I grillini perdono la testa per il senatore Minzolini

Prima sono arrivati i 161 voti, per appello nominale, contro la sfiducia “individuale” reclamata dai senatori grillini per il ministro dello sport Luca Lotti, renziano di strettissima osservanza, indagato per violazione del segreto d’ufficio o istruttorio, da lui negato agli inquirenti, nell’inchiesta giudiziaria sugli appalti della Consip per gli acquisti miliardari della pubblica amministrazione.

Poi, a distanza di meno di ventiquattro ore, sempre nell’aula del Senato, sono arrivati i 137 voti, anch’essi palesi, a favore del forzista Augusto Minzolini, sottratto alla decadenza da parlamentare proposta dalla competente giunta in applicazione della cosiddetta legge Severino, essendo stato condannato sette mesi fa in via definitiva a più di due anni -due anni e sei mesi- per peculato, anche su denuncia di Antonio Di Pietro. E di chi sennò ? Peculato ai danni della Rai, dalla quale Minzolini dipendeva come direttore del Tg1 usando una carta di credito aziendale diventata poi oggetto di una lunga e contorta controversia amministrativa e infine giudiziaria, con verdetti opposti in primo e secondo grado. Un secondo grado, però, per quanto confermato dalla Cassazione, dove il giornalista e senatore si era imbattuto in un avversario politico, appena tornato a fare il giudice dopo una ventina d’anni di attività parlamentare, e anche di governo, tutti a sinistra.

Mi pare di avervi raccontato tutto, sia pure per sommi capi: più comunque di quanto non abbia fatto con i suoi lettori, a grandissima sorpresa, Il Foglio del fondatore Giuliano Ferrara e del direttore Claudio Cerasa. Sulla cui prima pagina ho trovato solo sei righette di corpo millesimale sulla vicenda Minzolini nella rubrica La Giornata. Ma i colleghi avranno tempo, se vorranno, per recuperare, non foss’altro a causa delle scomposte, a dir poco, reazioni dei grillini e affini, convinti che non ci sarebbe da stupirsi se i loro elettori, simpatizzanti e quant’altri assaltassero i palazzi del potere per protesta contro il Senato e mettessero a ferro e a fuoco le piazze d’Italia. Dove -ahimè- può accadere anche questo senza che nessuno ne possa o debba poi rispondere, come dimostra la guerriglia appena praticata a Napoli contro l’ospite indesiderato Matteo Salvini, deriso dal sindaco della città Luigi de Magistris. Vi raccomando il de minuscolo perché spetta anagraficamente all’ex magistrato.

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A guidare sul fronte mediatico la rivolta alla quale i grillini hanno garantito quanto meno la loro comprensione è naturalmente il direttore e co-fondatore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, che non si dà pace delle delusioni procurategli dal Senato elettivo della Repubblica. Di cui lui nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale targata Renzi ha pur difeso strenuamente la sopravvivenza, accusando l’allora presidente del Consiglio di volerlo ridurre ad un dopolavoro dei troppo sputtanati -scusatemi la parolaccia- Consigli Regionali, dove non si riesce neppure più a contare i condannati e inquisiti per peculati, sperperi e varie.

A fare saltare i sismografi degli umori nella redazione del Fatto Quotidiano e dintorni è stata anche la paura che, rotto col caso Minzolini l’incantesimo della legge Severino, e della sua applicazione curiosamente retroattiva, ne possa trarre presto beneficio anche Silvio Berlusconi, che di quella legge nell’autunno del 2013 rimase vittima con una votazione che lo espulse dal Senato. Il ricorso dell’ex presidente del Consiglio pendente da tempo davanti ad una Corte internazionale potrebbe ricevere una spinta decisiva proprio dal diverso verdetto, questa volta, dei senatori.

Non si dà proprio pace, il povero Travaglio, del fatto che Minzolini non sia già decaduto automaticamente da senatore, che abbia invece continuato a riscuotere la sua indennità e a maturare la sua pensione, o come diavolo si chiama, per sette mesi dopo la sentenza definitiva di condanna, e possa continuare adesso, anche dimettendosi, come Augusto ha annunciato orgogliosamente di voler fare perché convinto di avere sostenuto una causa di principio, non di interesse.

Travaglio si è fatto rapidamente i conti e si è accorto che nei nove o dieci mesi che mancano alla fine ordinaria di questa diciassettesima legislatura i senatori non avranno il tempo di accettare le dimissioni del loro collega con un voto a scrutinio, questa volta, rigorosamente segreto, e con la consuetudine maledettamente consolidata di respingerle la prima volta.

Ah, sono proprio sfortunati questi afflitti da anticastite, nel senso di casta, fatta salva naturalmente la propria, perché di caste nel nostro Paese ce ne sono tantissime, al coperto di ordini, associazioni e quant’altro.

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Se ne avesse avuto il tempo e lo spazio, forse Travaglio avrebbe completato con le loro fotine l’elenco pubblicato in prima pagina -tipo i manifesti dei ricercati nel far west- dei reprobi del gruppo Pd del Senato che hanno consentito a Minzolini di scampare alla decadenza. Un elenco però comprensivo sia dei 19 che hanno votato a favore del “pregiudicato”, avvalendosi della “libertà di coscienza” concessa dal capogruppo Luigi Zanda, sia dei 14 che si sono astenuti ma che di fatto, in base al regolamento di Palazzo Madama, si sono sostanzialmente aggiunti ai 35 che hanno votato contro. Neppure il modo di opporsi astenendosi, quindi, va bene ai grandi depositari della illibatezza morale e politica.

Se la situazione non fosse drammaticamente seria, ci sarebbe da ridere. Ma a pochi giorni dal cambio naturale di stagione voglio sperare di festeggiare anche un cambio politico di stagione.

Una rondine, si sa, non fa primavera. Ma due rondini, a distanza di poche ore l’una dall’altra, come sono stati i 161 voti a favore di Lotti e i 137 a favore di Minzolini, possono forse fare davvero primavera: quella del garantismo. E ciò alla faccia dei grillini, dei loro estimatori e persino del loro governo, che alla Stampa si sono appena avventurati a immaginare prevedendo il vice presidente della Camera Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, il suo amico-competitore Alessandro Di Battista, il Chè Guevara di Trastevere, al Viminale e l’ingegnere informatico Manlio Di Stefano, un palermitano eletto in Lombardia, alla Farnesina grazie al tirocinio in affari internazionali, diciamo così, fattosi in quattro anni frequentando la Commissione Esteri della Camera.

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Due rondini garantiste possono fare primavera

“Questo Paese, per responsabilità diffuse anche della nostra parte politica, ha troppo spesso consentito alle polemiche giudiziarie di sostituirsi alla politica”. Sono parole del ministro dello sport Luca Lotti nell’aula di Palazzo Madama, prima che l’assemblea, condividendo la sua difesa, bocciasse l’altra sera a larghissima maggioranza, con 161 no, 52 si, 2 astensioni e un centinaio di assenze non certo casuali, la mozione di sfiducia “individuale” presentata dai grillini e illustrata con durezza da Taverna, intesa come senatrice del movimento 5 stelle. Secondo la quale sarebbe politicamente imperdonabile per un esponente del governo trovarsi indagato per violazione del segreto d’ufficio, o istruttorio, per quanto negata dall’interessato in un lungo interrogatorio da lui stesso richiesto, non appena informato dell’avviso di garanzia a mezzo stampa, in particolare dal Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. E da chi sennò?

