Funerali e feste in Italia per i risultati delle elezioni in Austria

Come nel “Paese dei campanelli” immaginato nel 1923 da Carlo Lombardo con una fortunata operetta in tre atti, sia pure ispirata a ben altri e più divertenti vicende di coppie incrociate, è subito scattato in una certa intellettualità italiana impegnata a sinistra l’allarme per i risultati elettorali in Austria. “Un campanello d’allarme per l’Italia”, ha scritto appunto Massimo Giannini su Repubblica. E di converso, a destra, si sono accesi i fuochi dell’entusiamo perché a Vienna -hanno titolato quelli di Libero- “hanno vinto i cloni di Berlusconi e Salvini”, che pertanto potrebbero mettersi i campanelli ai piedi per attraversare festosamente la penisola e attrarre elettori.

Il clone austriaco di Berlusconi sarebbe il nipote- stando all’età- Sebastian Kulz, della famiglia  “popolare” europea, che col 31,6 per cento dei voti ha prenotato la cancelleria grazie all’alleanza scontata con Heinz Christian Strache, che col suo partito ancora più a destra ha raccolto il 25,9 per cento.

Peccato, per loro, che Berlusconi e Salvini queste percentuali possono solo sognarle. Un sondaggio Demos ha appena attribuito al partito berlusconiano il 14,2 per cento e a quello di Salvini  il 14,6. Che fanno insieme, sommati, il 28,8 per centro, contro il 57,5 dei loro “cloni” austriaci. Ma -obietterà qualcuno- in Italia ci sono anche i “fratelli” di Giorgia Meloni. Sì, è vero. Ci sono anche loro, a destra, che fanno continuamente la spola fra berlusconiani e leghisti , prendendosela ora con gli uni e ora con gli altri, secondo i temi e i giorni, ma non vanno oltre il 5 per cento, sempre nei sondaggi, per quanto la giovane sorella d’Italia goda di grande attenzione e ospitalità mediatica, frequentando più salotti televisivi che piazze.

Il 28,8 per cento dei berlusco-leghisti più il 5 per cento dei loro “fratelli” d’Italia fanno solo il 30,8 per cento. Che, per quanto superiore al 27,6 accreditato ai grillini e al 26,3 del Pd guidato da Matteo Renzi, pur dopo la scissione dei vari Bersani e D’Alema, è ben lontano dal risultato dei “cloni” austriaci e da quella che, proprio per i numeri, si può ben considerare e definire una loro vittoria.

Cerchino quindi un po’ tutti, a sinistra e a destra, di darsi una calmata al di qua delle Alpi e di dismettere i panni sia del funerale sia della festa.

Scalfari certifica la democrazia del Pd di Renzi e della nuova legge elettorale

Reduce dalla festa dei dieci anni del Pd all’Eliseo, dove lo avevano invitato come fondatore di Repubblica e si era un po’ trovato e riscoperto anche come uno dei fondatori, pure lui, del partito guidato da Matteo Renzi,  visti i vuoti lasciati da Romano Prodi, Arturo Parisi ed altri vittime non si è ben capito se delle sciatterie organizzative o della loro permalosità, Eugenio Scalfari ne ha diligentemente riferito ai lettori un po’ come cronista e un po’ come editorialista. E lo ha fatto con una tigna, come si dice a Roma, che mi è apparsa un po’ come una rivincita, una puntualizzazione, una correzione rispetto ai colleghi di testata, giovani e non, che nei giorni precedenti avevano riferito delle vicende del Pd, del suo segretario e del suo capogruppo alla Camera, primo firmatario della riforma elettorale che ne porta il nome latinizzato di Rosatellum, in modo critico. Che lui, il fondatore, non ha per niente condiviso.

Scalfari ha trovato, a torto o a ragione, fra gli interventi di Renzi, di Walter Veltroni, che fu peraltro il primo segretario del Pd, e del presidente del Consiglio in carica Paolo Gentiloni un filo comune, politico e culturale. Che è quello di Giustizia e Libertà, dei fratelli Rosselli e poi del Partito d’Azione di Ugo La Malfa, cui si è sempre ispirato -ha ricordato Scalfari agli smemorati, giovani o meno anziani redattori e collaboratori del giornale da lui fondata- la linea editoriale e politica del gruppo Espresso e Repubblica.

Per tradurre in parole povere o concetti alla mano lo Scalfari tignoso dell’Eliseo, il Pd guidato da Renzi è di sinistra, checché ne dicano quelli che l’hanno lasciato indignati: di una sinistra di governo, non di opposizione e contestazione fine a  se stessa, utopistica e persino cavernicola sotto certi aspetti. E Renzi, anche grazie al disturbo levato da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni, ha potuto  finalmente conciliare la sua natura tendenzialmente solitaria con la “collegialità” di cui ha bisogno un partito democratico, desideroso di sopravvivere alle sorti del suo leader di turno.

Renzi più Gentiloni più Veltroni sono un collegio di cui potersi fidare, su cui potere scommettere, secondo Scalfari.  E basta con le solite campagne irrealistiche e denigratorie, come quella scatenatasi contro la nuova legge elettorale appena approvata a Montecitorio anche con lo scrutinio segreto finale, e non solo con le tre precedenti votazioni di fiducia per appello nominale. Essa “non viola la democrazia”, ha scritto il fondatore di Repubblica, che ne ha voluto  la certificazione anche nel titolo del suo commento, abituato a farselo da solo, pur con l’aria educata di proporlo.

