Se sarà davvero verifica, si svolgerà in Parlamento, non al Quirinale

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Mario Draghi, che forse ne ha davvero “le tasche piene”, come gli fa dire Francesco Verderami sul Corriere della Sera, ha mandato un chiaro segnale, o monito, salendo ieri al Quirinale per consultarsi col presidente della Repubblica sullo spettacolo appena dato dalla Camera dai grillini. I quali, pur avendo nella scorsa settimana votato la fiducia posta da governo sul cosiddetto “decreto aiuti”, non hanno voluto approvare  ieri il provvedimento in 85 su 104 deputati. E ciò in esecuzione di una direttiva esplicita del capogruppo.  

Se analogo comportamento – come anticipato dagli interessati- si ripeterà davvero giovedì al Senato, dove però a causa di un regolamento più coerente e stringente sarà unica la votazione sulla fiducia e sul provvedimento, il presidente del Consiglio tornerà al Quirinale non più per riferire o consultarsi col capo dello Stato ma per rassegnare le dimissioni. Alle quali Mattarella reagirebbe non accettandole con la consueta riserva ed aprendo le consultazioni di rito, ma rinviandolo subito alle Camere per una discussione davvero chiarificatrice, per vedere cioè se e quale maggioranza esista attorno al suo governo. Sarebbe quindi una verifica alla luce del sole, in Parlamento, non quella riservata nell’ufficio del presidente della Repubblica ricevendo le solite delegazioni dei partiti nell’altrettanto solita riservatezza, per quanto mitigata dall’abitudine di conservare di ogni incontro in occasione delle crisi di governo una specie di verbale riservato, lasciandone al capo dello Stato la valutazione per le sue decisioni, magari spiegate poi alla stampa davanti alle telecamere. 

Marzio Breda sul Corriere della Sera

La cronaca dell’incontro di Draghi con Mattarella fatta sul Corriere della Sera dal solito, attendibilissimo Marzio Breda è molto chiara. Il presidente del Consiglio -ha scritto il quirinalista del più diffuso giornale italiano- potrebbe presentarsi dimissionario e essere magari rinviato dal presidente della Repubblica alle Camere, per aprire quella verifica politica che nelle ultime ore è parsa fra le eventualità meno remote”. Essa infatti è stata pubblicamente chiesta all’interno della maggioranza da Silvio Berlusconi e condivisa dalla Lega. 

Nel passaggio parlamentare della verifica -senza quindi la bizzarria della “verifica al Quirinale” ventilata ieri da giornali come lo stesso Corriere della Sera e La Stampa- Draghi potrebbe trovarsi avvantaggiato, rispetto alla voglia di disimpegno dei grillini gestita all’esterno delle Camere da Giuseppe Conte, da un eventuale avvio oggi di un costruttivo confronto con i sindacati su problemi che in gran parte coincidono con le richieste della “discontinuità” o di un “cambio di passo” avanzate a Palazzo Chigi dal presidente del MoVimento 5 Stelle con un documento articolato in nove punti. In caso di questo avvio costruttivo, auspicato tanto da Draghi quanto da Mattarella, che ha incoraggiato il presidente del Consiglio su questa strada, una prosecuzione della sostanziale guerriglia, o guerra di nervi, di Conte contro Draghi sarebbe davvero anacronistica perché i grillini scavalcherebbero addirittura i sindacati. 

Titolo del Riformista

In tal caso tuttavia -mi risulta che pensino al Quirinale- sarebbe forse più facile, o meno difficile, convincere Draghi a proseguire il suo lavoro senza i grillini nel governo, e persino col famoso “Draghi bis” escluso sinora dall’interessato, ma ventilato per qualche ora -nei giorni scorsi- anche dal segretario del Pd Enrico Letta. 

Tutto insomma è ancora in movimento, al minuscolo, lasciando al MoVimento, quello con la maiuscola di Conte, il compito che si è assunto di pestare i piedi nel mortaio della sua crisi elettorale e della scissione di Luigi Di Maio. Che peraltro non sembra ancora completata, essendoci una ventina di parlamentari “governisti” pronti ad aggiungersi agli oltre sessanta che hanno già seguito il ministro degli Esteri componendo gruppi alla Camera e al Senato e facendo perdere a quelli di provenienza la maggioranza relativa, passata alla Lega.

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La curiosa scommessa su una verifica di governo condotta da Mattarella

Titolo della Stampa
Titolo di Repubblica

Dopo la “discontinuità”, anzi la “forte discontinuità” chiesta da Giuseppe Conte a Mario Draghi per non fare ritirare dal governo i ministri tuttora pentastellati, torna nelle cronache politiche, fra “retroscena” e scena vera e propria, un altro termine, o rito, della cosiddetta Prima Repubblica: la “verifica” di governo, o di maggioranza. Ne hanno scritto, in particolare, la Repubblica anche con un richiamo in prima pagina e La Stampa solo all’interno, entrambe come passaggio al Quirinale nel caso in cui giovedì prossimo al Senato i grillini dovessero negare la fiducia al governo -concessa invece alla Camera- non partecipando al voto per la conversione in legge del decreto “aiuti”. Che è a loro indigesto soprattutto nella parte in cui consente il termovalorizzatore a Roma. Dove peraltro dietro agli incendi succedutisi con una frequenza a dir poco inquietante si sospettano interessi criminali creatisi attorno all’eterna e costosissima crisi della raccolta e dell’eliminazione dei rifiuti.