Il passaggio del discorso di Lotti che ho selezionato per voi è brevissimo, ma preciso e abbastanza autocritico, lodevolmente e onestamente autocritico, anche se forse non così esplicito come si aspettava Piero Sansonetti. Che ieri si chiedeva qui, sul Dubbio, cosa aspettasse ancora Matteo Renzi per non ammettere l’errore di avere in qualche modo partecipato nel 2013 al linciaggio politico -parole mie- della ministra della Giustizia dell’allora governo di Enrico Letta, Annamaria Cancellieri. Della quale i giustizialisti di un tanto al chilo avevano reclamato le dimissioni per avere osato telefonare ad un’amica, disgraziatamente – per lei- convivente di Salvatore Ligresti, appena finito agli arresti domiciliari, interessandosi poi delle precarie condizioni di salute e del relativo trattamento di Giulia Ligresti, detenuta. Un interessamento analogo ad altri da lei effettuati al Ministero e passato indenne all’esame di un magistrato insospettabile per severità: l’allora capo della Procura di Torino Gian Carlo Caselli.

Ma il linciaggio, o quasi, della Cancellieri, peraltro prefetto della Repubblica, non è il solo al quale è capitato di partecipare a Renzi nella purtroppo lunga fase del suo garantismo discontinuo, selezionato. Alla Cancellieri hanno poi fatto compagnia, per non andare più indietro di lei, ministri come Nunzia De Girolamo, Maurizio Lupi e Federica Guidi, non trattenuti, anzi incoraggiati alle dimissioni da Renzi, senza che fossero stati neppure scomodati, o non ancora, da un avviso di garanzia.

Il segretario uscente e, credo, rientrante del Pd purtroppo ha avuto il vizietto di inseguire, anziché contrastare, il grillismo sulla strada già pericolosa di suo dell’antipolitica, ma che unita al giustizialismo diventa mortalmente tossica per la democrazia.

Anche nella sfortunata campagna referendaria sulla sua impegnativa riforma costituzionale l’allora presidente del Consiglio, inutilmente trattenuto o addirittura ammonito dagli autorevoli amici Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, decantò l’anno scorso più che la maggiore efficienza voluta per le istituzioni, i minori costi garantiti dalla riduzione del Senato ad un dopolavoro, o quasi, di cento “soltanto” fra consiglieri regionali e sindaci, tutti senza indennità.

Ancora di recente, prima di rassegnarsi, a quanto sembra, all’epilogo ordinario della legislatura, Renzi si è spinto ad auspicare le elezioni anticipate per evitare che i parlamentari di prima nomina maturassero in ottobre il diritto al cosiddetto vitalizio. Neppure i grillini, peraltro tutti di prima nomina in Parlamento, si erano spinti a tanto. A quel punto Napolitano è proprio sbottato con una dichiarazione liquidatrice della questione, attribuendo le elezioni prima della scadenza ordinaria ad un Paese addirittura anormale, pur avendovi dovuto ricorre anche lui, dal Quirinale, nel 2008.

La svolta garantista ravvisabile nell’intervento del ministro Lotti al Senato, dove peraltro il fedelissimo di Renzi, in assenza di Paolo Gentiloni, trattenuto altrove da impegni internazionali, ha potuto parlare dalla postazione del premier, circondato solidalmente da 15 colleghi di governo, in uno scenario quindi che da solo rappresentava l’autorete dei grillini, è stata completata dalla successiva dichiarazione di voto del capogruppo del Pd Luigi Zanda. Che ha posto il problema di riesaminare l’espediente della mozione di sfiducia “individuale”, cui ricorrono sempre più di frequente i giustizialisti di turno proprio per mescolare prevalentemente vicende giudiziarie e politiche. Nei primi quattro dei cinque anni di questa disgraziata legislatura ne sono state presentate e votate, fra Camera e Senato, ben 36, ha rilevato Zanda.

Non contemplata dalla Costituzione, che prevede mozioni di fiducia o sfiducia solo al governo, nella sua collegialità, la mozione “individuale” fu inventata nel 1995 dal Pds-ex Pci, e bislaccamente ammessa dall’allora presidente del Senato Carlo Scognamiglio, forzista dissidente, per deporre il ministro della Giustizia, e magistrato in pensione, Filippo Mancuso. Che tentò inutilmente di resistervi con un ricorso alla Corte Costituzionale respinto con una celerità degna di miglior causa.

La colpa del supergarantista Mancuso, scaricato rapidamente dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che pur ne aveva voluto la nomina a guardasigilli, e dal presidente del Consiglio Lamberto Dini, era stata di avere mandato gli ispettori ministeriali al tribunale di Milano, fra le proteste della locale Procura. Si era gridato alla profanazione di un santuario.

Tra il discorso del ministro Lotti e le dichiarazioni di voto di Zanda è auspicabile che il Pd, rimasto anche dopo la scissione il maggiore partito della sinistra, o “di centrosinistra”, come ha preferito definirlo qualche giorno fa a Porta a Porta il ministro Maurizio Martina, vice segretario unico e in pectore di Renzi una volta tornato al Nazareno, abbia svoltato davvero in direzione garantista, senza lasciarsi più tentare dalla prima, dannata occasione di usare la scorciatoia giudiziaria nella lotta politica. O senza lasciarsi intimidire dai soliti malintenzionati, come sta accadendo mentre scrivo con le proteste dei grillini contro il voto libero “di coscienza”, come lo ha giustamente definito Zanda, espresso da alcuni parlamentari del gruppo a favore del senatore forzista, ed ex direttore del Tg 1, Augusto Minzolini. Di cui la competente giunta di Palazzo Madama aveva chiesto la decadenza da parlamentare, in applicazione retroattiva della famosa e controversa legge Severino, dopo una condanna definitiva per peculato emessa con una sentenza che alla maggioranza del Senato è apparsa fatta apposta per lui, su misura. E quindi rifiutata.

Non si era mai visto, francamente, un peculato per spese di albergo e di ristorante di un direttore di testata della Rai contestato dopo che l’interessato aveva pagato di tasca sua all’azienda le spese contestategli, peraltro contraddittoriamente, dall’amministrazione dell’azienda. E dopo che un giudice, non il suo commercialista o quello della Rai, aveva disposto la restituzione dell’intera cifra al giornalista perché non dovuta.

Questo reclamato dai grillini, e che si spera non sia più scambiato per tale da una sinistra degna del nome che porta, non è uno Stato di diritto ma un mostro.