L’unico, fra i collaboratori della testata ora guidata da Mario Calabresi, col quale Scalfari ha ritenuto di dovere polemizzare esplicitamente, considerandolo probabilmente il più adeguato al suo livello in un confronto, è stato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, convinto che anche la nuova legge elettorale tradisca, o quasi, la sovranità riconosciuta dalla Costituzione al popolo. Che però -dice l’articolo 1- “la esercita nelle forme e nei limiti” della stessa Costituzione,  la quale a sua volta affida l’approvazione delle leggi, compresa quella elettorale, al Parlamento, non al popolo direttamente col referendum, cui si può ricorrere solo per abrogare, parzialmente o in parte, le leggi in vigore, non per farne di nuove. Ma questo, a dire il vero, Scalfari non lo ha scritto così esplicitamente, forse per non umiliare il professore e amico Zagrebelsky rimproverandogli di non sapere o voler leggere bene la Costituzione.

Scalfari ha invece preferito -volando più in alto, forse troppo- opporre al populismo costituzionale, diciamo così, del presidente emerito della Corte “la storia millenaria”. Che a suo avviso ha sempre coniugato la democrazia dei molti, se non di tutti, con la oligarchia delle classi dirigenti e dello stesso Parlamento, dove si formano maggioranze e minoranze di forze politiche guidate per forza di cose dai pochi dirigenti, e non da tutti gli iscritti o militanti. E’ frutto di questo gioco democratico anche la legge elettorale ora all’esame del Senato.

Per fortuna Gustavo Zagrebelsky, pur avendo quasi 20 anni meno di Scalfari, ha conseguito i suoi titoli di studio e fatto carriera senza dovere ottenere i voti del fondatore di Repubblica. Sennò le bocciature si sarebbero sprecate.

L’Ischiatutto di Silvio Berlusconi, pizzicato anche dal Giornale di famiglia

Nonostante quel “Vinco o mi ritiro” gridato  col titolo principale della prima pagina per rilanciare ai lettori la promessa o minaccia, come preferite, che Silvio Berlusconi, con tanto di casco in testa, ha messo sul piatto elettorale, come aveva già fatto inutilmente Matteo Renzi nella corsa al referendum  dell’anno scorso sulla riforma costituzionale, neppure il Giornale di famiglia del capo di Forza Italia ha saputo trattenersi dall’incredulità ironica. Che si è espressa nella fulminante rubrichetta De minimis, sempre in prima pagina, scherzando sulla località dove Berlusconi l’aveva sparata così grossa per commentare: “Ischiatutto”. E con quel ch’è accaduto col terremoto a Casamicciola ci sarebbe ben poco da ridere.

Accomunati ben più di quanto i loro critici non abbiano pensato dando loro il soprannome di Renzusconi, i due ex presidenti del Consiglio, volenti o nolenti, si specchiano continuamente l’uno nell’altro. Lo fanno anche nel “teatrino della politica” che entrambi disprezzano a parole offrendosi agli elettori come avversari irriducibili.

“Sarà un corpo a corpo” in ogni collegio elettorale, ha detto Renzi celebrando i 10 anni del Pd, nel teatro romano dell’Eliseo, per respingere i sospetti dei suoi compagni usciti o rimasti nel partito che egli abbia già messo nel conto dopo le elezioni un’alleanza con Berlusconi.

“Lo escludo per storia e ideologia”, ha detto quasi contemporaneamente Berlusconi, sempre a Casamicciola, parlando dell’ipotesi di un governo delle cosiddette larghe intese col Pd dopo le elezioni e mostrando come più chiaramente non poteva quanta poca considerazione egli abbia intimamente sia della storia sia dell’ideologia. Della storia, perché risale a non più tardi di sei anni fa la sua decisione di  ritirarsi da Palazzo Chigi per appoggiare col Pd il governo tecnico di Mario Monti. Risale invece a non più tardi di quattro anni fa la decisione di Berlusconi di far partecipare il suo partito al governo presieduto dall’allora vice segretario del Pd Enrico Letta, cui poi avrebbe tolto l’appoggio per ritorsione contro la propria decadenza da senatore per essere stato condannato in via definitiva per frode fiscale, mentre i ministri che vi aveva messo rimanevano al loro posto uscendo invece dal suo partito e creandone un altro. Eppure dopo qualche mese soltanto Berlusconi, sempre lui, favorì in qualche modo la formazione del governo Renzi, sempre con quei ministri “traditori” dentro, facendo col segretario del Pd il famoso patto del Nazareno: ancora più importante di un patto di governo perché finalizzato addirittura alle riforme della Costituzione e della legge elettorale.

Per quanto riguarda poi l’ideologia, è curioso che ne parli proprio Berlusconi, che ha voluto e potuto entrare prepotentemente in politica grazie alla caduta delle ideologie, dopo il crollo del muro di Berlino e la liberalizzazione del voto cosiddetto di opinione dell’Italia divisasi ideologicamente, appunto, per quasi mezzo secolo fra comunisti e anticomunisti.

D’altronde, anche negli anni delle ideologie radicate, partiti dichiaratamente alternativi come la Dc e il Pci, per definizione dell’allora presidente democristiano Aldo Moro, andarono alle elezioni anticipate nel 1976 per uscirne accomunati nella maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale.

Per quanto euforico per il protagonismo politico conservato alla bella età di 81 anni, e nonostante la guerra subita sul piano giudiziario, Berlusconi dovrebbe un po’ contenersi nelle promesse o, in questo caso, nelle minacce di ritorsione verso gli elettori che la prossima volta dovessero impedirgli di ottenere la maggioranza. E ciò in uno scenario politico ed elettorale che, nonostante il concetto di coalizione riproposto dalla riforma nota com Rosatellum, non potrà permettere a nessuno -ma proprio a nessuno, neppure a Berlusconi, oltre che a Renzi, a Grillo e a chi capeggerà la sinistra cosiddetta radicale dei vari Bersani e D’Alema- di uscire dalle urne vincitore, titolare cioè di una maggioranza traducibile in un governo autosufficiente.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Perché sono rischiosi gli annunci di Silvio Berlusconi su larghe intese e dintorni

No Renzi, no Party all’Eliseo per i 10 anni del Pd

Il caso vuole che compiano dieci anni contemporaneamente il Pd di Matteo Renzi, con una festa organizzata al teatro romano dell’Eliseo, e un celebre spot televisivo in cui George Clooney si presenta appunto ad una festa senza la bottiglia di un celebre liquore chiestagli dalla padrona di casa, e ne viene perciò respinto.

