Quella “frittata” sfuggita all’ex presidente del Consiglio Romano Prodi parlando del lavoro svolto dall’amico Giuliano Pisapia per un apparentamento elettorale col Pd di Matteo Renzi è una rappresentazione tanto realistica quanto negativa dell’impresa inutilmente tentata dall’ex sindaco di Milano. Che nel migliore dei casi sarebbe stata appunto una frittata, niente di più: non certamente il massimo per un’operazione che si riprometteva di salvare la prospettiva di un nuovo centrosinistra dal naufragio elettorale di fronte alla concorrenza del centrodestra da una parte e dei grillini dall’altra, e al boicottaggio condotto di fatto dalla sinistra antirenziana appena affidatasi all’immagine del presidente del Senato Pietro Grasso.
La frittata piacerà magari a Prodi a tavola, ma non è un bel piatto da servire in politica, specie considerando le frittate offerte dallo stesso Prodi nelle sue due esperienze di governo: entrambe finite abbastanza male, a dieci anni di distanza l’una dall’altra.
Nel 1998 il professore emiliano cadde alla Camera dopo circa due anni e mezzo trascorsi a Palazzo Chigi, cioè a metà legislatura, per mano della sinistra bertinottiana già stanca di sostenerlo e del rifiuto dell’ex presidente leghista di Montecitorio Irene Pivetti di correre a votargli la fiducia, essendo presa dall’allattamento della figlia nata da poco. Il collante della maggioranza ulivista non era evidentemente dei migliori.
Nel 2008 il secondo governo Prodi cadde dopo meno di due anni dalla nascita. E a rovesciarlo non fu la corruzione di un senatore del centrosinistra addebitata giudiziariamente a Silvio Berlusconi, sia pure in modo non definitivo, ma la reazione del suo indagato ministro della Giustizia Clemente Mastella all’arresto della moglie presidentessa del Consiglio regionale della Campania. Fu un arresto disposto su richiesta della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere per il solito procedimento destinato a dissolversi lungo la strada.
Ma più significativa della frittata sfuggitagli parlando della rinuncia di Pisapia a continuare le trattative politiche ed elettorali col Pd di Renzi è forse l’opinione espressa da Prodi che non si debba per questo considerare del tutto chiusa la partita. Evidentemente l’ex presidente del Consiglio ritiene che qualcosa possa essere ancora ritentata in quella stessa direzione, col medesimo Pisapia o con altri del suo ormai ex “campo progressista” che avranno voglia di sottrarsi alla corte dei “Liberi e uguali” di Grasso.
Anche il presidente del Senato, del resto, comincia ad avere i suoi problemi, nonostante il sorriso abituale col quale si muove. E sono problemi provenienti da una direzione davvero a sorpresa, vista l’accusa già rimediata da Grasso di essersi prestato a fare, all’età di quasi 73 anni, il “prestanome” di Massimo D’Alema, come ha scritto il vecchio, navigatissimo Emanuele Macaluso. Che conosce bene i compagni di una vita.
E’ tanto dalemiano da essere il direttore della rivista dei suoi “Italianieuropei” l’ex parlamentare Peppino Caldarola. Che ha appena confidato al Foglio di votare di certo, ma a malincuore, alle prossime elezioni la lista che gli proporrà Grasso. Di cui non gli vanno per niente bene il modo verticistico in cui è stato scelto a capo della nuova sinistra antirenziana e la provenienza dalla magistratura. Che allunga anche sul nuovo campo l’ombra del “giustizialismo” e della confusione che danneggiò il Pds-ex Pci nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, venticinque anni fa, ai tempi delle indagini “Mani pulite” e della ghigliottina mediatica che ne derivò: prima ancora che si svolgessero i processi, e che molti imputati di corruzione, concussione e quant’altro venissero assolti, anche se il buon Peppino ha omesso di ricordarlo.
Rispondi