Se il Pd di cui Renzi sta tentando di riconquistare la guida non dissiperà anche questa occasione e renderà quindi definitiva la svolta garantista, avrà realizzato la più grande e vera riforma di cui ha bisogno l’Italia, restituendo alla politica il primato che le spetta. E al quale tante volte la stessa politica ha rinunciato volontariamente e dannatamente, perché Piero Sansonetti non ha torto quando scrive che i magistrati hanno spesso ottenuto più spazio di quanto non avessero voluto o cercato.

 

Pubblicato su Il Dubbio

I grillini promuovono il ministro dello sport a premier

Basterebbe, e avanzerebbe, una foto per rappresentare al meglio, più di qualsiasi commento o di un articolo “di colore”, come si chiamano quelli centrati sull’ambiente più che sul contenuto di un dibattito, per avere un’idea precisa di ciò che sono riusciti a combinare grillini e affini, di sinistra e di destra, nella serata di ammuina al Senato contro il giovane ministro renzianissimo dello sport Luca Lotti. Che è scampato a larghissima maggioranza – 161 voti contro 52- alla loro consunta ghigliottina.

La foto è quella grande di prima pagina dell’insospettabile Manifesto, che nella sua storia politica al rovescio contende al Fatto Quotidiano diretto da Mario Travaglio la palma di carta del giustizialismo, inteso come allineamento alle Procure della Repubblica, e persino come scavalcamento, non essendo sempre all’altezza delle attese forcaiole.

La foto ritrae i banchi del governo nell’aula del Senato, affollati -per le loro modeste dimensioni, almeno rispetto a quelli della Camera- grazie a soli 15 fra ministri, vice ministri e sottosegretari, tutti in ghingheri, accorsi a partecipare all’esordio di Lotti come premier virtuale di questa Italia del 2017.

Mi chiederete che cosa c’entri mai Lotti col presidente del Consiglio, a parte la solidarietà più volte espressagli in questi giorni dal conte Paolo Gentiloni Silveri, assente al Senato per precedenti, improrogabili impegni comunitari. C’entra per il semplice fatto che proprio per la forzata assenza di Gentiloni e la presenza invece di tanti colleghi accorsi a stringersi attorno a lui, Lotti ha dovuto o potuto pronunciare il suo breve ed efficace intervento di difesa dalla mozione grillina di sfiducia “individuale” al posto fisico del presidente del Consiglio. Egli ha parlato rigorosamente in piedi con la poltrona del capo del governo alle spalle, dicendo a brutto muso ai suoi avversari, con inconfondibile accento toscano, che non accettava lezioni di moralità, per il suo coinvolgimento nelle indagini sugli appalti della Consip, da un movimento fondato da un “pregiudicato”. Quale in effetti è Beppe Grillo per una sentenza di condanna definitiva rimediata con un incidente mortale avuto alla guida imprudente di un’auto in montagna.

D’accordo, quella del capo di 5 Stelle non è una condanna per violazione del segreto istruttorio o d’ufficio, che è il reato contestato a Lotti dopo che l’amministratore delegato della Consip ha raccontato agli inquirenti di avere saputo da lui, allora sottosegretario di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, di essere sotto inchiesta e intercettazione per gli appalti della centrale degli acquisti miliardari della pubblica amministrazione. Ma quella di Grillo, che ha la mania del casellario giudiziario intonso, è pur sempre una condanna, con qualche morto di mezzo, mentre quella di Lotti è solo nei desideri dei suoi avversari.

Il ministro non è stato neppure rinviato a giudizio. Ed ha già raccontato e spiegato agli inquirenti di non sapere assolutamente nulla di ciò che gli ha attribuito “l’ingegnere Marroni”, il suo ex amico -presumo- e amministratore delegato della Consip. Del quale non capisco neppure io -unica cosa che condivido di quelle dette dai grillini e loro comprimari- per quale ragione stia ancora lì, al suo posto, al vertice amministrativo di un’azienda così grande, e di proprietà del Ministero dell’Economia.

 

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Per una serata, o solo per quegli otto minuti di durata dello stringato intervento di Lotti, preparato sul treno che lo aveva riportato a Roma dalle nevi del Trentino, quanti hanno potuto collegarsi elettronicamente col Senato, o hanno poi potuto vedere la già ricordata foto del Manifesto, hanno quindi avuto l’impressione di una improvvisa, curiosa promozione di un modesto ministro dello sport -modesto per le sue funzioni rispetto a quelle di tanti altri colleghi di governo- a presidente del Consiglio. O comunque all’uomo chiave del governo.

D’altronde, lo stesso Lotti ha giustamente ricordato ai suoi avversari di essere stato preso di mira solo per quello che rappresenta politicamente: “la stagione -ha detto- delle riforme”, gestita per più di mille giorni dal governo di Renzi ed ereditata dal governo Gentiloni.

I conti politici, in effetti, erano e sono questi. Il coinvolgimento del ministro dello sport nelle indagini targate Consip erano e sono solo un pretesto. Sono, perché la faccenda non è finita con la bocciatura della mozione grillina, alla quale i fuoriusciti dal Pd, questa volta, ne hanno aggiunta un’altra, che dovrà essere ancora “calendarizzata”, sempre al Senato, per tentare la degradazione di Lotti col ritiro delle numerose deleghe, comprese quelle dell’editoria e del Cipe, affidategli dal presidente del Consiglio. Che però ha già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di arrivare alla “valutazione” pretesa dalle opposizioni. Fra le quali, a sorpresa, scopriamo pertanto che hanno deciso di arruolarsi anche quelli che sono andati via dal Pd, adottandone la sigla rovesciata di Dp, per difendere il governo -sentite, sentite- dai progetti renziani di elezioni anticipate.

 

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I 161 voti contro la mozione grillina, e quindi favorevoli a Lotti, equivalgono alla maggioranza assoluta del Senato, composto di 315 eletti e cinque fra membri di diritto e a vita, di nomina presidenziale. Ciò significa che il capogruppo del Pd a Palazzo Madama ha vinto la scommessa di una vittoria sui grillini e comprimari con le sole forze della maggioranza di governo, per quanto comprensive dei senatori di Denis Verdini indigesti anche ad un bel po’ di piddini.

Un altro fiasco dei grillini e comprimari è costituito dall’autocritica fatta da Lotti e da Zanda per i troppi cedimenti del Pd nel passato, anche di conio renziano, al giustizialismo o al garantismo a targhe o giorni alterni, come dimostra il lungo elenco di ministri fatti dimettere per meno di un avviso di garanzia.

La stessa mozione di sfiducia individuale, inventata proprio a sinistra nel 1995 per detronizzare un ministro troppo garantista della Giustizia come Filippo Mancuso, è ormai tanto abusata che Zanda ha posto il problema di “ripensarla”. Era ora.

 

 

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Pieno e ammuina al Senato contro Lotti

Splendide Idi di Marzo, con le iniziali rigorosamente maiuscole, per i cultori delle aule parlamentari piene. Specie dopo l’indignazione loro procurata da quei venti deputati soltanto -su 630 lautamente pagati dai contribuenti, come è solito ricordare Beppe Grillo- accorsi lunedì mattina all’apertura della discussione sulla legge per il testamento biologico.