Il Clooney dell’Eliseo può essere considerato l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, che però non ha avuto bisogno neppure di presentarsi alla porta, non avendo ricevuto l’invito per quella che il suo amico Arturo Parisi ha definito “una sciatteria colposa”, riservata peraltro anche a lui. Di cui gli organizzatori della festa conoscevano così bene gli umori, da funerale della democrazia, da avergli risparmiato la spiacevole ingombenza di parteciparvi.

In particolare, Parisi ha deciso di mettersi in lutto per la legge elettorale appena approvata dalla Camera e destinata, salvo sorprese, ad essere ratificata dal Senato entro questo stesso mese, prima che cominci l’assorbente sessione di bilancio, monopolizzata dal percorso parlamentare della legge di stabilità finanziaria.

Eppure la riforma elettorale ormai nota come Rosatellum per la brutta abitudine di tradurre in latino il nome del relatore o del promotore, che in questo caso è il capogruppo del Pd a Montecitorio Ettore Rosato, era l’unica possibile nelle attuali condizioni politiche per raccogliere la maggioranza più larga in Parlamento e garantire contemporaneamente allo stesso Pd, pur sceso dal 40 per cento dei voti delle elezioni europee del 2014 al 27 e rotti dei sondaggi attuali, quella variante dell’autosufficienza, o “vocazione maggioritaria”, propostasi all’atto di nascita  che è la centralità: cioè una condizione essenziale per la formazione, dopo il voto, di maggioranze parlamentari non condizionate dal partito orgogliosamente più antisistema sulla piazza. Che è quello di Beppe Grillo e delle controfigure politiche cui di volta in volta il comico genovese potrà ricorrere col combinato disposto del regolamento del suo movimento e del giochetto digitale delle consultazioni del pubblico pentastellato.

Renzi tuttavia fa male a scambiare la centralità del suo partito per una propria irrinunciabile candidatura a presidente del Consiglio, come ha fatto in una intervista a Repubblica appellandosi allo statuto del Pd. Che è appunto uno statuto di partito, non la Costituzione della Repubblica appena evocata dal presidente emerito Giorgio Napolitano per ricordare che i governi sono nominati dal capo dello Stato. Al quale non vi sono regolamenti di partito o leggi elettorali che possano imporre il rispetto di qualche candidatura o aspirazione a Palazzo Chigi, anche se in almeno quattro occasioni i presidenti della Repubblica, fra i quali lo stesso Napolitano, si sono  lasciati contenere, diciamo così, negli ultimi vent’anni e più: nel 1994 da Silvio Berlusconi, nel 1996 da Prodi, e nel 2001 e 2008 ancora da Berlusconi, sempre all’indomani di elezioni, ordinarie o anticipate.

E’ comprensibile che Renzi per ragioni propagandistiche, interne ed esterne al suo partito, cerchi di salvaguardare le sue aspirazioni al ritorno a Palazzo Chigi. Ma è chiaro che, dopo le elezioni, egli non potrà compromettere la centralità del suo movimento per tenere ferma la propria candidatura a presidente del Consiglio. Renzi dovrà rassegnarsi a sostenere il collega di partito più in grado di tenere unita una coalizione di governo. Lo statuto del Pd potrà attendere, o essere modificato, in attesa  che la formazione politica nata nel 2007 possa festeggiare i 20 anni da partito di maggioranza assoluta. Ma sarà obiettivamente difficile.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi spiego perché Matteo Renzi sbaglia sulla premiership

Così non è (se vi pare), cari indignati della riforma elettorale

In questo mondo alla rovescia che è diventata l’Italia, per quanto non sola, a dire il vero, basta rivoltare anche il titolo di una delle più celebri opere di Luigi Pirandello, peraltro nel centesimo anniversario della sua prima rappresentazione, per dare l’idea delle tante sciocchezze e falsità gridate nelle piazze più o meno pulite attorno alla Camera, e ripetute da sofferenti intellettuali a parole e per iscritto, mentre i deputati si apprestavano ad approvare con 375 voti favorevoli e 215 contrari, a scrutinio inevitabilmente segreto, la nuova legge elettorale. Che, se approvata anche al Senato, forse in questo stesso mese, consentirà quanto meno di andare alle urne, alla scadenza ordinaria della legislatura, senza la vergogna di un Parlamento   rassegnato per ignavia a lasciare la maternità delle regole alla Corte Costituzionale, anziché alle assemblee elette dai cittadini proprio per fare le leggi.

“Così è (se vi pare)”, titolava la sua opera Pirandello. “Così non è (se vi pare”, mi son detto sentendo dire in televisione dal salottiere di turno che il voto della Camera “ha spaccato il Paese”. E  leggendo il solito, immaginifico titolo del Manifesto sulla “Camera ardente”: ardente di rabbia e di lacrime per la cara estinta, che sarebbe naturalmente la democrazia.

