legge di contrasto alla corruzione, anche se il blocco della prescrizione non è limitata a quel reato.

           Bonafede.jpg “E’ nel contratto”, in verità un po’ generico in materia, ha detto Bonafede reagendo alle obbiezioni degli alleati e sventolando la sua proposta come una bandiera, al pari del già ricordato reddito di cittadinanza, del no alla Tav al Nord, specie ora che i grillini hanno dovuto subire la Tap al Sud, dei vitalizi da abolire ora anche nei consigli regionali, tagliando i fondi dello Stato a quelli che non si allineano, e naturalmente dei tagli alle pensioni cosiddette d’oro, oltre cioè i 4500 euro netti mensili. Che sono peraltro meno dei 5000 scritti nel famoso contratto di governo continuamente richiamato nelle polemiche interne ed esterne alla maggioranza.

            Ci sono altre cose del contratto che via via si sono assottigliate ai danni delle attese dei leghisti: per esempio, la cosiddetta tassa piatta, sostanzialmente accantonata per privilegiare il finanziamento del reddito di cittadinanza e della riforma della legge Fornero sull’accesso alle pensioni. Se n’è doluto il sottosegretario Giorgetti osservando che un aumento del deficit per via della tassa piatta avrebbe forse trovato, per gli effetti che avrebbe provocato sulla ripresa, minori resistenze nella Commissione Europea. Di Maio, peraltro in partenza per la Cina, gli ha risposto dicendo testualmente degli alleati legisti in una intervista al Corriere della Sera: “Hanno fatto loro una scelta politica. Sono le loro scelte per la legge di bilancio. Io sono soddisfatto delle mie. Se loro non sono soddisfatti delle loro non dipende da noi”. E’ sale sulle ferite. Ma i leghisti possono consolarsi, almeno per ora, con i sondaggi elettorali.

 

 

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Il Governo fa orecchie da mercante al “sollecito” europeista del Quirinale

            Il Governo, con la maiuscola usata per riguardo dal capo dello Stato nella lettera inviatil manifesto.jpga al presidente del Consiglio, e apparsa non solo al manifesto “una strigliata a Conte”, ha fatto orecchie da mercante alle preoccupazioni ed esortazioni del Quirinale sul bilancio preventivo del 2019, licenziato per le Camere con la necessaria, ma forse anche sofferta autorizzazione di Sergio Mattarella.

            A quest’ultimo, che lo aveva “sollecitato” per dichiarato senso del “dovere” a “sviluppare con le istituzioni europee “il confronto e un dialogo costruttivo”, evidentemente maggiore di quanto non sia sinora avvenuto, perché diversamente il sollecito non avrebbe avuto senso, il presidente del Consiglio ha risposto con un comunicato che il dialogo con la Commissione di Bruxelles è “proficuo e costante”. Ci sarebbe quindi ben poco da chiedere in più da parte del Governo, sempre con la maiuscola.

            Piuttosto -par di capire dalla risposta a mezzo stampa di Giuseppe Conte- dovrebbero essere gli interlocutori di Bruxelles a rendersi finalmente conto delle ragioni di Roma. Dove si reclama più spesa e più deficit in funzione “espansiva”, ha ribadito il presidente del Consiglio. Che ha profittato dell’occasione per tirarsi fuori da ogni tipo di responsabilità di fronte ai dati peggiorativi della situazione, tutti addebitabili quindi al governo precedente: blocco del pil nel terzo trimestre dell’anno in corso, aumento della disoccupazione, crescita dello spread, conseguente aumento degli interessi da pagare sul debito pubblico e altrettanti rischi di tenuta delle banche imbottite di titoli di Stato.

            Il carico da novanta alla risposta governativa l’ha messo tuttavia il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini. Che, precedendo una volta tanto sullo scivoloso terreno economico il collega grillino Luigi Di Maio, ha dato appuntamento ai sovranisti d’Italia, leghisti e non, per l’8 dicembre a Roma, in Piazza del Popolo, quando il Parlamento sarà ancora alle prese con la legge di bilancio, e probabilmente sarà anche partita la minacciata procedura d’infrazione europea. L’obiettivo è  di gridare tutti insieme che si va avanti e che “nessuna letterina o letterona potrà farci tornare indietro”, da chiunque firmata.

           Salvini.jpg “Lasciateci lavorare”, ha intanto gridato per conto suo il leader della Lega, imbaldanzito da una serie di circostanze a lui indubbiamente favorevoli, e in qualche modo anche meritate, come la notifica della richiesta di archiviazione del procedimento giudiziario avviato, pur sulla corsia protetta del cosiddetto tribunale dei ministri, per la vicenda della nave Diciotti con l’accusa di sequestro plurimo e aggravato di persone: gli immigrati curiosamente soccorsi in mare da quella stessa nave.