In queste Idi di Marzo -sempre al maiuscolo, vi raccomando- è stato assicurato da tempo il pieno d’uovo nella “bomboniera” di Palazzo Madama, come viene chiamata l’aula del Senato. E’ stata in gioco, sia pure per finta, come spesso o quasi sempre accade in queste circostanze di spettacolo apparente voluto dalle opposizioni di turno, la testa del ministro dello sport Luca Lotti, dirigente pubblico nato ad Empoli il 20 giugno 1982, già sottosegretario a Palazzo Chigi nei mille giorni e più del governo dell’amicissimo Matteo Renzi.

E’ proprio questa amicizia con l’ex presidente del Consiglio, e rientrante segretario del Pd, la colpa politica che grillini, leghisti, fratellini d’Italia e quant’altri insorti contro di lui non gli perdonano dietro la motivazione scritta della sfiducia personale chiesta con tanto di mozione.

La motivazione ufficiale, come si sa, ma che è corretto ripetere ai lettori, è l’accusa giratagli dalla Procura di Roma, dove Lotti è già stato interrogato negando l’addebito, di avere informato i suoi amici alla Consip, la centrale degli acquisti miliardari della pubblica amministrazione, di essere indagati e intercettati dalla Procura di Napoli per una storia di appalti e di traffico d’influenze illecite, cui avrebbe partecipato anche il papà di Renzi, Tiziano, interrogato pure lui a Roma di recente.

 

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In coincidenza con le Idi pomeridiane di Marzo nell’aula del Senato il giornale anticipatore delle indagini e della tegola giudiziaria sulla testa di Lotti -che è naturalmente il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio- ha informato gli onorevoli senatori, e forse anche gli inquirenti, con un vistoso titolo di prima pagina, che sono cresciuti “i guai” del ministro per “altre conversazioni” probabilmente registrate, su ordine della magistratura, dai Carabinieri del nucleo ecologico, prima che il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, ne avesse disposto la sostituzione con un altro reparto della Benemerita a maggiore tenuta del segreto istruttorio.

Sempre dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio i cacciatori della testa di Lotti sono stati informati che l’accusatore non togato del ministro, l’amministratore delegato della Consip Luigi Marroni, peraltro amico suo e di Renzi, “non ritratta” la versione fornita agli inquirenti sulla provenienza delle notizie che gli permisero di neutralizzare le microspie sistemate nei suoi uffici. Tanto non ritratta la sua versione, il Marroni, che si è rifiutato di rispondere alle domande predisposte dagli avvocati del papà di Renzi nello svolgimento di una consentita, regolare indagine difensiva.

Nonostante questo supplemento d’informazioni di un giornale che da dicembre non si dà pace che Lotti sia ancora ministro, e che il pur lodato Marroni non sia stato neppure lui rimosso dalla carica di amministratore alla Consip, la mozione di sfiducia personale contro l’esponente del governo è rimasta una bomba di carta. E’ rimasta cioè priva dei numeri necessari per una sua approvazione, specie sommando i no alle assenze dei forzisti disposte personalmente dall’ex senatore Silvio Berlusconi, anche a costo di procurare, sempre fuori dal Senato, un attacco di bile al segretario della Lega. Che gliela farà pagare cara al prossimo comizio. O alla prossima dichiarazione. Poi, magari, i due torneranno a parlarsi, a incontrarsi, a trovare l’accordo su quel 10 per cento del programma di un nuovo centrodestra che Berlusconi ritiene ancora mancante, e persino a fare una lista insieme per il rinnovo del Parlamento, salvo poi costituire dopo il voto gruppi parlamentari separatissimi, ma questo è e rimarrà un altro discorso.

 

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Nell’insaziabile fama di spettacolo, e di aule parlamentari affollatissime, i cacciatori della testa di Lotti, che non vogliono saperne di attendere la conclusione delle indagini giudiziarie, hanno già deciso di replicare in una delle prossime settimane, anche per insaporire la preparazione delle primarie congressuali del Pd di fine aprile.

I fuoriusciti dal Pd, quelli che ne hanno rovesciato la sigla in Dp, hanno infatti chiesto di calendarizzare, come si dice in gergo tecnico, una loro mozione di sfida al presidente del Consiglio, di cui pure sembravano difensori più solidi di un Renzi tentato, secondo loro, dalla crisi e dalle elezioni anticipate.

Vista la fiducia ripetutamente espressa dal conte Gentiloni al suo ministro, di cui non intende privarsi, lorsignori gli hanno chiesto, ma diciamo pure intimato, di togliere a Lotti almeno “le deleghe” che ha, comprensive, oltre allo sport, del Cipe. Che è forse la cosa che gli avversari di Renzi hanno digerito di meno, viste le pratiche e gli stanziamenti che passano da quell’organismo interministeriale.

Va da sè che, anche nel caso in cui questa mozione, diversamente da quella dei grillini, dovesse passare, il conte avrà il sacrosanto diritto costituzionale di non tenerne conto. Si tratta di una richiesta di “valutazione” che il presidente del Consiglio valuterà, appunto, in maniera insindacabile.

Se lorsignori fuoriusciti non ne rimarranno soddisfatti, potranno promuovere, buttando definitivamente la maschera, una mozione di sfiducia al governo con altri compagni desiderosi di guerra. Che tuttavia, dati i rapporti di forza esistenti in Parlamento, sarebbe solo la famosa “ammuina” ordinata dall’ammiraglio alla flotta borbonica.

Tutti potranno così divertirsi, affollare l’aula del Senato a beneficio dei fotografi e delle telecamere, e poi tornarsene a casa o al ristorante felici e contenti, alla faccia dei problemi veri del Paese.

 

 

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La corsa a Palazzo Chigi che Matteo Renzi ignora

Dopo avere subìto una scissione da sinistra, perdendo personalità come Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, è normale che Matteo Renzi abbia voluto coprirsi in quella direzione prenotando la nuova vice segreteria unica del Pd per il ministro Maurizio Martina, proveniente dai Ds, riscoprendo il fascino del termine “compagno” e proiettandosi verso il recupero di un’alleanza di governo di centrosinistra, pur senza “replicare i modelli del passato”.

Questa proiezione verso il centrosinistra, pur in “modelli” nuovi, ha provocato infastidite reazioni fra gli attuali alleati di governo del Pd. “Non li rincorriamo”, ha detto Maurizio Lupi, presidente del gruppo della Camera di un partito che proprio per accorciare le distanze dal Pd aveva messo in cantiere il cambiamento del proprio nome: da Nuovo Centro Destra a non si sa ancora cosa. “Non andiamo col piattino in mano”, ha detto Pier Ferdinando Casini.

Non è neppure casuale, forse, che in coincidenza col raduno renzista svoltosi al Lingotto Silvio Berlusconi abbia in qualche modo frenato sulla strada dello scontro o dei dispetti con la Lega e il suo ambizioso segretario Matteo Salvini, assicurando che l’accordo con lui sul programma di un nuovo centrodestra è fatto “al 90 per cento”. Così egli ha anche preceduto le perplessità, a dir poco, espresse sul Corriere della Sera da Angelo Panebianco su un’alleanza post-elettorale fra il Pd e Forza Italia. Che sarebbe “fra tutte le coalizioni, la più balsana”.