Ma spaccata da chi e da che cosa, l’Italia? E uccisa da chi, la democrazia? I sì dei deputati sono prevalsi sui no di ben 160 voti, non di uno o due, o di dieci. E quanto ai cosiddetti franchi tiratori, a chi cioè ha votato contro le direttive dei rispettivi gruppi, dagli originari settanta, gridati dagli sconfitti, si è rapidamente passati a una quarantina , un po’ più della metà, quando cronisti pur contrari alla riforma elettorale nota come Rosatellum hanno onestamente rifatto i conti e avvisato gli amici che bisognava tener conto anche degli assenti giustificati perché in missione o altra causa. Ma figurati se gli amici avevano voglia di ragionare, presi piuttosto dallo spettacolo televisivo francamente incredibile di un Pier Luigi Berlusconi, involontariamente travestito da Lenin con quella calvizie, che aveva gli occhi lucidi di rabbia o di dolore ma al tempo stesso rideva compiaciuto del male che dicevano della nuova legge, fra gli altri, il sempre schifato Massimo Cacciari e quel sornione di Paolo Mieli. Che non ho capito bene, essendogli amico, se ci fosse o ci facesse liquidando la riforma come un agguato indecente ai grillini, destinati ad essere sopraffatti, perché soli nella corsa alla maggioranza, da avversari destinati, a loro volta, ad essere “sovrarappresentati” per effetto delle coalizioni che saranno in grado di realizzare col combinato disposto dei collegi uninominali e di più listini proporzionali collegati.

Ma, caro Paolo, ti sei accorto che la nuova legge non contiene alcun premio di maggioranza, neppure quello lasciato dalla Corte Costituzionale alla lista votata dal 40 per cento degli elettori recatisi alle urne? Senza premio di maggioranza, come si fa a parlare di partiti sovrarappresentati, appunto, peraltro di maggioranza e di opposizione, essendo stata la legge approvata da uno schieramento largo e trasversale ?

Smettiamola infine di parlare e di scrivere dei grillini  e della loro solitudine, intesa come partito che si presenta da solo, come vittime indifese della loro ingenuità o purezza. La loro non è né ingenuità né purezza. Il loro è un calcolo, un modo opportunistico di essere o di proporsi. Essi corrono da soli ritenendo che proprio perché soli, e quindi incontaminati e incontaminabili, possano raccogliere più consensi dagli elettori invitati da Grillo a votare “più con la pancia che con la ragione”.

Con questa storia del correre da soli e vincere lo stesso, o proprio per questo, i grillini sono riusciti a conquistare -si fa per dire- città come Roma e Torino, ma grazie al ballottaggio.  Che la legge elettorale voluta da Renzi e chiamata  Italicum previde anche a livello nazionale, nel cosiddetto combinato disposto con la riforma costituzionale. Ma prima i grillini concorsero a bocciare la riforma costituzionale nel referendum del 4 dicembre dell’anno scorso, e poi la Corte Costituzionale decapitò l’Italicum proprio del ballottaggio.

Appartiene infine all’elenco del “Così non è (se vi pare)” l’argomento apparentemente astuto del bersaniano di turno contro un Renzi che avrebbe obbligato Paolo Gentiloni a mettere la questione di fiducia sulla nuova legge elettorale più per danneggiarne l’immagine, vista la popolarità guadagnatasi dal conte come presidente del Consiglio, che per accelerare e blindare il percorso parlamentare della riforma. L’argomento fa il torto alla vittima Gentiloni di considerarlo un cretino.

 

 

 

 

Ripreso da www.formiche.net col titolo: Fatti e frottole sulla nuova legge elettorale  

Napolitano, come Sonnino nel 1897 con lo Statuto Albertino, inforca la Costituzione

Non vorrei rimediare, sia pure amichevolmente, il bastone di Giorgio Napolitano in testa ma la sua sortita contro la riforma elettorale in uscita dal Parlamento, salvo incidenti, per l’equivoca illusione che continuerebbe a ingenerare nei cittadini di eleggere il governo, oltre al Parlamento, mi riporta con la memoria storica a un uomo politico per niente di sinistra come lui: Sidney Sonnino. Che, già ministro del Re per la destra ma destinato a diventare anche presidente del Consiglio, lanciò nel 1897 il famoso invito a “tornare allo Statuto”, quello Albertino allora in vigore ma secondo lui disatteso dai governi che ritenevano di dipendere non dal Sovrano, come lo Statuto appunto voleva, ma dal Parlamento, o dai suoi “giochi”, come Sonnino li chiamava assai polemicamente.

“Sidney Napolitano”, lo chiamerebbe Marco Travaglio con quella mania che ha di storpiare i nomi a chi non gli piace, come ha fatto di recente chiamando Forlano il povero Pisapia, responsabile di avere difeso da “ipergarantista” l’ex segretario della Dc Forlani nei processi sul finanziamento illegale dei partiti di 25 anni fa. Ma questa volta -vedrete- il direttore del Fatto Quotidiano, pur avendo da tempo Napolitano in antipatia quanto meno politica, se ne asterrà incassando il contributo che il presidente emerito della Repubblica ha deciso di dare all’opposizione alla riforma elettorale liquidata dal Fatto Quotidiano addirittura come “fascistellum”, gridato in rosso sulla prima pagina anche ieri, al pari del giorno prima.

Se il barone Sonnino reclamava il ritorno allo Statuto Albertino ai suoi tempi in vigore, Napolitano reclama in pratica il rispetto della Costituzione oggi in vigore. Che in effetti non dà al cittadino, per quanti artifici possano essere stati messi nelle leggi elettorali che si sono susseguite dal 1993 in poi, una volta ridimensionato col referendum di quell’anno il sistema proporzionale, il diritto di andare alle urne per “eleggere il governo”, oltre al Parlamento, come dissero i referendari di 24 anni fa. E come Napolitano teme che possa ripetersi adesso col nome del capo del partito o della coalizione ammesso nella scheda elettorale.

L’articolo 92 è stato scritto dai costituenti nel 1947 in modo che più chiaro non potesse essere: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. I quali non a caso sono obbligati dal successivo articolo 93 a giurare “nelle mani” del capo dello Stato prima di assumere le loro funzioni e di presentarsi alle Camere per il voto di fiducia prescritto dall’articolo ancora successivo.