            Non ci voleva molto, in verità, a capire che quell’accusa non stava in piedi, come le altre originariamente mosse dal capo della procura della Repubblica di Agrigento e già ridotte dalla Procura di Palermo, prima dell’approdo dell’inchiesta alla Procura di Catania. Nel cui porto quel pattugliatore della Guardia Costiera era alla fine approdato.

           Naturalmente il procuratore di Agrigento rimarrà tranquillamente al suo posto, convinto di avere fatto la cosa giusta. Così vanno notoriamente e legittimamente -cioè in conformità con le leggi in vigore- le cose in Italia.

            Scagionato, almeno su richiesta della Procura competente di Catania, dall’accusa di sequestratore di immigrati, Salvini si è guadagnato anche un ulteriore vantaggio sugli alleati di governo a cinque stelle nel sondaggio appena condotto per Repubblica dalla  Demos: 30 per cento dei voti contro il 27,6 dei grillini, scesi di cinque punti rispetto ai risultati delle elezioni politiche di marzo. Il gradimento personale di Salvini è inoltre del 60 per cento, contro il 53 di Di Maio.

           Travaglio.jpgLa crescita della Lega a danno dei grillini non piace naturalmente al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che si è affrettato a confezionare un bell’editoriale contro Salvini, come una volta faceva contro Silvio Berlusconi, e poi contro Matteo Renzi, e poi ancora contro entrambi, ed ora contro tutti e tre, accomunati dalle peggiori nefandezze politiche, ma anche di altro tipo. Dio li ha fatti e poi li ha messi insieme, evidentemente, anche se per il momento Salvini governa col partito o movimento che, fra tutti, è quello che piace di più, o dispiace di meno, a Travaglio.

 

 

 

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La sfida di Giuseppe Conte: “La nostra rivoluzione è appena iniziata”

              Con involontaria ironia, visto il proposito dichiarato di far capire e finalmente apprezzare la manovra economica del governo di fronte alle critiche o allo scetticismo suscitato in sede comunitaria, e non solo, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha avvertito con una intervista al Corriere della Sera che “la nostra rivoluzione è appena iniziata”. Nostra, intesa naturalmente come governo e maggioranza gialloverde. I cui problemi interni sarebbero quanto meno sopravvalutati, perché “la tenuta”, specie quella della compagine ministeriale, “è solida, come i fondamentali -ha detto Conte- della nostra economia”, a dispetto dei quali la pur debole crescita si è fermata nel terzo trimestre, la disoccupazione è aumentata e lo spread è arrivato dov’è compromettendo i risparmi degli italiani, ha appena avvertito il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Che non sarà stato eletto dal popolo, come gli ha recentemente rinfacciato il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, ma in materia ha più esperienza e competenza di lui, per non scomodare altri argomenti di carattere istituzionale.

            Della sorte dei risparmi degli italiani e degli equilibri dei conti pubblici è tornato a mostrarsi preoccupato anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il quale ha profittato dell’occasione anche per ricordare ai cosiddetti sovranisti di casa nostra, insofferenti dei vincoli europei, che proprio dalla tenuta dei conti e dalla difesa del risparmio, peraltro tutelato dalla Costituzione, dipende la “sovranità effettiva” dell’Italia, come di ogni altro Paese.

            Il capo dello Stato ha infine inviato al presidente del Consiglio una lettera di accompagnamento all’autorizzazione a presentare in Parlamento il  disegno di legge sul bilancio del 2019 raccomandandogli, in sostanza, molta prudenza nella gestione dei rapporti con l’Unione Europea, perché atteggiamenti di sfida e rotture sulla manovra finanziaria già contestata dalla Commissione di Bruxelles aggraverebbero le difficoltà del Paese.

            Tornando all’intervista al Corriere della Sera, di tutt’altro segno, sulla rivoluzione “appena iniziata”, il presidente del Consiglio è ricorso anche all’immagine dei “primi tasselli” messi in questi mesi per concludere, nella prospettiva di una durata del governo sino alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 2023: “Vogliamo cambiare l’Italia da cima a fondo”. Forse anche con l’aiuto della informazione televisiva della Rai, i cui nuovi direttori sono stati appena nominati dal Consiglio di Amministrazione dell’azienda di Stato con una selezione culturale e politica ristretta ai due partiti di governo.

            “Cambiare l’Italia da cima a fondo” ricorda il proposito di “rivoltarla come un calzino” attribuito negli anni dell’inchiesta giudiziaria famosa come Mani pulite all’allora sostituito procuratore della Repubblica di Milano Piercamillo Davigo. Che, oggi componente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha sempre smentito, in verità, di avere parlato in quei termini. Lo avranno fatto forse altri in quella Procura. Dove però la delusione per i risultati alla fine conseguiti fu enorme, ed espressa pubblicamente dal capo in persona. Che era Francesco Saverio Borrelli.