La linea di Renzi al Lingotto collide tuttavia con la riproposizione del doppio incarico di segretario del partito e di presidente del Consiglio. Che, contestata con nettezza dal concorrente Andrea Orlando, sarà pure conforme allo statuto del partito, che infatti il guardasigilli si è impegnato a modificare nel caso pur improbabile in cui dovesse vincere la corsa alla quale partecipa, ma non è più conforme al quadro politico, e persino istituzionale, uscito dal referendum del 4 dicembre scorso.

In una Repubblica rinsaldatasi nella sua fisionomia parlamentare con la bocciatura della riforma targata Renzi, e nella prospettiva ormai inarrestabile di un ritorno al sistema elettorale proporzionale, appare francamente difficile che il segretario del partito di maggioranza relativa, o della minoranza più consistente, possa essere anche il capo di una coalizione di governo da cercare dopo le elezioni. E infatti nella prima cosiddetta Repubblica rigorosamente proporzionale, come si è già ricordato qui, sul Dubbio, gli unici segretari della Dc che vollero il doppio incarico -Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita, a distanza di una trentina d’anni l’uno dall’altro- lo persero rovinosamente.

A dispetto dell’abituale ottimismo ostentato da Renzi anche al Lingotto, si sono già delineate figure politiche più adatte di lui a ricucire sul piano del governo i rapporti con la sinistra appena uscita dal Pd e con le altre che l’aspettavano e costituiscono ormai una vera e propria galassia, comprensiva del “Campo progresssista”. Che è stato presentato nel teatro romano del Brancaccio da Giuliano Pisapia proprio mentre l’ex presidente del Consiglio era riunito a Torino con i suoi.

Di queste figure politiche adatte più di Renzi, per temperamento e per una serie di circostanze a loro favorevoli, a ricucire i rapporti a sinistra a livello di governo, una è stata già indicata qui in Orlando, sino a scandalizzare qualcuno che mi ha dato del “matto” per avere paragonato il giovane guardasigilli spezzino al Moro del 1963 nella Dc, ma ancor più significativamente al Moro del 1957, esordiente al governo come ministro della Giustizia al pari di quanto è accaduto ad Orlando. Che peraltro è in via Arenula già da più di tre anni. Altro che matto! Nel 1957 il povero Moro contava nella Dc meno, ma molto meno anche di quel poco che si vorrebbe oggi attribuire nel Pd ad Orlando.

Ma dopo l’assemblea tenutasi al Brancaccio pure Giuliano Pisapia, alla cui area del resto Renzi intende aprire le liste del Pd, può ben essere visto e indicato come un possibile presidente del Consiglio. Un Pisapia che potrebbe essere persino scambiato per quel “Prodi giovane” auspicato da Pier Luigi Bersani pima che se ne andasse via dal Pd, anche se l’ex sindaco di Milano è “solo” di 10 anni meno anziano del primo presidente del Consiglio dell’Ulivo, e poi dell’Unione. Un Pisapia, ancora, che prima di essere stato un ottimo sindaco a Milano, è stato un altrettanto ottimo presidente della Commissione Giustizia alla Camera. E sarebbe stato un eccellente ministro della Giustizia se i magistrati non avessero fermato Prodi mentre si accingeva a proporne la nomina al presidente della Repubblica. Egli era ed è troppo garantista per i gusti di lor signori in toga.

La prima, fra le figure istituzionali più in vista, ad accorrere accanto a Pisapia nella sua nuova avventura politica è stata la presidente della Camera Laura Boldrini. Potrebbe essere -si mormora nei corridoi di Montecitorio- la prima donna a guidare un governo in Italia, sempre che Renzi metta giudizio.

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

 

I complici di Michele Emiliano nel Pd

         Se Michele Emiliano, sottoposto per questo a procedimento disciplinare davanti al Consiglio Superiore della Magistratura -non inferiore, come qualche volta appare- presieduto per dettato costituzionale nientemeno dal capo dello Stato, ha compiuto un atto illecito conservando la toga, sia pure in aspettativa, anche dopo avere trasformato il suo impegno politico in qualcosa per niente provvisoria, non è onestamente possibile prendersela soltanto con lui. Neppure quando “don Michele” da Bari esagera nella sua difesa dicendo che non si dimetterà da magistrato “neanche morto”, con sommo sprezzo del ridicolo perché è chiaro che da morto anche lui sarà finito davvero. A meno che, novello Gesù, non riuscirà a risorgere il terzo giorno e comparire in qualche aula di tribunale per sostituirsi alla Corte di turno ed emettere sentenze.

         Quando ci si iscrive al partito senza averne i titoli conformi alle leggi della Repubblica, come Emiliano non ne aveva essendo appunto magistrato, a sbagliare è anche chi in quel partito ne accetta la domanda e gli rilascia la tessera, o gliela conserva perché la ritiri con comodo.

         Inoltre, quando uno si iscrive ad un partito senza averne i titoli per le ragioni già esposte, e si candida alla segreteria nazionale, ma anche di livello inferiore, come ha fatto Emiliano a suo tempo diventando prima segretario e poi presidente regionale del Pd, ci deve pur essere un organo di garanzia di quel partito che avverte l’obbligo di opporsi.

         Tutto questo nel Pd non è stato mai fatto, né tempestivamente denunciato, neppure da parte di quelli che ora si dolgono della situazione irregolare in cui si trova “don Michele”. A cominciare dalla presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, peraltro magistrata pure lei in aspettativa, come la sua compagna di partito Anna Finocchiaro, ministra per i rapporti con il Parlamento. Che però ha avuto l’accortezza di non gridare la sua protesta contro Emiliano, limitandosi a sussurrarla.

Se una foto non rende giustizia

Un po’ tutti i giornali -diciamo pure, tutti- hanno dato un contributo al già troppo diffuso qualunquismo pubblicando con aria indignata quella foto dell’aula di Montecitorio quasi vuota, con una ventina di deputati presenti, sparsi qua e là, sui 630 componenti l’assemblea che riscuotono regolarmente -aggiunge il diavoletto che mi spunta fra le dita- le loro brave indennità parlamentari, annessi e connessi. E ciò alla faccia -scrive sempre il diavoletto- dell’argomento in discussione: il biotestamento, cioè anche il diritto di morire al posto di vivere da morti.

Ma quella foto è vera come una natura morta, appunto. E’ stata diffusa malevolmente. Ve lo assicura un vecchio cronista parlamentare che non deve guadagnarsi nessuna consulenza dai presidenti delle Camere, dal Quirinale e da altri palazzi dove si potrà condividere, per esperienza o conoscenza delle cose, questa franca e anticonformistica convinzione.