Ma già nel 1994, quando la legge elettorale che portava il nome latinizzato dell’attuale presidente della Repubblica, Mattarellum, pur non prevedendo ancora nella scheda elettorale, come sarebbe poi accaduto col cosiddetto Porcellum, il nome del candidato delle coalizioni in lizza alla guida del governo, Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale si arrese alla logica o fascino, come preferite, del sistema maggioritario. E conferì, sia pure di malavoglia, come tutti sanno, l’incarico di presidente del Consiglio a Silvio Berlusconi, che aveva vinto le elezioni sconfiggendo la coalizione dei progressisti guidata da Achille Occhetto e i centristi raccoltisi attorno a Mario Segni.

A quella logica o fascino del sistema maggioritario, sia pure misto, essendo sopravvissuto il proporzionale per un bel poco col 25 per cento dei seggi parlamentari, si piegarono poi, volentieri o non, lo stesso Scalfaro conferendo nel 1996 la guida di governo a Romano Prodi, leader della coalizione dell’Ulivo premiata dagli elettori; Carlo Azeglio Ciampi nel 2001 facendo tornare a Palazzo Chigi Berlusconi, premiato nelle urne con la sua Casa delle Libertà; Napolitano nel 2006 richiamando a Palazzo Chigi il vincitore delle elezioni Prodi, per quanto sapesse bene quanto precaria fosse la sua coalizione di governo, caduta infatti meno di due anni dopo, e ancora Napolitano nel 2008 nominando, dopo le elezioni anticipate, il governo Berlusconi, ultimo della serie maggioritaria. Poi sopraggiunse la fase più o meno emergenziale, o straordinaria, del governo tecnico di Mario Monti e di quelli delle intese più o meno “larghe” di Enrico Letta, di Mario Renzi e di Paolo Gentiloni, oggi in carica.

Quanto meno dal 1994 al 2008 i presidenti della Repubblica italiana hanno quindi accettato di dividere le prerogative dell’articolo 92 della Cosituzione, rimasto invariato, con i riti più o meno improvvisati e genuini del sistema maggioritario, per quanto -ripeto- misto.

Ma ora il buon Napolitano, forse perché costretto dalla realtà politica, più forte delle ambiguità o contraddizioni delle varie leggi elettorali, a ripristinare più o meno in pieno al Quirinale le prerogative dell’articolo 92 della Costituzione con la formazione del già ricordato governo tecnico di Monti e successivi, ha deciso di impuntarsi. E da presidente emerito della Repubblica, cioè ex, ha posto con la franchezza e la vigoria che non ha perso con l’età il problema di tornare appunto alla Costituzione, come dicevo all’inizio.

Qualcuno ritiene che sia ormai troppo tardi per tornare indietro, per quanto lo scenario politico si sia obiettivamente frantumato ed abbia mostrato di avere sempre più bisogno di quel motore di riserva che è un po’ la figura del presidente della Repubblica, con le sue mediazioni e i suoi strappi, secondo le circostanze, quando si inceppano i rapporti fra i partiti, singolarmente o in coalizione, e nessuno è in grado di uscirne da solo. E l’unica alternativa diventa un ricorso continuo e logorante ad elezioni anticipate.

Qualcun altro ritiene invece che Napolitano abbia fatto bene a farsi sentire, anche a costo di rimanere praticamente inascoltato dal governo e dal presidente della Repubblica di turno.

Una cosa comunque credo che non si possa negare al presidente emerito “Re Giorgio”, come affettuosamente chiamano Napolitano un po’ tutti per la sua lunga e non certo ordinaria esperienza al Quirinale: il gusto della partecipazione alla politica, che è stata ed è ancora la passione della sua vita. Per questo egli merita il rispetto anche di chi può trovarsi in dissenso da lui, e che invece spesso si lascia prendere la mano dalla rozzezza di moda e lo accusa di scemenze come la ricerca ossessionata del potere e persino il golpismo. Scemenze, a dir poco.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Ripreso da http://www.formiche.net il 14 ottobre 2017  col titolo: Napolitano, la Costituzione e il Rosatellum bis

Napolitano demolisce a sorpresa il mito del maggioritario

Il rispetto e la stima che merita per i ruoli prima di presidente e poi di presidente emerito della Repubblica non possono sottrarre Giorgio Napolitano allo stupore anche di qualche amico per la sua protesta contro l’ennesima riforma elettorale in arrivo.

La riforma, in verità, non è un capolavoro né per i contenuti né per le forme, né  per i tempi. Per i contenuti, a causa del fatto che i parlamentari continueranno ad essere più nominati dai partiti, anche da quelli che fingono di dolersene, che eletti dai cittadini. Per le forme, perché il ricorso al voto di fiducia per disarmare i cosiddetti franchi tiratori è sempre una forzatura, specie quando a proporre la legge non è stato il governo. Per i tempi, perché ancora una volta si è disattesa un’assennata direttiva europea, chiamiamola così, contro le regole  elettorali cambiate a ridosso del voto, anche se in questo caso si cambiano regole non approvate dal Parlamento ma derivate da tagli apportati, al di fuori di esso, dalla Corte Costituzionale a leggi arrivate al suo esame.

Ma il dissenso di Napolitano, oltre che dal ricorso alla fiducia, che è una questione più di galateo istituzionale che altro, deriva dal protagonismo riconosciuto ai capi dei partiti in lizza, da soli o in coalizione, perché -ha osservato non a torto il presidente emerito- si dà all’elettore la sensazione equivoca di andare alle urne per eleggere non solo il Parlamento ma anche il governo. Che invece nasce al Quirinale per un articolo della Costituzione, il 92, che più chiaro non poteva essere scritto: “Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Che non a caso giurano “nelle mani del presidente della Repubblica” -dice l’articolo 93- “prima di assumere le funzioni” e di affrontare il percorso della fiducia delle Camere imposta dall’articolo 94.