Titolo di Libero
Dalla cronaca di Repubblica

La verifica al Quirinale, cui penserebbero alcuni partiti della maggioranza, secondo il racconto di Repubblica, è tuttavia una variante rispetto alla pratica della Prima Repubblica. Allora non si svolgeva, appunto, al Quirinale ma a Palazzo Chigi. A condurre la verifica non era il capo dello Stato ma il presidente del Consiglio, che stavolta si vorrebbe esonerare dal compito non si capisce bene se per proteggerlo o per ridurne la forza, visto anche il calo dell’indice di gradimento  personale appena rilevato e rivelato a Libero da Alessandra Ghisleri: dal 60 per cento del suo esordio al 48 per cento, con una perdita quindi di 12 punti, pur attribuiti soprattutto all’area elettorale pentastellata e leghista. Che è l’area dei due partiti che più problemi hanno creato a Draghi in un anno e mezzo di governo. Ma ormai i grillini hanno superato come contestatori i leghisti, essendo il governo “ostaggio” -come dice il titolo di un editoriale di Domani- “del narcisismo di Conte”. Che ha forse indotto Matteo Salvini a contenersi per lasciare all’altro socio della maggioranza, quello da lui privilegiato nella prima maggioranza di questa legislatura, l’onere politico di una crisi nel bel mezzo di emergenze vecchie e nuove. 

Enrico Letta

Esiste tuttavia il pericolo -dal punto di vista o di interesse dei partiti desiderosi di questo passaggio- che la “verifica” al Quirinale sia stata pensata e sia perseguita senza tenere ben conto della disponibilità di chi la dovrebbe condurre, com’è accaduto nei giorni scorsi col cosiddetto “Draghi bis”: ventilato dai grillini e alla fine anche dal segretario del Pd Enrico Letta per allontanare lo spettro delle elezioni anticipate, sottovalutando l’indisponibilità confermata invece dal presidente del Consiglio a cambiare governo e tipo di maggioranza, con i pentastellati fuori dal primo e formalmente ancora partecipi della seconda con l’appoggio esterno. Tanto Draghi ha confermato la sua indisponibilità che il segretario del Pd ha  dovuto smettere di parlarne tornando a indicare nell’attuale governo l’ultimo possibile di questa legislatura.

Chi può garantire o scommettere davvero sulla disponibilità del presidente della Repubblica a gestire una specie di pre-crisi, anziché la crisi vera e propria che si apre con le dimissioni del governo in carica e con le consultazioni di rito, e non d’obbligo costituzionale? E’ una domanda che si dovrebbe porre almeno un cronista o un commentatore politico considerando la paternità anche umana del governo Draghi, fortemente voluto da Mattarella a chiusura della pasticciata crisi del secondo governo Conte. Un governo, quello di Draghi, a tutela del quale il presidente della Repubblica si è persino rassegnato alla rielezione cui era indisponibile, su richiesta dello stesso presidente del Consiglio, prima ancora che dei capigruppo parlamentari sfilati al Quirinale, nel momento in cui la scelta di un successore al vertice dello Stato divenne pericolosa per Palazzo Chigi.

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Dall’abitudine alla guerra in Ucraina all’attesa della crisi di governo coltivata da Conte

Ancora dal Giornale
Titolo del Giornale

Ci siamo tanto abituati alla guerra in Ucraina, secondo Putin neppure cominciata davvero, che i giornali ormai ne pubblicano le foto -se le pubblicano- all’interno, o nelle parti basse delle loro prime pagine, mettendo in alto quelle delle fiamme e del fumo a Roma. Dove il nuovo sindaco ed ex ministro Roberto Gualtieri è già sulla strada di Nerone. 

Massimo Giannini sulla Stampa
L’editoriale della Stampa

Scrive oggi giustamente il direttore Massimo Giannini sulla Stampa contro l’assuefazione “anche a questo: l’orrore del Donbass, i missili che piovono, i civili che muoiono. Tutto è già quasi routine, almeno per la nostra esistenza materiale. Del conflitto russo-ucraino valutiamo -ha scritto ancora Giannini- il costo economico più che il conto delle vittime”, per cui ci chiediamo “quanto rincara la bolletta del gas, il pieno di benzina, la spesa al supermercato, quando scatteranno le restrizioni alle forniture di energia, di aria fredda o di acqua calda, dove arriverà l’inflazione, la più iniqua di tutte le tasse”. E magari qualcuno -mi permetto di aggiungere- si chiederà, accodandosi ai putiniani d’Italia, se davvero ci conviene allungare questa guerra aiutando la resistenza degli ucraini, anziché convincerli con le buone alla resa, in concorrenza con le cattive del Cremlino. 

Ancora Giannini sulla Stampa

Eppure lo stesso Giannini, pur dirigendo un giornale preso di mira dall’’ambasciatore russo in Italia che lo denunciò alla Procura di Roma all’’inizio del conflitto per falso e contorni, si è lasciato scappare una “Europa risparmiata (per ora) dai cannoni di Putin”, ma che “rischia di trasformarsi in grande polveriera sociale”, per cui “i governi dovranno farsene carico”: compreso quello italiano di Mario Draghi, dal quale non a caso i grillini vorrebbero uscire per non perdere anche quei pochi voti che sono rimasti al loro movimento.