Qualcuno ha involontariamente riconosciuto l’abbaglio scrivendo, credo anche in un titolo, del “rito della discussione”: una sintesi imposta da ragioni grafiche, o di spazio, ma ugualmente chiara ad un lettore non prevenuto. Più che “il rito della discussione”, si sarebbe dovuto e si dovrebbe scrivere “il rito dell’apertura della discussione”. Che avviene di solito, specie il lunedì mattina, in un’aula praticamente deserta.

Il dibattito su una legge, di qualsiasi natura e importanza sia, si apre con quattro o cinque interventi, si interrompe per discutere provvedimenti più urgenti perché in scadenza, come nel nostro caso la conversione di un decreto legge su sicurezza e immigrazione, si riprende dopo qualche giorno, a decreto convertito, e prosegue nella settimana successiva con l’esame vero del provvedimento: articolo per articolo, emendamento su emendamento e via dicendo. A quel punto -credetemi- l’aula parlamentare sarà piena come un uovo. E sin troppo animata.

L’enfatizzazione di una foto che mi permetto di definire banale, come quella di una piazza vuota, o quasi, alle prime luci del giorno, non serve ad informare. Serve solo a intossicare ulteriormente il rapporto fra le istituzioni e una società che peraltro chiamiamo spesso civile con qualche esagerazione. Civile come può essere un corteo di manifestanti contro l’evasione fiscale, l’illegalità e quant’altro affollato di gente che nasconde i suoi redditi, si fa pagare in nero la riparazione dell’auto o del rubinetto, non si fa fare la ricevuta al ristorante o all’ambulatorio in cambio di uno sconticino, e magari ha anche rubato qualcosa al supermercato di turno.

Colgo l’occasione per precisare che dopo un attento esame di quella fotografia dell’aula di Montecitorio “scandalosamente” vuota, o frequentata solo da una ventina di deputati, ho visto che fra i presenti non c’era neppure un parlamentare del movimento più solito a rappresentare il Parlamento qualche volta per quello che è ma più spesso per quello che non è. E se, magari, ce ne fosse stato uno fuori posto, rispetto ai seggi abitualmente occupati dai pentastellati, sarebbe stato appunto uno soltanto, non di più: una presenza più virtuale , quindi, che reale.

D’altronde, preferisco un’aula semivuota ad un’aula parlamentare falsamente piena, frequentata cioè da deputati o senatori che, per l’attenzione che dedicano a ciò che vi si dice e vi accade, sono più comparse che persone vere.

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E’ un abbaglio -passando da una foto a un’intervista- anche quella reazione un pò da sfida di Maurizio Lupi, presidente del gruppo alfaniano della Camera, allo spostamento a sinistra del Pd avvenuto col raduno dei renziani al Lingotto di Torino. Dove Renzi ha irriso, sì, alla Bandiera rossa, alla rivoluzione socialista e ai pugni chiusi dei fuoriusciti dal suo partito, ma non ha per niente escluso di potere tornare a a fare accordi di governo con loro dopo le elezioni, quando cioè nella frammentazione dei partiti e dei gruppi, favorita dal ritorno ormai nelle cose al sistema elettorale proporzionale, dovrà far quadrare i conti di una maggioranza per la fiducia parlamentare di cui avrà bisogno l’esecutivo. Allora, se non vi saranno altri colpi di scena, la direzione di marcia sarà solo a sinistra, essendo il Pd un partito, appunto, di centrosinistra, come ha tenuto più volte a sottolineare a Porta a Porta, da Bruno Vespa, il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, di provenienza Ds-ex Pci. Che Renzi, prima ancora di essere rieletto segretario, ha già incoronato vice segretario unico, destinando non so a quale incarico il povero Lorenzo Guerini, purtroppo post-democristiano.

“Non li rincorreremo”, ha detto il capogruppo del ministro degli Esteri Angelino Alfano a Montecitorio, parlando appunto del Pd renziano del Lingotto, nelle cui liste elettorali col sistema proporzionale è già stato annunciato che potranno esserci Giuliano Pisapia e i compagni del “Campo progressista”, ma difficilmente gli alleati presenti oggi nel governo di Paolo Gentiloni, cioè gli alfaniani. Che invece un pensierino in quella direzione -diciamo la verità- lo avevano fatto prima del Lingotto, tanto da avere convocato per sabato prossimo un’assemblea conclusiva dell’esperienza del Nuovo Centro Destra formatosi nell’autunno del 2013 rompendo con Silvio Berlusconi, sia pure come “diversamente berlusconiani”. Il partito del ministro degli Esteri si libererà del termine “destra” e rimarrà di centro.

Peccato però che questa benedetta area di centro sia piena più di sigle, di aspirazioni, di leader e leaderini che di voti, come impietosamente prevedono o certificano i sondaggi, compresi quelli letti a Porta a Porta da Vespa davanti al viso un pò da Sfinge bergamasca di Martina.

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Non si può neppure dire che Silvio Berlusconi, anche lui spiazzato forse dalle notizie del Lingotto, abbia voglia di soccorrere i centristi usciti dal suo partito, perché l’uomo, diversamente dalle apparenze, non è facile al perdono, se non al dettaglio, cioè recuperando i “diversamente berlusconiani” uno per uno, a sua insindacabile scelta, e senza che pretendano di rappresentare poi altro che non il padrone di casa.

Piuttosto, l’uomo di Arcore, distratto poi da quel gran traffico immaginario di soldi che studia fra le vecchie lire, o addirittura am lire , in una tasca e gli euro nell’altra, preferisce offrire dosi suppletive di pazienza a Matteo Salvini per quel “listone” che potrebbe essere costretto a fare dal ritorno, pur da lui auspicato, al sistema elettorale proporzionale macchiato però con l’illusorio premio di maggioranza alla lista che dovesse raggiungere a prima botta il 40 per cento dei voti.

 

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L’enigma Pisapia dopo il Lingotto

Terminato il raduno renziano del Lingotto con la rappresentazione plastica del legame politico e personale fra il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, accolto a Torino con una ovazione, e il suo predecessore a Palazzo Chigi, a dispetto di tutte le manovre per metterli l’uno contro l’altro, o solo per distanziarli, resta ora da capire il rapporto che potrà o dovrà crearsi fra un Pd tornato sotto la guida di Matteo Renzi e il nuovo, esordiente “Campo progressista”. Che è stato presentato nel teatro romano del Brancaccio dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia proprio in coincidenza col raduno torinese.

Uomo assai educato e colto, cosa che non guasta nel panorama politico italiano, mite di carattere ma fermo nelle sue convinzioni, Pisapia ha assicurato di non avere voluto creare “un partitino” con la sua iniziativa. E di non volerlo creare neppure in un secondo momento. E fa bene, perché di partiti e partitini ce ne sono anche troppi: tanti che per proteggerne l’esistenza, e persino l’ulteriore proliferazione, si è ormai buttato alle ortiche il sistema elettorale maggioritario, sia pure all’italiana, che ha alimentato la cosiddetta seconda, e deludente, Repubblica.