Ebbene, questa sequenza di articoli non è compromessa solo dall’illusione che la riforma in arrivo, secondo Napolitano, dà all’elettore di scegliere il governo votando per una certa coalizione o per un certo partito e relativo capo. E’ compromessa anche, anzi soprattutto, dalla logica del sistema elettorale maggioritario, totale o misto che sia, vantata pure da Napolitano e dal suo partito di allora, il Pds-ex Pci, quando gli italiani furono chiamati con un referendum nel 1993 ad archiviare   o ridurre il sistema proporzionale proprio per fare eleggere -si disse, anzi si gridò- anche il governo.

Fu allora che l’articolo 92 della Costituzione  venne picconato, direbbe la buonanima di Francesco Cossiga.  E vennero trattati come scimuniti quei pochi -ahimè- che, preferendo il sistema proporzionale praticato per più di 40 anni, si permisero di dissentire dal tifo politico e mediatico per il metodo maggioritario, segnalandone inutilmente la contraddizione con la logica proporzionalistica della nostra carta costituzionale.

Fino a quando lo scenario politico è rimasto bipolare, anche se nessuno dei due poli, di destra e di sinistra, o di centrodestra e centrosinistra, ha sempre fatto fatica a reggere ai contrasti interni, il pasticcio referendario partorito nel 1993 ha in qualche modo retto, consentendo a Silvio Berlusconi e a Romano Prodi, per esempio, di alternarsi a Palazzo Chigi in almeno due occasioni, anche se nella prima il centrosinistra preferì tornare alle urne, nel 2001, rottamando prima altri due suoi presidenti del Consiglio: Massimo D’Alema e Giuliano Amato.

Ora che lo scenario è diventato con i grillini tripolare, se non addirittura quadripolare con la divisione della sinistra fra renziani e antirenziani, per chiamare cose e uomini con i loro nomi, ed è stata spazzata via anche la riforma elettorale tentata da Renzi per semplificare il gioco, il pasticcio non può più essere nascosto. Neppure da Napolitano, che  vi ha partecipato alternando come capo dello Stato pazienza e impazienza, sino a incorrere nell’accusa di golpismo tanto da destra quanto da sinistra. 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Ragioni e contraddizioni di Giorgio Napolitano sulla nuova legge elettorale

Se Grasso scrivesse un biglietto di richiamo a Renzo Piano

Anche se i fari sono puntati altrove, sui soliti Matteo Renzi, Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Giuliano Pisapia, Paolo Gentiloni e ora anche Sergio Mattarella per avere sostanzialmente coperto il governo nel ricorso al voto di fiducia per l’approvazione dell’ennesima riforma elettorale, grandi sono il daffare e l’imbarazzo del presidente del Senato Pietro Grasso.

Il daffare del presidente Grasso è grande perché grande è il traffico legislativo nel Senato, dove fra aula e commissioni si smaltiscono provvedimenti prima che sopraggiunga la cosiddetta sessione del bilancio, dominata dalla legge cosiddetta di stabilità finanziaria. Tra le cui pieghe però, o subito prima o subito dopo, in tempo comunque per precedere la fine ordinaria della legislatura, Grasso vorrebbe salvare la controversa legge già approvata dalla Camera sull’accesso dei figli degli immigrati alla cittadinanza e  nota come Ius soli. Per la quale si stanno spendendo in tanti con digiuni, interviste, convegni, appelli, accomunati dalla convinzione che essa sia il discrimine fra la civiltà e l’inciviltà, la generosità e l’egoismo, l’apertura e la chiusura, l’integrazione e la disintegrazione, e via dicendo.

L’imbarazzo del presidente Grasso nasce dall’imminente arrivo dalla Camera  al Senato- salvo sorprese nella votazione finale, obbligatoriamente segreta, a Montecitorio-  della riforma elettorale sulla quale il governo, come si è ricordato, ha posto tre volte la cosiddetta questione di fiducia, a voto quindi palese, fra rumorosissime proteste politiche e mediatiche che non hanno lasciato insensibile il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.

Grasso sa, dopo la copertura fornita da Mattarella al governo nel passaggio alla Camera, di non avere margini di manovra nella gestione della fiducia anche al Senato sul cosiddetto Rosatellum, che qualcuno sui giornali ha già chiamato Quirinallenum per la fretta che ha il presidente della Repubblica di vederla comunque approvata per evitare di mandare l’anno prossimo gli italiani alle urne con le due leggi diverse, per Camera e Senato, uscite dalla sartoria della Corte Costituzionale sforbiciando quelle uscite a suo tempo dalle aule parlamentari. Ma Grasso sa anche che l’obbligata gestione del voto di fiducia anche al Senato potrebbe compromettere l’ambizione a torto o a ragione attribuitagli a diventare il leader di quello che sta profilandosi come il quarto polo dello schieramento elettorale del 2018, costituito dalla sinistra antirenziana più oltranzista, che ha appena scaricato Pisapia, o n’è stata scaricata, come preferite. E che vede la riforma elettorale in arrivo  come il fumo negli occhi, al pari dei grillini e dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Con tutta la comprensione umana e persino politica per gli affaticamenti e i tormenti del presidente del Senato, generosamente spesosi sul fronte antirenziano proclamandosi “ragazzo di sinistra” in un recente raduno degli scissionisti del Pd, si deve segnalargli una recente intervista del senatore a vita Renzo Piano per proporgli quanto meno di scrivergli un biglietto di protesta o richiamo al regolamento di Palazzo Madama. Che l’illustre architetto deve ignorare se, per spiegare forse le sue abitudini parlamentari, ha detto a Francesco Merlo, in una lunga intervista a Repubblica a favore dello Ius soli, rilasciata standosene comodo nella sua residenza parigina: “Non sono un eletto, che ha il dovere di andare in aula per votare le leggi”.