Su quell’”Europa risparmiata”, sia pure “per ora”, mi permetterei di dissentire perché l’Ucraina ne è compresa, come dovrebbero dimostrare i pellegrinaggi dei suoi leader da Zelensky, a Kiev, e le procedure di adesione all’Unione avviate con tanto clamore nei giorni scorsi. Se non si ha vera cognizione dell’Ucraina europea non si può coerentemente difendere la posizione assunta appunto in Europa, a cominciare dal governo Draghi, di aiutare gli aggrediti sino a quando sarà necessario e di impedire a Putin di vincere la sua sporca guerra, secondo lui, neppure cominciata davvero, ripeto. E si potrebbe, al contrario, condividere se non le proteste dei putiniani d’Italia, i malumori e le paure di Giuseppe Conte tentato dalla crisi. E ormai frenato solo dalla ricerca del momento più opportuno per soddisfare le attese del “gregge” di cui è presidente, per ripetere l’immagine usata dal premier inglese Boris Johnson rinunciando alla guida del suo partito conservatore e predisponendosi a lasciare anche la guida del governo. 

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Più esita ad arrendersi anche lui al gregge pentastellato, non dimettendosi però da presidente del movimento, come ha fatto l’ancora premier britannico, ma facendo uscire i “suoi” ministri e provocando le dimissioni di Draghi, più Conte rischia di essere degradato a “baluba” da Travaglio e simili, insofferenti dei ritardi di una crisi presuntivamente, molto presuntivamente, rigeneratrice dello spirito originario di un movimento pur dissoltosi ormai per strada, o ridotto a polvere di stelle: un baluba al quale basterebbe che Draghi regalasse “il lecca-lecca e lo zucchero filato”, ha concluso il suo solito editoriale sprezzante il direttore del Fatto Quotidiano.

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Il logoramento di Draghi ignorato o sottovalutato dagli amici, a parole

Titolo di Repubblica di ieri

“Draghi rischia il logoramento”, titolava ieri Repubblica richiamando in prima pagina un articolo di “retroscena” sulla situazione politica e, più in particolare, sulle condizioni in cui si trova il presidente del Consiglio fra annunci, minacce, manovre di crisi prevalentemente attribuite alle tensioni che percorrono il MoVimento 5 Stelle dopo la scissione di Luigi Di Maio, ma onestamente evidenti anche fra i leghisti, ormai superati nel centrodestra dai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Che guadagna voti soprattutto ai danni del partito di Matteo Salvini. 

Giuseppe Conte

Ritengo personalmente ottimistico, e anche troppo, quel titolo o titolino di Repubblica perché Mario Draghi non rischia ma è già in logoramento, pur avendo un’autorevolezza personale che gli ha permesso e gli permette ancora di essere rispettato in tutti gli incontri internazionali ai quali partecipa, o in tutte le missioni che svolge all’estero. Dove Giuseppe Conte non se lo ricorda  ormai più nessuno, per quanto lui e i suoi amici si vantino di avere lasciato il segno con i finanziamenti europei al piano di ripresa e resilienza. Che tuttavia egli non riuscì o non fece in tempo a tradurre in un progetto concreto. E quando vi provvide Draghi e qualcuno alla Commissione Europea storse il naso su alcuni particolari, ritenuti non adeguatamente contabilizzati e credibili, bastò che il nuovo presidente del Consiglio dicesse “garantisco io” perché tutto passasse. Ve lo immaginate un “garantisco io” di Conte? Via, cerchiamo di essere seri. 

Per quanto potrà ancora durare tuttavia di fronte agli sviluppi caotici della situazione politica italiana  il mantenimento del prestigio personale di Draghi sul piano internazionale, guadagnatosi soprattutto con la sua esperienza a Francoforte presiedendo la Banca Centrale Europea e salvando l’euro da una tempesta che lo stava travolgendo? Questa è la domanda che dovrebbero porsi i veri estimatori del presidente del Consiglio, non l’auspicio ch’egli riesca ancora a tenere a freno i grillini. O che, in caso contrario, riesca a formare un altro governo -il Draghi bis- senza di loro, ormai non più determinanti numericamente per la formazione di una maggioranza in Parlamento, e portare la legislatura al suo compimento ordinario, a marzo dell’anno prossimo. E con elezioni a maggio, usando sino all’ultimo secondo il tempo a disposizione per mandare concretamente gli italiani alle urne dopo lo scioglimento delle Camere scadute. 

Giovanni Goria visto da Giorgio Forattini

Più che governare davvero l’Italia, Draghi collezionerebbe con il suo bis, o con l’attuale governo miracolosamente sottratto alla crisi perseguita dai soci infidi della sua maggioranza, solo incidenti, infortuni, compromessi destinati a farne un politico uguale a tanti altri comparsi e scomparsi nella storia della prima, seconda, terza Repubblica. Rischierebbe la fine del povero Giovanni Goria, senza neppure la barba che consentì, da sola, a quell’ex ministro del Tesoro e presidente del Consiglio democristiano di essere rappresentato agli italiani da Giorgio Forattini nelle sue vignette.