Sono due i colpi di grazia dati alla seconda Repubblica di stampo maggioritario. Il primo è stato inferto dagli elettori con la bocciatura referendaria della riforma costituzionale studiata in funzione, appunto, maggioritaria. Il secondo è stato inferto dalla Corte Costituzionale, che ha reso proporzionale, con quel premio di maggioranza   alla lista e a soglia praticamente irraggiungibile del 40 per cento in un solo turno, il cosiddetto Italicum. E ciò dopo avere reso proporzionale anche la legge rimasta in vigore solo per l’elezione del Senato, sopravvissuto al referendum del 4 dicembre.

Il giudice costituzionale Giuliano Amato, ex di tantissime cose, ha recentemente concesso, bontà sua, al Parlamento ormai in scadenza di poter mettere elementi di maggioritario nelle leggi elettorali esistenti perché questo non è stato impedito dalla Corte di cui egli fa parte. Ma il mio amico Giuliano è troppo esperto di politica, avendo peraltro fatto due volte il capo del governo, e troppo sottile nelle analisi -come dice il soprannome, al maiuscolo, che porta meritatamente da tantissimo tempo- per non sapere che a questo punto, con la frammentazione partitica che c’è, e il cosiddetto tripolarismo creato dall’irruzione parlamentare dei grillini, i suoi auspici, o desideri, o tolleranze di spirito maggioritario sono solo virtuali.

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Ma torniamo al buon Pisapia, di cui -per inciso-vorrei anche ricordare a suo merito l’ostilità guadagnatasi negli ambienti giudiziari ai tempi di Romano Prodi a Palazzo Chigi, quando si prospettò per lui, esponente della Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti, la nomina a Guardasigilli. Sarebbe stato un ministro della Giustizia perfetto. I signori procuratori e giudici non avrebbero potuto disporre del dicastero di via Arenula come sono stati abituati purtroppo già dai tempi del pur buon Giuliano Vassalli, socialista. Che permise loro nel 1988 di vanificare con una legge sottovalutata gravemente anche da Bettino Craxi la responsabilità civile delle toghe voluta dagli elettori in un referendum stravinto pochi mesi prima.

L’obiettivo dichiarato dall’ex sindaco di Milano, cui ha voluto affiancarsi subito la presidente della Canera Laura Boldrini, è di favorire la formazione di un governo di centrosinistra “ampio”, comprensivo cioè della maggior parte della diaspora della sinistra aggravatasi con la scissione del Pd. Un centrosinistra che tanto più potrà essere ampio quanto meno potrà consentire la partecipazione di quegli elementi di centrodestra che hanno consentito in questa legislatura al Pd di governare il Paese. Addio, quindi, ad Angelino Alfano e a Denis Verdini, già indigesto prima della sua condanna in prima istanza a 9 anni di carcere per bancarotta e altro, figuriamoci dopo. Ma addio anche ad un recupero di Silvio Berlusconi nel caso in cui dovesse rompere davvero, e finalmente, con la lega lepenista di Matteo Salvini e della sua coda costituita dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

D’altronde, non è solo a sinistra che un’intesa di governo con Berlusconi procura l’orticaria. Il professore Angelo Panebianco, non sospettabile certamente di simpatie per la sinistra, almeno per quella necessaria ad un centrosinistra “ampio” come vorrebbe l’ex sindaco di Milano, ha appena scritto sul Corriere della Sera che “fra tutte le coalizioni, la più balzana sarebbe fra il Pd e Forza Italia”.

 

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Il progetto di Pisapia non è per niente scartato, almeno per ora, dai renziani di edizione Lingotto, il cui leader ha appena scoperto il fascino anche del termine “compagno”, dopo aver portato lui il Pd nella famiglia del socialismo europeo, e non il Veltroni o il Bersani di turno.

C’è chi, fra i renziani, come ha appena annunciato in un titolo di prima pagina Repubblica, vorrebbe offrire a Pisapia una candidatura al Parlamento nelle liste del Pd. Ciò peraltro gli consentirebbe, una volta eletto, di trovarsi persino nella condizione di guidare lui un governo di coalizione di centrosinistra “ampio”, se Renzi dovesse rinunciare al proposito dichiarato o confermato propio al Lingotto di ripetere l’esperienza del doppio incarico di segretario del partito e presidente del Consiglio. Un proposito che si è fatto obiettivamente difficile nel quadro politico prodotto dal referendum di dicembre e dalla scissione del Pd.

Pisapia ha solo dieci anni in meno di Prodi: troppo poco per considerarlo quell’edizione “giovanile” del presidente del Consiglio dell’Ulivo auspicata da Pier Luigi Bersani prima di lasciare il Pd con Massimo D’Alema e compagnia bella. Ma di certo egli potrebbe riuscire più di altri a tentare l’assemblaggio governativo dei tanti pezzi sparsi della sinistra, ai quali ha già ricordato che non possono scambiare il Pd per “il nemico”.

Se poi una coalizione del genere, presieduta o no da Pisapia, sia la più adatta a governare l’Italia in questo mondo e in questa Europa che sembra andare più a destra che a sinistra, è naturalmente tutto da vedere.

 

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Quando Ingroia cammina contromano in Procura

L’avvocato Antonio Ingroia, già magistrato alla Procura di Palermo, dalle cui indagini è derivato il processo in corso da tempo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione stragista del 1992 e 1993, già collaboratore dell’Onu in Guatemala, già sfortunato candidato alla presidenza del Consiglio nelle elezioni politiche del 2013, ha esposto in un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano -e da chi sennò?- le ragioni per le quali ritiene infondate le accuse di peculato rivoltegli dagli ex colleghi isolani per rimborsi spese e indennità percepite come amministratore unico dell’ente regionale Sicilia e Servizi.

         Spero francamente per lui ch’egli abbia esposto le sue ragioni ai magistrati che lo hanno già interrogato meglio di quanto gli sia riuscito nell’articolo perché a leggerlo, confesso, non ci ho capito molto. E Indro Montanelli mi insegnava che quando c’è un articolo non sufficientemente chiaro al lattaio che lo legge, la colpa non è mai del lattaio ma di chi l’ha scritto. Chissà poi perché Montanelli preferiva il lattaio come lettore cavia.

         Ho comunque ricavato l’impressione che si producano troppe leggi e in troppo poco tempo perché possano essere applicate bene, come quelle in forza delle quali Ingroia ha riscosso indennità di rendimento, o simile, che alla Procura palermitana sono apparse indebite.

         Ma, a parte l’articolo affidato al Fatto Quotidiano, ho trovato particolarmente sorprendente lo stupore polemicamente espresso in altre sedi dall’avvocato Ingroia per la tempestività e l’intensità con le quali i cronisti giudiziari erano stati informati dell’interrogatorio subìto negli uffici della Procura, senza che lui ne avesse parlato con alcuno.

         Insomma, anche Ingroia ha potuto toccare con mano quanto poco si custodiscano i segreti negli uffici per tanti anni da lui frequentati in veste non di indagato ma di inquirente. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire.