Purtroppo, per Renzo Piano, l’articolo 1 del regolamento del Senato non fa differenza fra eletti e nominati, tenendo anzi ad accomunarli esplicitamente nelle loro prerogative e funzioni parlamentari. Gli uni e gli altri -dice quell’articolo- “hanno il dovere di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori delle commissioni”. E’ un dovere al quale il senatore Piano ha deciso di potersi sottrarre-  in compagnia di altri, a cominciare dall’avvocato e senatore eletto Niccolò Ghedini, che ha voluto aggiudicarsi il primato delle assenze forse per solidarizzare con l’amico e cliente Silvio Berlusconi, estromesso dal Senato nel 2013 per le sue controverse vicende giudiziarie-  ma non per questo  il pur illustrissimo architetto può dire di esserne esente come senatore a vita.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Tutti i rischi del Rosatellum bis per Pietro Grasso

L’avviso di sfratto di Mattarella alle toghe “di scena”

Il monito del capo dello Stato Sergio Mattarella ai giovani magistrati esordienti a non scambiare la toga per “un abito di scena” potrebbe tradursi in un ordine di sfratto se il Consiglio Superiore della Magistratura, di cui lo stesso Mattarella è il presidente per disposizione costituzionale, avrà il coraggio, o solo il buon senso, come preferite, di trarne le conseguenze.

Penso, in particolare, allo sfratto che meritano quei magistrati accusati pochi giorni fa dal vice presidente dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, di dividersi con troppa disinvoltura e frequenza fra gli uffici o le aule dei tribunali dove amministrano la giustizia e i talk show. Che non vanno intesi -credo- solo come  spettacoli televisivi, con la frequentazione assidua dei salotti dei vari canali, pubblici e privati, ma anche come interviste ai giornali, partecipazione a convegni di partito e persino congressi, e via dicendo.

Lo sfratto dovrebbe essere quanto meno dal palcoscenico inteso in senso lato, da ordinare ogni volta se ne presenti l’occasione, a meno  che naturalmente i magistrati abituati per troppo tempo a dividersi fra tribunali e spettacoli non trovino il coraggio e il buon senso, sempre come preferite, di  scegliere da soli quale parte recitare per sempre risparmiando al Csm l’onere dello sfratto dalla magistratura.

Poiché Legnini è recentemente sbottato contro le toghe, diciamo così, di scena per reazione alle ultime, clamorose esternazioni televisive e giornalistiche di Percamillo Davigo, presidente di sezione della Corte di Cassazione, e non solo ex presidente dell’associazione nazionale dei magistrati, si può presumere che a Davigo, e alle sue abitudini, abbia voluto riferirsi anche il presidente della Repubblica parlando al Quirinale. E rimediando subito dal solito Michele Travaglio, sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano, l’accusa di avere fatto un “fervorino” contro le toghe, e non contro i politici che ne minaccerebbero ogni giorno l’indipendenza, addirittura “insultandole e disarmandole”.

Da quelle parti, quelle cioè del Fatto, e dei partiti o delle correnti che vi si riconoscono, hanno già aperto una campagna preventiva in difesa di Davigo sospettando che “le legnate di Legnini” e quelle di Mattarella nascondano la volontà di sbarrargli l’accesso ai vertici della magistratura, essendosi avuta notizia della sua decisione di concorrere a tutte le cariche in via di rinnovo: presidente della Corte di Cassazione, procuratore generale e non so cos’altro.

Dipenderà probabilmente dall’esito di questa scalata ai vertici giudiziari anche la decisione che Davigo si è riservato di prendere per proporsi ai colleghi  nell’elezione del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, essendo prossimo alla scadenza quello in carica. A questa domanda, sulla partecipazione cioè all’elezione del nuovo Csm, Davigo ha reagito qualche giorno fa dicendo: “Non rispondo”.

E’ un osso duro, non c’è che dire, questo Davigo: in toga e in abito di scena, secondo le preferenze e le occasioni. Ma sotto la scorza della sua voce mai sopra le righe e della sua mitezza, anche Mattarella potrebbe rivelarsi un osso duro in questo e nel prossimo Consiglio Superiore della Magistratura, dove Davigo a tutto potrà aspirare fuorché alla carica-chiave di vice presidente, che spetta per Costituzione a un consigliere eletto dal Parlamento, non dalle toghe.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto l’avviso di sfratto di Mattarella alle  toghe da talk show

Contestato a Pisapia da Travaglio il reato di “ipergarantismo”

“Pisapia sfascia la sinistra”, titolava ieri il Fatto Quotidiano concludendo a modo suo la riscrittura della biografia dell’ex sindaco di Milano nella quale si è personalmente cimentato Marco Travaglio cominciando sabato scorso con un editoriale in cui gli dava del Forlano. Naturalmente, da Arnaldo Forlani, l’ex segretario della Dc difeso da Pisapia nelle aule dei tribunali negli anni di Tangentopoli, senza riuscire -notava Travaglio- a farlo assolvere. Oltre che “borghese un po’ agé”, una mezza calzetta da avvocato, quindi, lasciatosi in qualche modo corrompere interiormente dal suo cliente assumendone i presunti, peggiori difetti politici: il dire senza dire, il pensare una cosa e dirne un’altra, e via discorrendo.

Come sfasciasinistra, in verità, anche se Travaglio ha omesso di ammetterlo, Giuliano Pisapia non dovrebbe essere considerato un solitario da cronisti e analisti politici così attenti come si sentono al Fatto. Quel campo politico ormai è affollato di sfasciacarrozze, come sconsolatamente osserva spesso Emanuele Macaluso senza fare sconti a nessuno, come invece ne fanno Travaglio e amici. I quali hanno un debole, per esempio, per i giustizialisti, di ogni risma e colore, che difendono ogni volta che ne hanno l’occasione, perdonando loro tutto ciò che non perdonano proprio a Pisapia. Di cui Travaglio ha lamentato “l’ipergarantismo”, rinfacciandogli non solo i clienti scelti come avvocato ma anche tutte, o quasi, le scelte compiute da parlamentare, quando gli è capitato di esserlo nelle fila della Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti.