Titolo del Foglio

Un Draghi bis o un Draghi costretto alla macina di una campagna elettorale di un anno sarebbe davvero la fine dell’esperienza politica del presidente del Consiglio: altro che la prenotazione di un più solido governo nella nuova legislatura. Chi sostiene il contrario o è uno sprovveduto, incapace di capire, per esempio, il discredito che gli deriverebbe dalle nomine negli enti pubblici già richiesto a Draghi dal Pd per non lasciarle agli equilibri politici della prossima legislatura, o è un suo avversario travestito da amico. Che pensa anche di cambiare per l’ennesima volta la legge elettorale a pochi mesi dal voto, in difformità peraltro dalle regole o dai canoni europei. Ma quella in vigore è pessima, ha appena confermato al Foglio il segretario piddino Enrico Letta. Beh, bisognava pensarci prima. 

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La fiducia al governo Draghi c’è, ma più apparente che reale per il caos grillino

Titolo di Avvenire

Quei 410 sì e 49 no della Camera sono certamente la conferma della fiducia al governo, che l’aveva posta sulla conversione in legge del decreto degli aiuti in tempi di difficoltà economiche per tanti. Ma è una fiducia sulla carta, o sul tabellone elettronico di Montecitorio. E’ una fiducia neppure “a tempo”, come l’ha definita Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, ma apparente. Data peraltro con molte assenze non solo fra i grillini, ma anche fra leghisti e forzisti. 

Della volontà di  questi ultimi  di sostenere il governo di cui fanno parte è francamente difficile dubitare, ma degli altri sì: soprattutto dei grillini, 13 deputati dei quali si sono messi in missione, forse anche per coprire decentemente il loro dissenso, ma 15 non hanno neppure avvertito questo scrupolo, orgogliosi -temo- di essere “ingiustificati”, come si dice in termini d’aula e di verbali. 

Mattia Feltri sulla Stampa

Il MoVimento 5 Stelle, o ciò che ne resta dopo i sessanta fra deputati e senatori che hanno seguito nella scissione il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è stato diviso sulla Stampa da Mattia Feltri in ben cinque correnti, delle quali quattro ben definibili: governisti, barricaderos, mediatori, attendisti. A capo di ciascuna di esse il mio amico Mattia ha messo, non a torto, Giuseppe Conte per le posizioni ondivaghe che assume ogni volta che parla, anche rispondendo incidentalmente ai cronisti che lo inseguono sapendo di poter portare a casa qualche dichiarazione appetitosa per chi scrive di politica sui giornali, in particolare del perenne stato di pre-crisi in cui si trova da qualche tempo il governo Draghi. E ancor più rischia di trovarsi dopo che il segretario del Pd Enrico Letta si è prestato nelle ultime ore al sospetto che sia disponibile ad un secondo governo Draghi per portare a termine regolarmente la legislatura, senza uno scioglimento anticipato ed elezioni politiche già nella prossima stagione autunnale. Che sarebbero, peraltro, le prime nella storia della Repubblica, essendosi generalmente votato in primavera.

Sempre dal Fatto Quotidiano
Il ring del Fatto Quotidiano

Gli umori più malmostosi fra i grillini nei riguardi di Draghi sono notoriamente espressi dal Fatto Quotidiano, che oggi presenta il presidente del Consiglio e il suo predecessore con i guantoni.  Non bastando il ring, il giornale di Marco Travaglio ha preannunciato al Senato per giovedì prossimo un “D day”, una riedizione cioè dello storico sbarco in Normandia nella seconda guerra mondiale. Quel giorno i grillini dovranno decidere se negare esplicitamente la fiducia al governo sul decreto aiuti, nel frattempo passato alla Camera anche col voto conclusivo, o negarla assentandosi tutti dall’aula: cosa che Conte non ha sinora esclusa, limitandosi a dire che saprà in qualsiasi modo sorprendere con le sue direttive.

Putin

Adesso di guerra in Europa, diversamente dai tempi dello sbarco in Normandia, abbiamo quella in Ucraina, scatenata da un Putin che ha appena opposto sfacciatamente alle tante attese di apertura di un serio negoziato di pace l’avvertimento che non siamo neppure all’inizio della sua avventura nell’odiato paese limitrofo. Per fortuna da qualche giorno, evidentemente informato degli umori a Mosca, non foss’altro leggendo i reportage dalla Russia -sempre sul Fatto Quotidiano– dell’ex deputato grillino Alessandro Di Battista, l’ex presidente del Consiglio ha smesso di mettere in croce Draghi per gli aiuti militari italiani all’Ucraina, contestati sotto le cinque stelle perché praticamente subordinati ad una politica dettata dalla Casa Bianca. 

Boris Johnson

Non si può tuttavia escludere che Conte torni a sollevare anche questo problema, visto che fra i grillini le improvvise pre-dimissioni del primo ministro inglese Boris Johnson con la rinuncia alla guida del partito dei conservatori sono state avvertite come un possibile, auspicabile colpo alla linea dura contro Putin. Oltre che come un incoraggiamento a perseguire la caduta di Draghi in Italia senza dover mettere nel conto le elezioni anticipate, visto che in Gran Bretagna non sono per niente scontate.  

Ripreso dalle Rassegne Stampa del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati

 

La crisi pirandelliana di Giuseppe Conte alla guida delle 5 Stelle

Luigi Pirandello
Titolo del Dubbio

Se la lettura -o rilettura- di Dante è diventata obbligatoria per Beppe Grillo, che ne ha appena ripassato la Divina Commedia, in particolare l’Inferno, per salire a origini e somiglianze dei tradimenti subiti come fondatore e garante del MoVimento 5 Stelle, ma un pò anche dei suoi, compiuti fra battute, risate, precisazioni, smentite, sfuriate e via sceneggiando, la lettura -o rilettura- di Luigi Pirandello è diventata obbligatoria per Giuseppe Conte.