Dalla Rai dei partiti a quella del governo bicolore gialloverde

Sarei umanamente e professionalmente grato a Luigi Di Maio, ma anche a Matteo Salvini, se evitassero di applicare alla Rai, dopo le nomine effettuate dal Consiglio di Amministrazione dell’era gialloverde, la stessa denominazione data all’accidentata manovra finanziaria del loro governo.

Non siamo approdati alla Rai “del popolo”, come si è detto appunto della manovra, dalla Rai  “dei partiti”, come l’azienda radiotelevisiva di Stato è stata definita, a torto o ragione, nella lunga stagione della lottizzazione. Così la chiamò all’esordio l’indimenticato e indimenticabile Alberto Ronckey. Che da “ingegnere” -come l’aveva definito con affettuosa ironia sull’Unità Fortebraccio quando ancora Alberto dirigeva La Stampa, lacerandosi ogni notte davanti agli errori che scopriva leggendone le prime copie- ad ogni sfornata di nomine  nel palazzone di viale Mazzini sapeva distinguerne il colore politico: un precursore, nel campo dell’informazione radiotelevisiva, di Massimiliano Cencelli. Il cui “manuale” fu adottato dalle correnti della Dc per distribuirsi le cariche, di partito e di governo e sottogoverno dopo ogni congresso o crisi ministeriale.

Ronckey, in verità, commentava le nomine dall’alto, in editoriali dove non faceva nomi. Ma parlandone con lui, mi resi conto che conosceva quel mondo a menadito.

Se poi Di Maio avrà trovato la disinvoltura di parlare di “Rai del popolo” dopo che avrò finito di scrivere queste righe, me ne farò una ragione. Ma il popolo non c’entra per nulla, è chiaro. Siamo rimasti alla Rai dei partiti, in una versione tuttavia peggiorata rispetto al passato, recente e non. Siamo approdati alla Rai del governo, perché accordo, spartizione e quant’altro sono stati raggiunti fra i soli partiti della maggioranza, almeno a livello dei telegiornali, perché una traccia di opposizione si trova solo alla direzione della radio, dove è stato trasferito Luca Mazzà, il direttore uscente del Tg3, l’ex lontano Telekabul di Alessandro Curzi.

Non si era mai visto, francamente, nulla di simile, forse neppure ai tempi della Rai del pur storico direttore generale Ettore Bernabei, l’uomo di fiducia di Amintore Fanfani. Sotto la cui ferma regìa  il cosiddetto pluralismo nel settore dell’informazione si esauriva nel perimetro della Dc, ma con poche -debbo aggiungere- e fortunate eccezioni professionali a sinistra dello scudo crociato, mai comunque a livello direttivo.

Le forme saranno pure state salvate, con le nomine proposte formalmente al Consiglio dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, ma non sono state per niente salvate nelle trattative fra i due soli partiti che si sono arrogati il ruolo di “editori di riferimento” dei telegiornali. Così una volta scappò di dire con onestà a Bruno Vespa parlando del tg 1 che dirigeva e della Dc che ve lo aveva mandato premiandone, per carità, le indubbie doti e competenze professionali. Di cui egli dà ancora prova nel salotto televisivo di Porta a Porta, promosso da Giulio Andreotti a “terza Camera”, dopo quelle decisamente più affollate di Montecitorio e di Palazzo Madama.

Con i tempi che corrono, e con la conoscenza che ho della Rai, non foss’altro per avervi per qualche anno collaborato, apprezzandone il personale molto più di quanto abbia mostrato anche di recente Di Maio parlandone come di una folla di “raccomandati” e “parassiti”, temo di dover rimpiangere la vecchia lottizzazione. Che ha regalato al pubblico, almeno per i miei gusti, e grazie proprio alla presenza dell’opposizione, la terza rete di Angelo Guglielmi.

D’altronde, mi è già accaduto di fronte alle convulsioni del Pd, dove il cosiddetto fuoco amico è superiore spesso a quello del nemico, di rimpiangere il “centralismo democratico” di memoria togliattiana.

Nonostante queste premesse, vorrei fare gli auguri di buon lavoro ai nuovi direttori dei telegiornali della Rai: Giuseppe Carboni al Tg1, Gennaro Sangiuliano al Tg 2, Giuseppina Paterniti al Tg 3 e Alessandro Casarin ai telegiornali regionali.

Pur nominati nel peggiore o più vecchio dei modi, come preferite, essi meritano il credito che impone la loro professione. Sono sicuro che una cartolina di auguri gliel’avrebbe mandata anche il mio vecchio amico e compianto Andrea Barbato.

Il loro successo dipenderà dalla misura in cui sapranno affrancarsi dal bicolore gialloverde che le circostanze, diciamo così, hanno voluto che li selezionasse. Voglio ignorare le diverse tonalità  del gialloverde con cui sono stati descritti nella cronache delle trattative politiche che hanno preceduto la loro nomina per rendere i miei auguri non di circostanza, ma autentici.

 

 

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