         Eppure non sono riuscito a dimenticare il volto stupìto di Ingroia quando gli vennero lette o riferite alcune dichiarazioni polemiche sulla tenuta degli uffici giudiziari di Palermo rilasciate dall’ex presidente della Camera Luciano Violante. Che proprio Ingroia voleva interrogare a proposito delle presunte trattative fra lo Stato e la mafia, mentre lo stesso Violante presiedeva la commissione parlamentare antimafia. Dalla cui postazione gli inquirenti ritenevano evidentemente che egli avesse potuto sapere o intuire qualcosa, anche perché l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, contattato allora dai servizi segreti nella sua abitazione romana e padre di un teste a lungo ritenuto poi credibile dallo stesso Ingroia, si era offerto a deporre davanti alla commissione bicamerale.

Matteo Renzi divide la Repubblica di carta

La scissione a sinistra, consumatasi nel Pd per la decisione di Matteo Renzi di rimontare sul cavallo dal quale era stato disarcionato con la sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, si è specchiata sulla prima pagina della Repubblica di carta con i giudizi opposti riservati dal fondatore Eugenio Scalfari e dall’editorialista Massimo Giannini al discorso dell’ex presidente del Consiglio al Lingotto. Dove il raduno dei renziani si è concluso oggi con un altro intervento dell’uscente e ormai rientrante segretario del partito alla significativa e attesa presenza di Paolo Gentiloni. Il quale ha voluto così confermare, col saluto dello stesso Renzi e fra gli applausi riservatigli dal pubblico, la consonanza di idee col suo predecessore a Palazzo Chigi, a dispetto di chi scommette ripetutamente su qualche contrasto fra di loro anche dopo il tramonto del progetto di elezioni anticipate attribuito al vertice del Pd.

Massimo Giannini – i cui estimatori attribuiscono proprio a Renzi, a torto o a ragione, la responsabilità della perdita di Ballarò, sulla terza rete televisiva della Rai, a causa di un urticante commento alla vicenda della Banca Etruria e del vice presidente Boschi, papà dell’allora ministra Maria Elena- nel discorso di apertura dell’ex presidente del Consiglio al Lingotto ha avvertito solo o soprattutto “i soliti muscoli del capitano”. E’ un po’ quello che hanno lamentato l’ex capogruppo alla Camera Roberto Speranza e il governatore toscano Enrico Rossi, entrambi usciti dal Pd piuttosto che misurarsi nelle primarie con chi avevano pur sfidato prima della convocazione del congresso.

Scalfari invece, in un editoriale una volta tanto tutto politico, senza premesse e condimenti di storia, filosofia, arte e quant’altro, come gli capita spesso di fare nei suoi appuntamenti domenicali con i lettori, ha dato del discorso di Renzi un giudizio “complessivamente positivo”. Anziché “i soliti muscoli” indicati da Giannini, il fondatore di Repubblica ha avvertito “carisma” nell’ex presidente del Consiglio, riconoscendogli il merito di avere meglio piazzato a sinistra il Pd, e non solo per avere chiamato sinceramente e non sarcasticamente “compagni” i suoi interlocutori.

Si deve forse proprio alla più marcata posizione di sinistra voluta per il Pd, non a caso portato proprio da Renzi tre anni fa nella famiglia del Partito Socialista Europeo, quella “dose notevole di demagogia” che Scalfari ha rimproverato all’ex presidente del Consiglio. Sino a fermarsi al “positivo” e non spingersi all’”ottimo” nella valutazione finale del discorso.

 

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D’altronde, a sinistra è sempre stato difficile tracciare i confini precisi tra realismo e demagogia. Basterà pensare al lunghissimo e storico scontro tra riformismo e comunismo, o fra socialdemocrazia e comunismo, quando i riformisti e i socialdemocratici erano bollati come traditori dai comunisti. Che erano utopisti sino sacrificare la democrazia e, peggio ancora, la vita dei loro avversari, e a volte persino la propria.

Rispondono alla volontà di tenere a sinistra il Pd, quasi a proteggerlo dall’accusa dei fuoriusciti di averlo portato troppo a destra nei mille giorni e più del suo governo, anche la promozione del ministro Maurizio Martina, proveniente dai Ds-ex Pci, a numero 2 del partito nella nuova gestione renziana, e l’ospitalità offerta sotto le volte del Lingotto a Emma Bonino. Che non ha certamente deluso il padrone di casa col suo discorso che più a sinistra non poteva essere sul terreno spinosissimo dell’immigrazione: una specie di maledizione secondo la destra, una “risorsa” invece secondo la radicale italiana più famosa nel mondo, forse più del compianto Marco Pannella.

Con quel quasi turbante in testa, indossato per coprire gli effetti della sua coraggiosa e vincente lotta al cancro, e quel suo fisico minuto e asciutto, Emma sembrava al Lingotto una versione laica di Madre Teresa. E, accolta dalla platea con un entusiasmo che l’ha persino imbarazzata, tanto da chiedere ai presenti di trattenere un po’ quegli applausi perché si accingeva a deluderli, la Bonino ha denunciato una delle tante contraddizioni di chi ha “paura” degli immigrati ma affida loro sempre più frequentemente la “badanza”, cioè assistenza, di ciò che dovrebbe esserci più caro: “i nostri vecchi”.

Come dare torto su questo piano, in verità, ad Emma ? Alle cui aperture e generosità hanno ritenuto di dovere poi aggiungere, se non opporre, le esigenze della “sicurezza” e di una “doverosa risposta alla paura” esponenti del renzismo come Nicola Latorre, ex dalemiano, e il governatore campano Vincenzo De Luca. Qualcuno è stato sentito mormorare, fra il pubblico, che con le idee della Bonino sull’immigrazione il Pd scenderebbe non del ma al 3 per cento dei voti. Forse è esagerato, ma di sicuro non guadagnerebbe consensi.

 

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Immigrazione a parte, di cui comunque non basta cavalcarne la paura per ottenere popolarità, come dimostra la guerriglia scatenatasi a Napoli contro il segretario leghista Matteo Salvini con l’incoraggiamento addirittura del sindaco Luigi De Magistris, lasciatemi rimproverare a Renzi il ritardo col quale ha scoperto, diciamo così, Emma Bonino. Che egli avrebbe fatto non bene ma benissimo tre anni fa, quando arrivò a Palazzo Chigi allontanandone con le cattive maniere Enrico Letta, a confermarla alla Farnesina.

L’esponente radicale era stata e avrebbe continuato ad essere, nonostante il tempo e le energie sottrattele temporaneamente dalla malattia, una eccellente ministra degli Esteri. Alla quale invece Renzi preferì una meno esperta -vogliamo definirla così per cavalleria?- funzionaria di partito poi trasmigrata, peraltro, a Bruxelles.

Oltre al ritorno della Bonino va segnalata a favore del raduno renziano al Lingotto l’ovazione -che ha tanto indignato, non a caso, il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio- riservata all’ottantacinquenne Biagio De Giovanni quando ha protestato contro “la Repubblica giudiziaria” prodotta dalla tracimazione della magistratura, e dalla conseguente subalternità della politica.

 

 

 

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