Nel ruolo di ex avvocato del popolo, ex presidente del Consiglio e da circa un anno tormentatisissimo e contestato presidente del movimento grillino, o di quel che n’è rimasto dopo le espulsioni o gli abbandoni più o meno individuali, e infine la scissione di Luigi Di Maio e una sessantina di parlamentari al seguito, Conte può ben riconoscersi nel protagonista del romanzo fra i più famosi, se non il più famoso, dello scrittore siciliano: “Uno, nessuno, centomila”. Egli è quasi una reincarnazione del Vitangelo Moscarda in crisi di identità perché visto dagli altri diversamente da come si vede lui. 

Titolo della Stampa di oggi
Il titolo del Giornale di ieri

Uscito dall’incontro con Draghi senza annunciare la rottura che qualcuno temeva e altri speravano, ma con la richiesta di un “forte segno di discontinuità”, come un protagonista o attore qualsiasi della cosiddetta e odiata Prima Repubblica, il povero ex presidente del Consiglio pensava forse di avere svolto al meglio la funzione di equilibrista: dell’uomo costretto dalle circostanze a camminare sul classico filo sospeso nell’aria. Ma Draghi -non so se più per ingenuità o inesperienza politica o per astuzia iperpolitica, altro che tecnica- lo ha descritto “collaborativo” scatenando un altro, l’ennesimo temporale, o terremoto, nel già bagnato o terremotato movimento delle 5 Stelle. I cui parlamentari con i nervi a fior di pelle hanno sentito puzza di bruciato e hanno cominciato a mettere anche l’altro piede fuori dal governo e forse anche dalla maggioranza: l’altro rispetto a quello già avvertito o segnalato dallo stesso Conte parlando in maniche di camicia con un cronista del Fatto Quotidiano ammesso nel suo ufficio. Che ne ha riferito poi in un articolo corretto -presumo- nella titolazione dal direttore in prima pagina con l’annuncio  di una “comunità 5 Stelle già fuori”, del tutto, a dispetto di un Conte in odore, o puzza, di “Sor Tentenna” o “Re dei penultimatum”, una volta incoronato così, tra il serio e faceto, proprio da Grillo.

Se e come potrà finire questa storia, questa rincorsa -sempre per stare alla rappresentazione di Travaglio- fra un Draghi che vorrebbe cacciarlo fuori e un Conte che potrebbe, o dovrebbe, precederlo facendo uscire i suoi ministri dal governo e cercando di cacciare l’intruso Draghi da Palazzo Chigi, è francamente difficile dire o prevedere. 

Titolo del Foglio di oggi
Il titolo di Libero di ieri

Da qualche giorno c’è chi scrive e persino scommette su Sergio Mattarella non ancora deciso o rassegnato alle elezioni anticipate in caso di crisi, e quindi tentato da un Draghi bis -evidentemente a dispetto dello stesso Draghi, che se n’è detto contrario- per fare terminare la legislatura alla scadenza ordinaria di marzo dell’anno prossimo. A meno che -si deve presumere- ad una crisi non concorra anche la Lega di Matteo Salvini, in competizione con Conte, perché in questo caso è francamente impossibile pensare ad un Mattarella ancora renitente allo scioglimento anticipato di Camere. Che, francamente, ritengo abbiano già vissuto troppo per la dovizia di spettacoli politici offerti agli elettori italiani e alle famose “Cancellerie” estere. Camere – permettetemi di aggiungere- sopravvissute a se stesse solo per le emergenze via via accavallatesi e condizioni di impedimento elettorale come quelle spiegate un anno e mezzo fa da Mattarella in persona in una diretta televisiva dal Quirinale distintasi per drammaticità e trasparenza. Fu la diretta sfociata nella convocazione di Draghi e nella formazione del suo governo. O -come Travaglio, sempre lui, scrisse con inchiostro giallo- nel “Conticidio”.

Non so voi, ma io sinceramente non mi strapperei i capelli, che fortunatamente conservo quasi integri a più di ottant’anni, se in autunno o già in agosto -a dispetto dell’omonimo generale sempre ai bordi della politica estiva per sedare rivolte e colpi di testa- la situazione dovesse precipitare e Mattarella fosse costretto a ciò che è riuscito sinora a risparmiarsi: una sforbiciata alla legislatura, dopo quella ai seggi parlamentari autolesionisticamente apportata dai grillini con la complicità di altri che vi erano contrari sino a un momento prima di cedere. Come il compianto socialista Fernando Santi diceva del segretario del suo partito Francesco De Martino nei rapporti, alternativamente, con la Dc e col Pci. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 10 luglio

Conte travolto dai malumori sotto le cinque stelle dopo l’incontro con Draghi

Titolo di Repubblica

Già “piccola piccola” di suo, come l’ha definita la Repubblica nel titolo di testa di prima pagina, l’intesa di Palazzo Chigi fra Conte e Draghi, o viceversa, con quella “disponibilità” annunciata dal presidente dei 5 Stelle a continuare la collaborazione di governo a condizione di un “forte segnale di discontinuità”, è svanita  in poche ore per le dure reazioni fra i grillini all’impressione ricavata dal presidente del Consiglio, e resa pubblica non so se a caso o apposta, di un colloquio “positivo e collaborativo”. 