Si deve a lui -gli ha rimproverato Travaglio- il mancato arresto di quel pericoloso delinquente che sarebbe Marcello Dell’Utri prima della condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa: lo stesso reato per il quale la Cassazione ha dovuto recentemente dichiarare priva di effetto la sentenza emessa contro Bruno Contrada dopo la bocciatura della giustizia europea. Che si ripeterà con Dell’Utri quando anche il suo caso arriverà al pettine.

Si deve a Pisapia, ma non ho capito bene perché, il troppo poco tempo che trascorse in carcere Cesare Previti, dopo la condanna definitiva per corruzione in atti giudiziari, ottenendo di scontare il resto della pena ai cosiddetti servizi sociali.

Chissà, forse Pisapia non fece in tempo solo perché impegnato a fare il sindaco di Milano, e quindi distratto dalla professione forense, a risparmiare a Silvio Berlusconi i servizi sociali dopo la condanna definitiva, nell’estate del 2013, per frode fiscale e la decadenza da senatore con l’applicazione retroattiva, votata a scrutinio palese nell’aula di Palazzo Madama, della cosiddetta legge Severino.

Diabolico com’è, l’allora inquilino di Palazzo Marino sarebbe riuscito a trovare il modo per aiutare l’ex presidente del Consiglio, di cui sotto sotto Travaglio considera Pisapia un estimatore, al pari del solito Matteo Renzi. Che nello scenario post-elettorale del Fatto Quotidiano è già considerato l’alleato di Berlusconi in un nuovo governo delle larghe intese grazie alla rottamazione della sinistra cui si starebbe prestando appunto l’ex sindaco di Milano mandando a quel paese, o quasi, il dalemiano Roberto Speranza. Il quale dalle colonne del Corriere della Sera gli aveva appena intimato di accettare il calendario e tutto il resto del partito nato dalla scissione del Pd per costruire un’altra formazione ancora di antirenzismo esasperato, valutato dall’ex sindaco di Milano attorno al 3 per cento dei voti.

A Pisapia e altri compagni di partito allora all’opposizione Travaglio non perdona di essersi astenuti nel 2005 su una legge con la quale l’allora governo di Berlusconi cambiò i limiti di età per pensioni e promozioni dei magistrati consentendo che la carica di procuratore nazionale antimafia, da cui scadeva Pier Luigi Vigna, andasse a quell’intruso e abusivo di Pietro Grasso, l’attuale presidente del Senato, anziché a Gian Carlo Caselli. Per solidarietà col quale Grasso avrebbe dovuto rinunciare alla nomina e Pisapia, dal canto suo, alla convinzione espressa pubblicamente che non dovessero interessare più di tanto “i personalismi fra Vigna e Caselli”.

Nella ricostruzione della biografia del Pisapia “ipergarantista”, peraltro affiancato da un Bruno Tabacci liquidato domenica sul Fatto Quotidiano come il peggio della tradizione politica della Dc, Travaglio ha dimenticato -non so se più per pudore o per distrazione- il clamoroso passaggio del 2006.

Quello fu l’anno del secondo governo di Romano Prodi, oltre che dell’elezione di Fausto Bertinotti alla presidenza della Camera e di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica. Il bertinottiano Pisapia nel tradizionale gioco del totoministri era considerato in viaggio verso il Ministero di via Arenula: quello della Giustizia. La competenza di certo non gli mancava. Ma il suo garantismo, o ipergarantismo, come lo chiama Travaglio, fece insorgere dietro le quinte la potente corporazione giudiziaria, alla quale Prodi non ebbe il coraggio di dire no. E non se ne fece nulla.

Ai bertinottiani toccò solo, per il buon Paolo Ferrero, il Ministero della Solidarietà Sociale, considerato più pertinente ad una forza di sinistra. In compenso, il partito dell’allora presidente della Camera ottenne ben sette posti di sottosegretario, nessuno dei quali però -guarda caso- destinato al Ministero della Giustizia. Dove arrivò come titolare Clemente Mastella: si, proprio lui, il Mastella che dopo due anni, quando negli ambienti giudiziari si accorsero ch’egli riusciva a districarsi abbastanza bene fra le correnti delle toghe, con la furbizia e l’esperienza della Dc demitiana, sino a predisporre una buona disciplina delle intercettazioni, incappò -guarda caso- in uno scatenato capo procuratore della Repubblica della sua Campania sulla strada del pensionamento. Che trovò il tempo e la voglia di arrestargli la moglie, presidente del Consiglio regionale, e di mandarlo a processo come concussore, corrotto e quant’altro. Il bottino sarebbe stato un bel po’ di posti nel settore sanitario strappati dal partito di Mastella, l’Udeur, al governatore della regione Antonio Bassolino. Che però negava di avere subìto pressioni indebite.

Da quel colpo giudiziario e dalle conseguenti dimissioni di Mastella nacque una crisi di governo destinata a travolgere la legislatura e a provocare le elezioni anticipate, vinte dal centrodestra.

Mastella, familiari e amici hanno impiegato quasi dieci anni per essere assolti, ma Travaglio, che la sa sempre più lunga del diavolo, ha rovinato loro la festa avvertendo che contro Mastella pende ancora, sempre per quelle vicende, un altro processo, secondo lui il più grave, che potrebbe finire in tutt’altro modo per l’imputato.

Mastella è stato insomma avvertito. Non è detto che una sentenza gli arrivi tra capo e collo per scalzarlo da sindaco di Benevento.

Alla fame di dileggio che ha sempre il giustizialismo mediatico e politico manca il sollievo che potrebbe procurargli la notizia che Pisapia si sia offerto a Mastella per aiutare i suoi legali nel processo ancora pendente contro il pericolosissimo ex portavoce di Ciriaco De Mita.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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