Cronaca dell’assemblea dei parlamentari grillini sul Fatto Quotidiano

Riuniti in assemblea, i parlamentari pentastellati si sono praticamente rivoltati a Conte, che pure aveva cercato di trattenerli correggendo Draghi con questa assicurazione, testualmente riportata dal Fatto Quotidiano; “Il tempo è già scaduto. Questo governo deve cambiare marcia. E io a Draghi non ho dato alcuna rassicurazione sulla nostra permanenza. Noi non stiamo qui a reggere il moccolo al grande centro o alla destra”. Per cui evidentemente starebbero lavorando lo stesso Draghi e forse anche Enrico Letta, il segretario del Pd tentato dal pessimismo sui 5 Stelle e quindi dall’interesse a interloquire di più, e meglio, con quell’area di centro che viene spesso chiamata “il partito di Draghi senza Draghi”, comprensivo anche di Luigi Di Maio. Che proprio ieri ha voluto ostentare la sua visita a casa di Beppe Sala: il sindaco di Milano ben visto in quell’area e già espostosi compiacendosi praticamente della scissione del MoVimento 5 Stelle consumata dal ministro degli Esteri.

Ma torniamo all’assemblea dei parlamentari rimasti nel MoVimento e riunitisi dopo l’incontro di Conte con Draghi. Non bastando evidentemente la versione battagliera dell’incontro data da Conte per coprirsi sul versante radicale, è caduta -ha raccontato il cronista del Fatto Quotidiano- “una pioggia di interventi che chiedono di uscire subito dal governo, o quanto meno di chiedere agli iscritti online se restare o no. “Un plebiscito” osserva un deputato. E un altro segnale a Conte, un leader in mezzo a mille fuochi”.

Dal Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

Tra i mille fuochi c’è però proprio Il Fatto Quotidiano, smanioso di una rottura e punto ormai di riferimento dei più ostili a Draghi. Conoscendone gli umori, e l’influenza sulla base del MoVimento, Conte ne aveva ricevuto alcune ore prima il cronista nella sua stanza, in maniche di camicia, dicendogli, cioè ammiccandogli: “La nostra comunità sta con un piede fuori dal governo”. Ma al direttore Marco Travaglio queste parole non sono bastate, diventando in un vistoso titolo di prima pagina: “La comunità 5Stelle è già fuori”. Che è cosa ben diversa, nel contesto di un “colloquio”, anziché di un’intervista che forse si sarebbe esposta di più a una smentita. 

Travaglio su Conte

Va da sè naturalmente che Travaglio e tutti quelli che la pensano come lui sotto le 5 Stelle o dintorni danno per scontata una risposta negativa di Draghi alle attese e richieste del MoVimento, elencate in un documento di nove punti. “Se prevarranno i no- ha scritto il direttore del Fatto Quotidiano- Conte dovrà scrollarsi la nomea di Sor Tentenna e Re dei Penultimatum chiamando subito gli iscritti a votare l’addio al governo e/o alla maggioranza. Però a quel punto non sarà più lui a uscirne, ma Draghi a cacciarlo”. Meglio quindi farebbe Conte a rompere senza neppure attendere che trascorra tutto il mese di luglio, più o meno, lasciato al presidente del Consiglio per una risposta.

Titolo di Avvenire
Titolo della Stampa

Se sarà crisi, soltanto “rinviata” anche secondo La Stampa, o “congelata” secondo Avvenire, saranno dolori di pancia, a dir poco, sotto le 5 Stelle per quelli che sperano ancora nella possibilità di fare opposizione per tutto il tempo che rimarrà della durata ordinaria della legislatura, sino a marzo 2023. E ciò un pò per maturare a settembre prossimo il tanto malfamato vitalizio e un pò per convincere dall’opposizione un pò di elettori a non fuggire, o addirittura a tornare.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Nè rottura nè chiarimento fra Draghi e Conte, che reclama tuttavia “forti segni di discontinuità”

Dopo più di un’ora di incontro con Draghi a Palazzo Chigi Giuseppe Conte si è presentato ai giornalisti per riesumare formule e linguaggi da cosiddetta prima Repubblica, già riapparsi d’altronde per iniziativa d’altri in questi anni che pure dovevano essere tanto diversi. Egli ha chiesto, per esempio, “forti segni di discontinuità” nell’azione di governo per garantire davvero e non solo annunciare la disponibilità del MoVimento 5 Stelle a farne parte. Non ricordo più quante edizioni del centro-sinistra prima di Aldo Moro e poi di Mariano Rumor hanno rincorso discontinuità reclamate dai socialisti e da altri alleati della D.

Discontinuità nel 2019 fu chiesta anche dal Pd allora guidato da Nicola Zingaretti per sostituire la Lega nel governo, finita l’esperienza gialloverde d’inizio della legislatura in corso. Discontinuità significava innanzitutto cambiare presidente del Consiglio, nella ragionevole presunzione che quello uscente non fosse tanto disinvolto da poter stare a Palazzo Chigi cambiando così radicalmente maggioranza. Ma Conte non ne volle sapere e rimase al suo posto con i grillini schierati al suo fianco, compreso Luigi Di Maio. Che pure avrebbe potuto prenderne il posto, e lo aveva rifiutato quando ad offrirglielo era stato Salvini per riesumare la maggioranza gialloverde che aveva fatto saltare nella presunzione di ottenere le elezioni anticipate e di uscirne con i “pieni poteri”.

La discontinuità ora reclamata da Conte a Draghi, lasciandolo ancora- bontà sua- a Palazzo Chigi, dovrebbe essere “forte” quanto è il “disagio politico” nel quale il presidente del Consiglio avrebbe messo il MoVimento 5 Stelle, o ciò che ne è rimasto dopo la scissione di Di Maio. Dietro alla quale Conte ha visto lo zampino di Draghi, le cui smentite non sono servite a dissipare i suoi sospetti. Così come le smentite di Beppe Grillo non hanno dissipato non il sospetto ma la convinzione di Conte che Draghi -sempre lui- abbia tentato di convincere il “garante” del MoVimento 5 Stelle a “farlo fuori”. Ma con Grillo, che pure aveva rivelato quei tentativi parlando con un bel pò di amici poi apparsigli dei “traditori” in una rivisitazione semiletteraria dell’Inferno di Dante, l’ex presidente del Consiglio non ha ritenuto di aprire alcuna polemica dopo la smentita. Evidentemente il garante -per usare un aggettivo che piace a Conte- è ancora troppo forte nel Movimento, o -ripeto- in quel che ne resta, per essere da lui affrontato. 

Mario Draghi

Ma torniamo all’incontro con Draghi. Il contenzioso del suo predecessore rimane aperto anche dopo l’incontro. Non si è avuta la rottura che qualcuno forse si aspettava fra i pentastellati, ma neppure il completo chiarimento e rasserenamento che sarebbero stati utili al governo in questa stagione politica in cui le emergenze si accavallano anziché diminuire di numero e di intensità. Nè Draghi, con una serietà che una volta tanto gli ha riconosciuto lo stesso Conte, immagino con quanto stupore o dispetto di chi lo rimpiange a Palazzo Chigi un  giorno sì e l’altro pure, ha voluto fare finta di nulla per quieto vivere. Si è preso “un pò di tempo” -ha detto lo stesso predecessore- per esaminare le richieste di “discontinuità” presentategli con tanto di documento. 

Si continuerà insomma a navigare a vista, in attesa del prossimo incidente, o salto d’umore o ultimatum. Anzi, penultimatum di Conte. Parola di Grillo: sempre lui, il vero problema -come dicono sempre più numerosi gli osservatori politici- dell’avvocato rimasto senza popolo.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Gli accordi con Erdogan aumentano il contenzioso delle 5 Stelle con Draghi

Titolo di Repubblica

  Più che dei veti, come ha preferito chiamarla la Repubblica, è la battaglia dei voti quella scoppiata nel governo, nella maggioranza e fuori dall’uno e dall’altra: voti peraltro immaginari pensando al rinnovo delle Camere, ordinario o anticipato che possa rivelarsi. Ordinario, naturalmente, nelle speranze di Giuseppe Conte e di Matteo Salvini, che chiudono la legislatura praticamente insieme come l’avevano cominciata nel 2018, convinti che   una campagna elettorale abbastanza lunga -quasi un anno- possa aiutarli a fermare il declino o, rispettivamente, a recuperare un pò di quel che hanno perduto. Anticipato il più possibile -il rinnovo delle Camere- per chi come Giorgia Meloni è stata sempre all’opposizione ed è per questo cresciuta tanto da essersi classificata in testa con i suoi “fratelli d’Italia” nella graduatoria dei sondaggi. Ma anche per Enrico Letta, il segretario del Pd, che non a caso è diventato spesso l’interfaccia della Meloni, ed ha l’interesse sempre meno nascosto a farla finita il più presto con questa legislatura da vertigini.

Ciò che il segretario del Pd si è trattenuto dal dire per ragioni estreme di diplomazia lo ha fatto spiegare dal ministro della cultura Dario Franceschini, centrale in ogni maggioranza al Nazareno: una crisi porterebbe non solo ad elezioni anticipate ma anche alla fine del cosiddetto o presunto campo largo con le 5 Stelle. Che senza un’intesa elettorale col Pd per la distribuzione dei seggi nei collegi nominali uscirebbero dalle urne con prefissi telefonici: davvero polvere di stelle.

Il titolo del Riformista
La vignetta del Fatto Quotidiano

        L’ansia da prestazione, diciamo così, alla vigilia dell’incontro fra Draghi e Conte rinviato da lunedì ad oggi a causa della tragedia della Marmolada, ma anche della missione del presidente del Consiglio in Turchia, si è avvertita sotto le cinque stelle a tal punto che il giornale di sostanziale riferimento com’è Il Fatto Quotidiano, nella parte abitualmente più disinibita della sua prima pagina che è quella della vignetta, ha rappresentato la voglia vicendevole del presidente del Consiglio e del predecessore di “togliersi dal cazzo” l’altro. Chi ci riuscirà? Il Riformista si è augurato Draghi titolando sul “mercoledì nero” di Conte. Si vedrà. 

L’editoriale del Fatto Quotidiano

Certo è che sempre sotto le cinque stelle, e sempre sul giornale che ne riflette di più gli umori più profondi, il presidente del Consiglio in carica viene rappresentato come peggio non si potrebbe. La sua missione in Turchia, con mezzo governo al seguito, per una serie di accordi con Erdogan, il “dittatore” lamentato l’anno scorso dallo stesso Draghi con l’avvertenza realistica di una cooperazione obbligatoria, ha fatto scrivere a Marco Travaglio di “scena vomitevole”, di “mani insanguinate” strette con troppa disinvoltura e della “speranza che lor signori non oseranno mai più tenere lezioni su aggressori e aggrediti, liberaldemocrazie e dittature, invii di armi per difendere i valori occidentali, il diritto internazionale, autodeterminazione dei popoli e altri capolavori di ipocrisia”. 

Marco Travaglio sulla guerra in Ucraina

La lingua batte insomma dove il dente duole: la guerra in Ucraina e il tentativo della Nato e della Commissione Europea di non darla vinta all’aggressore Putin. E questo “solo” per favorire “i porci comodi degli Usa, che rifilano all’Europa le loro merci avariate, l’allontanano dai mercati russo e cinese, la dissanguano con una lunga guerra per procura e la riassorbono a sé in una Nato di nuovo americanocentrica”. Che è stata appena allargata, tra altri “vomiti” presumibili di Travaglio, alla Finlandia e Svezia uscite da un neutralismo che le esponeva alle tentazioni di un Putin ispirato da Pietro il Grande.

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Il ghiaccio della Marmolada ha forse travolto anche i disegni di crisi di governo

  Potrebbe essere finito sotto il ghiaccio della Marmolada, e il rinvio dell’incontro con Mario Draghi a mercoledì, anche il piano di crisi di Giuseppe Conte, se davvero il presidente del MoVimento 5 Stelle è stato davvero tentato dal disegno attribuitogli di fare uscire i “suoi” ministri dal governo rimanendo in maggioranza solo a parole, con l’appoggio esterno. Che Draghi ha già rifiutato avvertendo che una tale evenienza lo costringerebbe alle dimissioni per la grande importanza politica che continua ad attribuire ai grillini, pur mutilati di un’altra sessantina di parlamentari con la scissione di Luigi Di Maio, e ormai privi della maggioranza relativa in Parlamento conquistata nelle elezioni del 2018. 

Draghi sul posto della tragedia della Marmolada

Proprio la tragedia della Marmolada, come ha voluto far capire Draghi accorrendo personalmente sul posto e parlando della crisi ambientale che ne è all’origine, ha allungato l’elenco delle emergenze con le quali il governo è alle prese. Una crisi aggraverebbe le responsabilità di chi la dovesse o volesse provocare. Conte e il Consiglio Nazionale del suo movimento, la cui riunione propedeutica all’incontro con Draghi è stata anch’essa rinviata a domani, hanno   avuto pertanto l’occasione di un’ulteriore riflessione. 

Il problema di Conte, del resto, già prima della tragedia della Marmolada col bilancio di 7 morti e 5 dispersi, era più all’interno che all’esterno del suo movimento: più con quella Sibilla Cumana che è ormai diventato Beppe Grillo e con la voglia di opposizione che serpeggia fra quanti sperano, o s’illudono, di avere tempo a disposizione per fermare da un ruolo di opposizione, dichiarata o sostanziale, l’emorragia elettorale in corso, che col presidente del Consiglio. E con le pretese, e smentite da entrambi, pressioni di Draghi sul “garante” per “far fuori” Conte anche dalla presidenza del MoVimento affidatagli dopo la perdita di Palazzo Chigi. 

Titolo del Fatto Quotidiano

Quelli del Fatto Quotidiano, che si erano buttati a pesce sulle “rivelazioni” del sociologo Domenico De Masi circa la voglia di Draghi -ma forse anche di Grillo- di liberarsi definitivamente dell’ex presidente del Consiglio, continuano a soffiare sul fuoco. E a scommettere sulla permalosità sia personale sia politica di Conte. “Draghi -ha titolato   il giornale di Marco Travaglio- provoca Conte con l’ennesima fiducia” posta alla Camera sull’ormai controverso decreto “aiuti”, che contiene una norma a favore del termovalorizzatore a Roma e un’altra restrittiva del reddito di cittadinanza: una fiducia che, precedendo l’incontro con Draghi, sarebbe una specie di schiaffo al presidente e, più in generale, al Movimento 5 Stelle, decisi a trattare a Palazzo Chigi, fra l’altro, proprio sui due particolari controversi del decreto. 

Titolo del Foglio

Nonostante le pressioni, le rappresentazioni e quant’altro del Fatto Quotidiano, rappresentativo delle tendenze più radicali o estremiste delle 5 Stelle, Conte sembra tuttavia ancora una volta tentato anche dalle solite mosse dilatorie della sua avventura politica, derise una volta da Grillo come “penultimatum”. Il Foglio, per esempio, solitamente al corrente delle informazioni in possesso di Palazzo Chigi, nel confermare che “prima si vota la fiducia e solo dopo Draghi riceverà Conte”, ha riferito di queste parole che l’ex presidente del Consiglio si sarebbe lasciato scappare: “La gestiamo”. Gestiamo, cioè, anche la fiducia scomodissima che il governo ha voluto mettere  sul passaggio parlamentare del decreto “aiuti”, e delle parti indigeste ai duri pentastellati. Che lo stesso Grillo d’altronde aveva bacchettato nella sua recente e un pò tragicomica missione di ricognizione e d’ordine a Roma pronunciandosi contro una crisi per l’inceneritore in una Capitale sommersa dai rifiuti. 

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